Le tasse colpiscono dappertutto, anche a Roma

Estratto dalla storia delle famiglie patrizie di Venezia


Una tra le cause dell’ultima, “grande diaspora” a Venezia, durante l’Ottocento, risiede, come abbiamo appena accennato, nell’impossibilità di troppe famiglie patrizie di far fronte alle tassazioni imposte dagli occupanti, specialmente quelli francesi. Ebbene, questo non è certo un unicum della Serenissima, ma un fenomeno che verificatosi puntualmente anche altrove, ad ogni cambio, diciamo così, di regime. Per esempio, a Roma; e un solo caso basta a spiegarne l’importanza: anche la collezione che per un paio di secoli è stata la più importante nella Capitale (1.867 sculture antiche e 638 dipinti, in seguito divenuti 820: compresi ben 15 Caravaggio), dopo una prima dispersione, ha visto la sua fine definitiva sancita proprio dai debiti e dalle tassazioni, che la famiglia proprietaria non poteva onorare per la mancanza di fondi liquidi.

Era la collezione iniziata nel Seicento dai due fratelli Giustiniani, il marchese Vincenzo e il cardinale Benedetto, nel loro palazzo, attualmente sede della Presidenza del Senato, di cui nessun grand-tourista ometteva comunque la visita: «Non vi è palazzo in Roma che abbia tante statue come di questo Prencipe», scriveva Pietro Rossini nel 1693; e nella sua guida, «la più diffusa in Europa in quel periodo, tradotta in varie lingue e pubblicata in grandi tirature», Joseph Jérôme Lefrançois de Lalande, quello che si stupiva perché a Venezia i libri si vendevano «come le noci», dedica ben 13 pagine alla descrizione del palazzo e di quanto conteneva.

Tuttavia, nonostante quanto prescriveva nel proprio testamento il marchese Vincenzo («L’intenzione mia è che tutte le statue e tutti li quadri di pittura... restino per mia memoria perpetuamente e per ornamento del palazzo e dei giardini miei ... et non si possano mai vendere, né alienare in qualsivoglia modo, né in tutto, né in parte, et in evento di contavvenzione voglio che quel tale che venderà o alienerà le dette statue ... sia obbligato alla confessione sacramentale [e] di pagare e di restituire al suo successore il doppio e più del giusto prezzo di esse cose vendute», una prima parte è alienata già attorno al 1720: sculture antiche cedute al cardinale Alessandro Albani, e a Thomas VIII duca di Pembroke a Wilton House. Ma il grosso va disperso tra la fine del Sette e i primi decenni dell’Ottocento. Soltanto Federico Guglielmo III re di Prussia acquista, in una volta sola, ben 157 dipinti. Per dirne una, nel 1808, con la mediazione di Dominique-Vivant Denon, allora direttore del Musée Napoleon, il Suonatore di liuto di Caravaggio, ora all’Ermitage di San Pietroburgo, è acquistato dallo zar Alessandro I.
I Giustiniani, le cui rendite erano già notevolmente diminuite, come molti patrizi romani sborsano duemila scudi d’imposta per armare la truppa pontificia di Pio VI; da Papa Braschi ottengono ipoteche (7.000 scudi) sulle loro proprietà, che ben presto però spendono per far fronte alle tasse del governo repubblicano. Tra le cause «dell’irreversibile declino», ci sono anche «le pesantissime tasse imposte dai francesi durante gli anni della loro dominazione a Roma»; e l’ultima parte di quella formidabile raccolta che trova la sua pessima fine, è il massimo lotto delle sculture. Giovanni Torlonia, «scaltro cambiavalute di origine francese», è tra i pochi, in quei frangenti, a possedere una notevole liquidità; alcune delle più prestigiose casate romane (Orsini, Borghese, Bolognetti, Braschi Onesti, Chigi) devono far ricorso proprio al banco Torlonia, «vendendo o ipotecando i propri beni, le opere d’arte per prime». Così, cedono arte ai Torlonia anche nomi prestigiosi: Colonna, Santacroce, Altieri, Crescenzi Bonelli, Soderini, Valenti Gonzaga. Il banchiere ingiunge ai Giustiniani di ripianare i debiti contratti, e l’ultimo discendente del marchese Vincenzo, suo omonimo, perde quel che gli restava della collezione: 270 sculture, di cui 115 rilevate appunto dal Torlonia. Anche se non la Minerva osannata da Goethe, che dall’Ottocento è in Vaticano; né l’immensa Testa di Costantino, che dal Novecento è al Metropolitan. Poi, un altro Torlonia s’incaricherà di trasformare le 77 sale del museo di famiglia in 99 miniappartamenti, e così quelle sculture risultano ora invisibili a chiunque da quasi mezzo secolo.


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