D’Annunzio e i Giustiniani


Il celebre Gabriele D’Annunzio cita i Giustiniani in due sue opere: Merope ed il Piacere

MEROPE
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI



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Le Laudi costituiscono l'opera poetica più notevole e più famosa di D'Annunzio; doveva essere costituita da 7 libri, quante sono le Pleiadi; consta invece di soli 4 libri (o di 5, se si include il libro di Asterope). Il primo libro, Maia (Canto amèbeo della guerra), fu composto nel 1903 e pubblicato nello stesso anno; il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale; un naturalismo pagano impreziosito dai riferimenti classici e mitologici. Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 e pubblicato nel 1903, celebra gli eroi della patria (Notte di Caprera) e dell'arte (Per la morte di Giuseppe Verdi); nella terza parte sono cantate 25 "Città del silenzio" (Ferrara, Ravenna ecc.); nella quarta è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta, che infiammò; di entusiasmo i nazionalisti. Il terzo libro, Alcyone, fu pubblicato assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del D'Annunzio poeta ( La pioggia nel pineto, La sera fiesolana,Stabat nuda Aestas). Il quarto libro, Merope, raccoglie i canti celebrativi della conquista della Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul "Corriere della Sera" e poi in volume nel 1912. Vengono considerati una continuazione di questi quattro libri i Canti della guerra latina, composti e pubblicati tra il 1914 ed il 1918 (costituiranno, in seguito, il volume intitolato Asterope, La canzone del Quarnaro).


MEROPE Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra, Italia, Italia, sacra alla nuova Aurora con l'aratro e la prora! Canto augurale per la nazione eletta [1901] ….. Ecco, o Mediterraneo, su tutte l'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro col mio cuore le impronte non distrutte. Ecco un Sagredo principe di Paro, a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo, a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro. Presso Blacherne publica il suo bando Ranieri Zeno, e quasi Imperatore ha tutta Romania nel suo comando. Il genovese Enrico Pescatore conte di Malta usurpa il fio di Creta. In regia potestà l'Asia Minore ha Martin Zaccaria, batte moneta, leva milizie e navi, si travaglia a Focea per allume, a Chio per seta, a traffico imperversa e a rappresaglia, stermina Catalani e Musulmani, tutt'armato da re muore in battaglia.
O dura schiatta dei Giustiniani, nova sovranità della Maona libera, dinastia di popolani magnifici, di re senza corona, che profuman di mastice la bianca scìa o la segnan d'una rossa zona, quando nell'isola Andriolo Banca orna templi, deduce carmi, venera Omero, èduca lauri, schiavi affranca! Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia, l'Ombre cantano come le sirene.

La canzone dei Dardanelli

Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli».

L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico. Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach.

Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena.

Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso.

Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali. I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore! Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi. Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae». Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai. Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli. Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila. Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345. Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea. Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani. Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo. Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis». I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis. Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle. I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia. Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto». Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare. La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano». Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.». la terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.

L’intero Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI della Merope di D’Annunzio


Discorso davanti a Palazzo Giustiniani di Genova

Il 7 maggio 1915, nei giardini di Palazzo Doria in Genova, Gabriele D’Annunzio ricevette il calco del Leone di S. Marco, murato nel Palazzo Giustiniani, racchiuso in una cornice di stile veneziano dall’architetto Gino Coppedè, con la seguente dedica: « Nel 55° anniversario dei Mille il leone di San Marco di Trieste da Genova ammonisce che l’Italia è fatta ma non compiuta».
Una grandissima folla accolse il Poeta, il quale si diresse verso il palazzo, mentre un’orchestra intonava la Marcia Reale. Edoardo Maragliano (1849 – 1940)
Fu ricevuto dal sindaco, Emilio Massone, dal senatore Edoardo Maragliano e da alcuni giornalisti liguri. La delegazione così composta si portò al piano nobile, dove il Poeta si affacciò, celebratissimo, dalla terrazza.
Si convenne verso il giardino, presenziato da circa duecento selezionatissimi invitati, dove prese la parola per primo il sindaco, quindi il Poeta:
«Signori! Giovani genovesi! Brevi parole dirò tanta è qui l’eloquenza delle memorie, delle cose, dei segni, tanto è grave di destino questo dono che io ricevo con cuore tremante, come se in me, per grazia di una fedeltà senza falli, a più degnamente riceverlo entrasse l’ansia di quella che laggiù soffre la fame dei corpi, soffre la fame dell’anima, violata, straziata, calcata con ferocia e, ogni giorno più, maledetta: la sentiamo qui in presenza vera, è dentro a noi come quella che volevamo scolpita e come quella statue. E diritta dinanzi a noi con tutte le sue piaghe aperte, con tutte le sue lividure, colle tracce di tutte le ingiurie come il paziente alla colonna. E dietro di lei, presenti i vizi del medesimo sangue, si levano i nove e nove martiri giovinetti dei Giustiniani e la loro madre sublime, intenta a fortificarli nel dolore terrestre e nella speranza mortale. Ah! veramente noi cominciamo a vergognarci e intendiamo il rude bisticcio di quell’uomo dei Mille, grandissimo animo in piccolo corpo, il quale ieri sera gridò nel convito, colla sua voce di assalto: meglio che prendere la parola vorrei riprendere il fucile, o compagni! Motto questo garibaldino, ben detto e ben udito in Genova. Ci piace qui ricordare come, dopo la morte di Simon Vignoso, ricostituita la nuova maona, tra i dodici soci che rinunciarono al loro casato per assumere il nome di Giustiniano fosse un Francesco Garibaldi, della dura stirpe ligure. Non questo calco, che io custodirò piamente, ma il Leone di pietra murata Genova trarrà dal glorioso muro in un altro giorno di Sagra marina e lo rimanderà per mare a Trieste: restituzione magnifica! Passa la nave in vista di Caprera che forse sentirà i ruggiti ripercossi dalla roccia, e naviga all’Adriatico. E il morto figlio di Lamba, sepolto nelle acque trionfate, e Luciano D’Oria, davanti a Pola, e Gasparo Spinola, davanti a Trieste, e gli altri terribili Nostri riappariranno in Epifania d’amore commista ai vendicati di Lisso luminosissimamente (Applausi entusiastici). E il Leone di San Marco, recato nell’Adriatico da navi di Genova, significa per gli italiani: questo mare profondo ove la cresta di un flutto è il fiore di nostra gloria si chiama di nuovo e per sempre «golfo di Venezia!»
Quindi l’orchestra suonò l’inno di Mameli e di Garibaldi.
La cerimonia a Palazzo San Giorgio. Alle ore 21, a Gabriele D’Annunzio fu donata una targa di bronzo, modellata da Giovanni Battista Bassano a ricordo della iscrizione del Poeta nell’albo d’oro del Sodalizio, presso la Sala dei Capitani.
La cerimonia quindi proseguì nel Salone delle Compere, dove il Poeta prese nuovamente la parola.
«Genova sembra oggi superare i più cari giorni della sua spiritualità e della sua magnificenza! Ieri, la città diede spettacolo di un popolo, che potentemente respira nel cielo dell’eroismo e della divinazione. Questa sera, in questo rinnovato Palagio della sua saggezza, là, nella sala dei Capitani del Popolo, ove i suoi più virtuosi padri, alzati o seduti e nelle toghe severe, incitano alla magnanimità i nepoti. Genova ha voluto celebrare la gloria della lingua, il culto della lingua, tutto ciò che in tutti i tempi fu giudicato il più prezioso tesoro dei popoli e la più alta testimonianza della loro nobiltà, indice supremo dei loro sentimenti di libertà. Ed ecco in questa sede del Banco di San Giorgio, in questa sala delle Compera, un Poeta accogliere un altro poeta. Singolarissimo evento! Mi accolse il nuovo Console e un fiero e solitario spirito, che dalle torve milizie scorse ritornare un pellegrino altero, si domandò: “Quando ritornerà Garibaldi?». L’uno dopo l’altro sono tornati. Preghiamo. Questo è! Ciascuno di noi, dica: Credo! L’uno spazia nel Quarnero, l’altro va a cercare la gloria che gli fu spezzata or sono cinquantun’anni. Perciò, in questo Palagio del Mare dove con romana brevità è raffigurata la Vittoria, noi dobbiamo ripetere ciò che si legge nella canzone delle gesta d’oltre mare: Chi stenderà la mano sopra il fuoco, avrà quel fuoco per incoronarsi!»


IL PIACERE
Libro primo - 5

IL PIACERE "Per noi Il Piacere" ha scritto Alfredo Gargiulo "è il più riuscito romanzo del D'Annunzio. Di questo parere furono, se io non m'inganno, il Verga, il Capuana e il De Roberto, buoni intenditori. È soprattutto un romanzo 'ingenuo'. vale a dire che l'autore ritrae in esso, più o meno bene, un mondo psicologico da lui in gran parte realmente vissuto nella fantasia... Conservò nelle parti buone un tocco fresco e vivace, non inaridito mai dalla pretesa di arrivare a una catastrofe estrinsecamente prestabilita". D' Annunzio stesso, nella dedica al pittore Michetti della edizione dell'89, aveva scritto: "...Questo libro, nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta sottilità e falsità e crudeltà vane...". Ma lo studio, la tristezza "non portano mai realmente i segni di un tal ardore morale contro le cose raccontate. Si lascia vedere bene, nel romanzo, una fantasia innamorata del mondo singolarissimo che inventa o trasfigura. Ma non vi mancano certo i chiaroscuri, le tinte aspre in modi, anche, profondi, e ironie molto fini. Nei capitoli più disposti a valersene la mescolanza dei sapori dolci e agri con qualche iperbolica droga sciolta, o meno, nella coppa del piacere, qui è grandemene te suggestiva" (Giansiro Ferrata). Primo della trilogia dei "Romanzi della Rosa", ispirati cioè al fiore che simboleggia la voluttà, Il Piacere rimase a lungo il più famoso dei romanzi dannunziani, esercitando un'attrazione intensa su un gran numero di lettori. Luoghi e personaggi, descritti con gusto pittorico, appartengono alla Roma aristocratica della fine del XIX secolo. Il protagonista, il raffinato conte Andrea Sperelli poeta e acquafortista, è la personificazione di D'Annunzio e persegue il suo stesso ideale di vita, nutrito da sensazioni squisite e decadenti. La cornice del racconto è un paesaggio che costituisce in un certo senso la vera anima del romanzo, e la storia appare come un estremo omaggio ai morenti temi del romanticismo ottocentesco. Per l'edonista Andrea Sperelli la morale, come ragione delle azioni umane, è ridotta a puro valore formale. Libertino senza generosità e in perpetua contemplazione di se stesso, Andrea è il tipo ideale di "amatore". Tuttavia egli è consapevole che la vita sfrenata che conduce è solo un modo di sfuggire alla realtà e vorrebbe ritrarsene se appena ne avesse la forza. Quando Elena lo abbandona, il nuovo amore per Maria Ferres sembra poterlo salvare; ma, tornato a Roma, egli viene riafferrato dall'antica passione e cade nuovamente nell'esistenza di prima. Il Piacere, col suo esplicito messaggio di vita vissuta come disinvolta e insieme perfetta opera d'arte, si presenta quale sorta di autobiografia spirituale di D'Annunzio, quale forse più compiuta trasposizione artistica del suo ideale di estetismo e intellettualismo. È anche, come bene ha scritto L. Russo, "il romanzo migliore, il romanzo più sincero, in cui l'estetismo del protagonista è ancora una fede sicura di sé e, nella sua stessa teoricità, ha qualcosa di energico e di operativo, che riscatta Andrea Sperelli da quelle ambizioni a vuoto che costituiranno l'ingombro opaco dei posteriori romanzi".

….Appena smontò, fu accerchiato da amiche e da amici che si congratulavano. Miching Mallecho, sfinito, tutto fumante e spumante, sbuffava protendendo il collo e scotendo le briglie. I suoi fianchi s'abbassavano e si sollevavano con un moto continuo, così forte che pareva scoppiare; i suoi muscoli sotto la pelle tremavano come le corde degli archi dopo lo scocco; i suoi occhi iniettati di sangue e dilatati avevano ora l'atrocità di quelli d'una fiera; il suo pelo, ora interrotto da larghe chiazze più oscure, si apriva qua e là a spiga sotto i rivoli del sudore; la vibrazione incessante di tutto il suo corpo faceva pena e tenerezza, come la sofferenza d'una creatura umana. - Poor fellow! - mormorò Lilian Theed. Andrea gli esaminò i ginocchi per veder se la caduta li avesse offesi. Erano intatti. Allora, battendolo pianamente in sul collo, gli disse con un accento indefinibile di dolcezza: - Va, Mallecho, va. E lo riguardò allontanarsi. Poi, avendo lasciato l'abito di corsa, cercò di Ludovico Barbarisi e del barone di Santa Margherita. Ambedue accettarono l'incarico di assisterlo nella questione col marchese Rùtolo. Egli li pregò di sollecitare. - Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Domani, all'una dopo mezzogiorno, io debbo essere già libero. Ma domattina lasciatemi dormire almeno fino alle nove. Io pranzo dalla Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani; e poi, a ora tarda, al Circolo. Sapete dove trovarmi. Grazie, e a rivederci, amici…..

….Nel ritorno, dal mail-coach del principe di Ferentino vide fuggire verso Roma Giannetto Rùtolo con un piccolo legno a due ruote, al trotto fitto d'un gran roano ch'egli guidava chinato avanti, tenendo la testa bassa e il sigaro tra i denti, senza curarsi delle guardie che gli intimavano di mettersi nella fila. Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di luce gialla come zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel viola, fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe Andrea la conscienza intera del male ch'egli faceva soffrire a quell'anima. La sera, in casa Giustiniani, disse all'Albónico: - Riman dunque fermo che domani, dalle due alle cinque, io vi aspetterò. Ella voleva chiedergli: - Come? non vi battete, domani? Ma non osò. Rispose: - Ho promesso…..

…Chi sono gli altri due? - Roberto Casteldieri e Carlo de Souza. Ci siamo sbrigati sùbito, evitando le formalità. Giannetto aveva già pronti i suoi. Abbiamo steso il verbale di scontro, al Circolo, senza discussione. Cerca di non andare a letto troppo tardi; mi raccomando. Tu devi essere stanco. Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, Andrea andò al Circolo delle Cacce; e si mise a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le due il Santa Margherita lo sorprese, lo forzò ad abbandonare il tavolo, e volle ricondurlo a piedi fino al palazzo Zuccari. Mio caro, - ammoniva, in cammino - tu sei troppo temerario. In questi casi, un'imprudenza può esser fatale. Per conservarsi intatta la vigoria, un buono spadaccino deve avere a sé medesimo le cure che ha un buon tenore per conservarsi la voce. Il polso è delicato quanto la laringe; le articolazioni delle gambe sono delicate quanto le corde vocali. Intendi? Il meccanismo si risente d'ogni minimo disordine; lo strumento si guasta, non obedisce più. Dopo una notte d'amore o di giuoco o di crapula, anche le stoccate di Camillo Agrippa non potrebbero andar diritte e la parate non potrebbero essere né esatte né veloci. Ora, basta sbagliare d'un millimetro per prendersi tre pollici di ferro in corpo….

Il Piacere di D’Annunzio: libro primo - 5 -


Breve biografia di Gabriele D’Annunzio

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Nato a Pescara nel 1863, pubblicò a 16 anni una raccolta di liriche, "Primo vere", cui fece seguito nel 1882 "Canto novo", di evidente filiazione carducciana. A Roma, dove s’iscrisse alla facoltà di lettere, D’Annunzio assimilò i fermenti del decadentismo europeo, dando vita ad alcuni celebri romanzi quali "Il piacere" (1889), "Giovanni Episcopo" (1891) e "L’innocente" (1892): dalla medesima ispirazione prendono corpo i versi del "Poema paradisiaco" (1893), in qualche modo anticipatori di modi e stilemi che caratterizzeranno, in seguito, la poesia crepuscolare. Successivamente, alla luce delle teorie nicciane del "superuomo" tuttavia rielaborate in chiave estetizzante, vengono forgiati romanzi ("Il trionfo della morte", 1894; "Le vergini delle rocce", 1895; "Il fuoco", 1900) e drammi ("La città morta", 1899; "La Gioconda", 1899) di sicuro valore; dipoi il Nostro, ritiratosi nella villa La Capponcina a Settignano, si dà ad una intensa attività di scrittura. Nascono così i primi tre libri ("Maya", "Elettra" e " Alcyone") delle "Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi", editi nel 1903; le tragedie "Francesca da Rimini" (1902), "La figlia di Iorio" (1904), "La fiaccola sotto il moggio" (1905), "La nave" (1908), "Fedra" (1909), oltre al romanzo "Forse che sì forse che no" (1910). Riparato in Francia in volontario esilio, dopo aver perduto la propria abitazione per debiti, egli scrive nella lingua del paese che l’ospita "Le martyre de Saint Sébastien" (1911), musicato da Debussy, ed il quarto libro delle "Laudi" ("Merope", 1912). Tornato in patria all’esplodere del primo conflitto mondiale, si proclama da subito interventista e si distingue per le sue imprese belliche (celebre la "beffa di Buccari" del 10 febbraio 1918): ferito ad un occhio, verga le pagine del "Notturno", opera sua tra le più perfette e compiute. Ideatore, terminata la guerra, della marcia da Ronchi a Fiume, si ritira infine nella definitiva residenza di Gardone, da lui denominata il " Vittoriale degli Italiani ": ivi si spegne, dopo un lungo periodo d’isolamento, nel 1938.

Le Opere di Gabriele D’Annunzio scaricabili gratis da internet sul sito www.liberliber.it


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