STORIA DELLA CITTA’ DI GENOVA
DALLE SUE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA

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Testi in larga parte tratte dai siti:
L'orizzonte di Genova
Il Caffaro.com
Genova nei secoli d’oro
El siglo de los Genoveses
Genova in rivolta dal sito "fiammecremisi" dedicato ai bersaglieri
Per ulteriori approfondimenti:
Società Ligure di Storia Patria
Un elenco di siti Genovesi de Il Caffaro.com
www.francobampi.it/liguria diversi link di storia Genovese e Ligure.
ANNALI DI CAFFARO (Cafarus)
Storia di Genova su Liguria Indipendente


LE ORIGINI DELLE POPOLAZIONI LIGURI: I PRIMI INSEDIAMENTI


I Liguri, che occupavano l’Europa occidentale, dal delta del Rodano a tutto il Nord Italia, ebbero molti contatti con il medio Danubio e la penisola Iberica. Dalla zona paludosa del delta derivò il loro nome: da Liga, fango o palude. Lo sviluppo della navigazione li portò a commerciare con le più progredite civiltà del Mediterraneo. Fin dal periodo neolitico scambiarono merci con Lipari, con gli Etruschi ed infine con i Greci.
In epoca più recente si ritirarono combattendo sotto l’incalzante avanzata delle altre popolazioni.
Gli Ambroni, sotto la pressione delle popolazioni celtiche, scesero dallo Jütland in territorio ligure dove s’integrarono avviando il commercio dell’ambra lungo la direttrice del Rodano imponendo il loro nome a tutta la popolazione ligure autoctona.
Nel 700 a.C. sbarcarono nel Golfo del Leone i primi commercianti greci. Nel 600 a.C. i Focesi fondarono Marsiglia e, per rendere sicure le vie di comunicazione con l’interno, occuparono pacificamente la zona facendo retrocedere i Liguri Segobrigi di Re Nanno. I Liguri, che erano stati fino ad ora i principali importatori d’ambra verso il Mediterraneo, retrocessero fino a Monaco ribattezzata dai Greci di Marsiglia "Portus Herculis Monoeci". Referente mitico della resistenza degli Ambroni e dei Segobrigi all’avanzata greca fu la leggenda secondo cui Eracle, di ritorno dalle Colonne d’Ercole, dovette retrocedere, dopo il Rodano, di fronte ai figli di Poseidone, Albione e Ligure.
Nel IV secolo a.C. gli Etruschi, sconfitti i Focesi ad Aleria, s’impadronirono dell’isola d’Elba, appartenente ai Liguri Ilvati, e Luni.
I confini dei Liguri, per via dall’avanzata dei Greci e dei Celti (a partire dal V secolo a.C.), si ridussero fino a comprendere Toscana, Bologna, Milano e Monaco. Stretti tra gli Etruschi ad est, i commerci di Marsiglia ad ovest e i Celti Insubri, Boi e Cenomani a nord dovettero stanziarsi tra il mare ed il Po mentre i Celti occuparono tutta la zona transpadana senza particolari attriti.
Leggende attribuiscono la fondazione di Genova a Giano, profugo da Troia. Il dio eponimo, Giano bifronte, protettore di navi e monete, fu solitamente inteso come simbolo: dei due specchi acquei ai lati del promontorio dove nacque il primo porto o della via di transito (porta) dei commerci genovesi tra il mare e la pianura Padana.
La fondazione avvenne nel VI secolo ad opera di mercanti fenici che portavano il sale dalla Corsica alla Svizzera. Da Genova aprirono la "pista del sale" lungo la direttrice Bisagno - Trebbia. Un’indagine glottologica sul nome "Genua", diventato poi dopo il X secolo "Janua", portò ad evidenziare due radicali indoeuropei ed uno greco: "Mascella" e quindi "bocca" come città di sbocco. "Gomito" la forma dell’insenatura del porto. ”Ritrovo di forestieri" (“Xenos” in greco) e quindi porto.
Sull'origine del nome "Genova", esistono quindi diverse interpretazioni, ma, di sicuro, quella più affascinante è che essa derivi dalla parola latina "Janua", cioè "porta".
Tra il V ed il IV secolo a.C. furono frequenti i contatti commerciali con Etruschi, Cartaginesi, Campani e principalmente con i Greci (Ateniesi e Massalioti) ma nessuno di questi popoli subentrò o dominò la città. Genova, abitata dai Liguri Genuati, era considerata dai Greci, dato il suo forte carattere commerciale, "l’emporio dei liguri": legname per la costruzione navale, bestiame, pelli, miele, tessuti. Il nucleo urbano del Castello iniziò, per i fiorenti commerci, ad ampliarsi verso Prè (la zona dei prati) e verso il Rivo Torbido.


GENOVA IN EPOCA ROMANA


I Liguri Montani, abitanti tra il col di Cadibona ed il col di Tenda, erano legati ai Cartaginesi cui fornivano, per tradizione, mercenari "valorosi e pugnaci". Invece Genova, data la sua posizione strategica come porto e per via degli interessi commerciali con Marsiglia (alleata romana contro i Cartaginesi) ottenne un foedus aequum con Roma.
Durante la prima guerra punica (221-202 a.C.) Annibale espugnò la città ligure di Torino (218) e Publio Cornelio Scipione trasferì le sue truppe dal Rodano a Genova con 60 navi. In città reclutò navi ed equipaggi per fronteggiare Annibale.
Nel 207 a.C. circa 8.000 Liguri Montani si arruolarono con Asdrubale, non appena questi varcò le Alpi; Genova e le altre città della costa restarono fedeli a Roma. Il Generale cartaginese Magone partì dalle Baleari, per portare aiuto al fratello Annibale, con 30 navi rostrate e molte onerarie, 12.000 fanti e 2.000 cavalieri. Saccheggiò Genova nel 205 a.C. trasferendo il bottino a Savona.
Gli Ingauni, in guerra con gli Epanteri, promisero truppe in cambio del suo aiuto contro i loro nemici. Lasciate dieci navi rostrate a guardia di Savona e inviate le altre a difendere Cartagine, Magone costrinse alla resa gli Epanteri.
Nel 204 a.C. 8.000 soldati romani innalzarono una cinta muraria attorno a Genova e costruirono, sul colle prospiciente il porto, un castello.
Magone ripose le sue speranze nei Galli Insubri e nei Liguri Montani, ma dovette partire nel 203 a.C. con solo pochi volontari liguri e fu sconfitto in Val Padana. Tornò, ferito, a Savona dove salpò per Cartagine morendo prima di arrivarci.
Due anni dopo il pretore Lucrezio Spurio terminò la ricostruzione di Genova. Il centro cittadino fu edificato lungo la Valle Aurea, zona dell’attuale porto.
Era già presente la via Tusca [via della Tosse] che portava a levante e dall’altro lato scavalcava con un ponte, "ponticello" [da quella che poi sarà la Porta di S. Andrea verso S. Vincenzo], il Rivo Torbido.
Nel 201 a.C. gli Ingauni chiesero, per evitare rappresaglie postbelliche, unfoedus non aequum con Roma e lo ottennero venendo così a creare una via di terra diretta con Marsiglia.
Le rivolte liguri durarono per anni ma si mantennero sempre a livello di guerriglia, tanto che si diceva: "È più facile sconfiggere i Liguri che trovarli".
Nel 197 a.C. Q. Minucio Rufo partì da Genova contro le tribù dei Celelati, Cordiciati e Ilvati. Il Console, varcati i Giovi, riconquistò quindici città e costrinse alla resa 20.000 uomini.
Dal 193 a.C. al 191 a.C. il Console Quinto Minucio Termo combatté gli Apuani e i Liguri Montani di levante.
Dal 188 a.C. il Console M. Valerio Messala, i Consoli C. Flaminio e M. Emilio ed il Console Q. Marcio Filippo non ebbero buona sorte nelle loro spedizioni. Quest’ultimo perse, in un imboscata, 4.000 uomini e numerose insegne.
Nel 185 a.C. M. Sempronio Tuditano saccheggiò il litorale. Nel 184 a.C. operarono in Liguria i Consoli P. Claudio Pulcro e L. Procio Licino. Nel 183 a.C. vi fu l’offensiva di Q. Fabio Labeone e M. Claudio Marcello. Nel 181 a.C., per contrastare le azioni di pirateria degli Ingauni (federati romani), il Console ligure L. Emilio Paolo chiese, sconfitti i Sabazi, una resa incondizionata agli Ingauni. Questi lo assalirono di sorpresa; in suo soccorso giunsero rinforzi ed una flotta al comando di Caio Matieno. In pochi giorni gli Ingauni si arresero: caddero 15.000 liguri, furono catturati 2500 uomini e 32 navi da corsa.
Nel 180 a.C. P. Cornelio e M. Bebio costrinsero 12.000 liguri alla resa e deportarono 40.000 nuclei famigliari a Sannio, presso Benevento. In seguito Aulo Postumio e Quinto Fulvio ne deportarono altri 7.000. Nel 173 a.C. il Console M. Popillio Lenate assalì senza motivo la città, "amica dei romani", di Carystum. La città, che perse difendendosi 10.000 soldati, fu distrutta, i beni confiscati e tutti i suoi abitanti ridotti in schiavitù.
Nel 172 a.C., sotto il consolato di Caio Popillio e P. Elio Ligure, Popillio Lenate affrontò nuovamente gli Statielli lasciandone sul campo 6.000 e per queste sue azioni dovette comparire davanti al Pretorio per insubordinazione. Nel 155 a.C. vi fu un tentativo di rivolta da parte dei rimanenti Liguri Apuani represso da M. Claudio Marcello.
Nel 154 il Console Q. Opimio si diresse da Piacenza per Genova fino al Varo per combattere i Liguri Oxibii e Deciati.
Nel 148 a.C. il Console Postumio Albino costruì in Liguria la Genova - Libarna - Tortona, strada parzialmente munita (vale a dire percorribile dai carri). La "Postumia" da Tortona passava poi per Piacenza e attraverso Verona giungeva ad Aquilonia collegando i due mari. A Piacenza la "Aemilia Lepidi" collegava la "Postumia" con Rimini. Nel 109 a.C. Emilio Scauro aprì la via "Aemilia Scauri" che da Pisa, portava a Tortona passando per Genova. Divenne fondamentale la via marittima da Pisa e Luni per Marsiglia con scalo a Genova.
Nel 109, per la minaccia dei Cimbri, si creò una deviazione della "Postumia" attraverso la Val Bormida e il passo della Bocchetta. La "Postumia", restaurata da Augusto nel 13 a.C. e collegata con il tratto Tortona - Vado della "Aemilia Scauri", divenne "Iulia Augustea" e sarà per lungo tempo l’asse portante dell’Impero verso le Gallie, tagliando fuori Genova e facendo di Tortona il centro delle vie commerciali di terra.
Genova, per via dei maggiori commerci, si ampliò sviluppandosi tra le attuali Piazza Sarzano, via Santa Croce, Salita a S. Maria di Castello e via Mascherona. I cimiteri erano a S. Lorenzo, S. Andrea e S. Maria di Castello.
Genova (città Genuata) formava, dopo la stipulazione del foedus con Roma, uno stato autonomo libero di reggersi con proprie leggi ed aveva già dal 117 a.C. soggiogato le popolazioni limitrofe che erano a lei adtributae. I Liguri non parteciparono alla guerra sociale (91-88 a.C.) e per tale motivo ottennero la cittadinanza di diritto latino.
Genova partecipò alla campagna contro i pirati cilici di Pompeo Magno (68-67 a.C.) ed ospitò la flotta di Marco Pomponio Malo a difesa della riviera.
I Liguri fornirono uomini, armi e rifornimenti alle legioni di Cesare durante la campagna in Gallia (58-50 a.C.). Nel 49 a.C. Cesare con la "Lex Rubia de Gallia Cisalpina" estese la cittadinanza a tutti i Liguri: Genova da oppida, alleata e confederata, divenne civitas e Municipio romano. Prima i Genovesi non avevano diritto di voto ma furono governati da un praefectus juri dicundo romano.
Eretto a Municipio di cittadinanza romana, iscritta alla tribù Galeria, ottenne lo stesso ordinamento amministrativo e politico di Roma.
Nel 18 a.C. era di stanza a Genova l’Ammiraglio Menenio Vipsanio Agrippa e nella sua casa fu ospite per due anni Ottaviano. Quasi tutti i funzionari romani di stanza a Genova si fecero costruire ville nelle campagne circostanti: a Corneilanum [Cornigliano], Pyla Veituriorum [Pegli], Veiturium [Voltri], Pons ad decimum [Pontedecimo] Riparolium [Rivarolo] Quinci [Quezzi] Quartus [Quarto] e Quintus [Quinto]. Le località spesso erano indicate solo con la loro distanza dalla città: Quartus lapis ad urbe Januae (quarta lapide prima della città), Pons ad decimum (Ponte al decimo miglio).
All’epoca la città era piccola, stretta tra il mare, il Castro, borgo Tascherio e località Canneto. Si estendeva attorno al Mandraccio (il porto primitivo) Piazza Cavour, Via Giustiniani, Porta Soprana ed il castello di Sarzano.
Con la nascita dell’impero (15 a.C.) i Liguri, come anche molte altre popolazioni, si sollevarono.
Il Re di Susa Cozio I si sottomise ai romani solo nel 13 a.C. divenendo praefectus civitatium delle Alpi Cozie. Le Alpi Marittime furono organizzate in praefectura, governata da comandanti militari di rango equestre e con truppe non legionarie e dal 69 la circoscrizione divenne provincia procuratoria. I Liguri della costa tra il Varo e Genova erano invece di diritto Italico.
Il 6 d.C. Augusto istituì undici regioni con funzioni amministrative a livello di censimento e catasto. La regione non ebbe direzione amministrativa propria (deputata alle città) ma fu usata come struttura di suddivisione statistica.
Il confine della IX regione iniziava da Luni (città d’origine focese, poi colonia romana), seguiva il Magra fino allo spartiacque appenninico, scendeva verso il Trebbia e giungeva nei pressi di Piacenza (tra Voghera e Costeggio); proseguiva lungo il Po, risaliva lungo la Valle Stura fino alle Alpi Marittime e deviava verso il Varo seguendolo fino alla foce.
Nizza, pur essendo geograficamente nella IX regione, dipendeva amministrativamente da Marsiglia che la governava con un episcopus affiancato, a partire dal III secolo, da un procuratore imperiale. Nel III secolo fu incorporata dalla provincia delle Alpi Marittime.
Già verso il 100 la IX regione assunse il nome di Liguria. L’apertura dell’Aurelia, con conseguente incremento dei commerci e sviluppo del porto, portò all’ampliamento del molo e alla costruzione dell’acquedotto che incanalava il Bisagno.
Nel 58 i santi Nazario e Celso sbarcarono alle Grazie (presso il Mandraccio) e catechizzarono il territorio ma la comunità cristiana restò in ombra fino a metà del III secolo.
Tra il I ed il II secolo a.C. il cavaliere di Tortona Q. Marius Iulanus fu decurione a Genova ormai inclusa nel circuito commerciale della più florida vicina.
Nel 193 Publio Elvio Pertinace, nato presso Vado, divenne Imperatore e lo rimase per solo 88 giorni. Nella seconda metà del III secolo a.C. l’impero affidò il governo delle regioni a comites, fiduciari personali dell’Imperatore.
Alla fine del II secolo vi fu un notevole incremento economico: iniziò una serie regolare di importazioni di grano dalle isole e dall’Africa che era conservato in magazzini sorvegliati da una guarnigione distaccata da Milano. Fino al III secolo le città italiane erano autonome amministrativamente ed esenti da imposte fondiarie ma già nel IV secolo, in seguito all’acquisizione della cittadinanza romana e di alcune riforme fiscali, compaiono i correctores, funzionari dotati di imperium, poi sostituiti da consulares.
Con Diocleziano (284-305) la Diocesis Italiciana era governata da due vicari praefectorum Praetorio uno (vicarius Italiae) per la Regio Annonaria ed uno (vicarius Urbis Romae) per la Regio Urbicaria. Milano divenne capitale della Regio Annonaria che comprendeva la provincia di Liguria et Aemilia. L’asse Milano - Genova (come anche quella Milano - Ravenna) rimase fondamentale, fino all’invasione longobarda, per il collegamento via mare ai porti provenzali e perse d’importanza il collegamento tra il Nord Italia ed il Rodano attraverso il Monginevro e la Valle della Durance, a causa della minaccia barbarica.
La Liguria aveva perso il territorio tra Framura e il Magra, annesso a Luni (provincia di Tuscia et Umbria) e Nizza, annessa alle Alpi Marittime. A Nord le Alpi la dividevano della provincia delle Alpi Graie e Pennine e della Rezia ed infine l’Adda la separava dalla provincia di Venetia et Histria.
Sotto Teodosio (346-395), per volontà del Metropolita milanese S. Ambrogio, si edificarono in Genova numerose chiese e cappelle e fu innalzata la basilica cimiteriale di S. Lorenzo presso il sepolcreto.
Con la fine del IV secolo l’influsso provenzale di Arles su Genova era fortissimo sia a livello commerciale sia artistico: S. Genesio, martire arleanese, ebbe a Genova una chiesa a lui dedicata nella zona di S. Lorenzo a Levante della via Publica, a valle della necropoli.
All’inizio del IV secolo la comunità genovese divenne chiesa episcopale ed ebbe come primo Vescovo nella sua Diocesi S. Valentiniano (312-325). Gli succedette fino alla metà del IV secolo il Vescovo Felice e a lui seguì S. Siro.
S. Siro, nato in Val Bisagno in località Emiliano (S. Siro di Struppa) nel pago di Molassana, fu avviato al sacerdozio dal Vescovo Felice. Inviato a villa Matuziana (S. Remo) riceve in dono, a causa dei suoi miracoli, vasti terreni (i fines Matutianenses e i fines Tabienses) nella zona di S. Remo, Ceriana e Taggia che poi divennero proprietà della chiesa di Genova, costituendo de facto una contea ecclesiastica. Nominato Vescovo per acclamazione popolare, cacciò con la forza della sua predicazione l’eresia ariana dalla basilica dei XII Apostoli (chiesa episcopale extra moenia) nel 361. Il Vescovo di Genova Diogene nel 381 partecipò al sinodo di Aquileia. Dopo di lui divenne Vescovo S. Romolo.
I primi Vescovi di Genova furono: S. Valentiniano, S. Felice, S. Siro, Diogene, S. Romolo, S. Salomone, Pascasio, Eusebio.


GENOVA TRA IL 500 E IL SETTECENTO: LE INVASIONI BARBARICHE


Genova romana non è considerabile una città di importanza rilevante anche sotto l'aspetto portuale e commerciale. Solo con la caduta dell'impero e con i significativi mutamenti imposti dalle invasioni barbariche, Genova inizia un'altalenante ma pur sempre crescente scalata all'autogoverno e alla potenza economica.
La decadenza viaria romana locale e la conformazione geografica isolano Genova dal resto della penisola salvaguardandola dalle devastanti invasioni che si abbattono sui resti dell'impero. Proprio la sua condizione "protetta" ne aumenta l'importanza, la necessità di uno scalo tirrenico sicuro per la lotta alla pirateria è il primo passo verso la crescita cittadina.
Tra il IV e il V secolo il porto di Genova divenne scalo quasi obbligatorio nei commerci tra Milano e le coste di Sicilia e Africa dato che la via "Postumia" consentiva di arrivare a Milano in soli tre giorni. Dal punto di vista dell’economia agricola abbiamo: Lo svilupparsi del latifondo sia nobiliare sia curiale privo, dal 323, di obblighi straordinari. Già nel 357 la vendita del latifondo era vietata senza i suoi coloni; L’inserimento di proprietari terrieri nella nobiltà senza che vi fosse alcun rimpiazzo da parte delle classi inferiori. Il problema divenne urgente tra il 400 ed il 450; l’inasprimento fiscale che portò al diffondersi, nel V secolo, del patrocinium con cui un piccolo proprietario cedeva le sue terre ad un latifondista riottenendole in precarium o come colono.
Il 18 novembre 401 il Re visigoto Alarico (376-411) passò le Alpi Giulie e dilagò fino alla Liguria. Il Generale Stilicone, raccolto l’esercito imperiale impegnato in Rezie e passato l’Adda, giunse a Milano nel marzo 402. Alarico, raccolti gli eserciti a Piacenza e Tortona, fu costretto, dopo la battaglia di Pollenzo del 6 aprile 402, a ritirarsi in Veneto.
La parte orientale della Liguria subì nel 405-6 le orde del Re ostrogoto Rodagaiso.
Nel 410 Alarico tornò in Liguria per imporre il riconoscimento dell’Imperatore Attalo, a lui gradito. Nel 412 Re Ataulfo (411-415), dopo il matrimonio con L’Imperatrice Galla Placida, guidò i Goti verso la Gallia passando lungo la "Iulia Augusta", evitando Genova ma devastando Albenga e Ventimiglia.
Il Generale Flavio Costanzo, poi marito di Galla Placida e Augusto con Onorio, istituì nel 421 la provincia delle Alpi Appennine con capitale Genova (detta anche Liguria Alpium, Liguria Maritima, Provincia Italorum Maritima o Maritima). Dopo il Po vi era la "Liguria transpadana" con capitale Milano.
Tra IV e V secolo, a causa delle minacce barbariche, vi fu un richiudersi di Genova (comune anche ad altre città) in un cerchio di mura ristretto e più difendibile [S. Nazario, sud di S. Cosma, Piazza S. Giorgio, la chiavica, S. Donato, Prione, Porta S. Andrea, Sarzano, S. Croce e S. Nazario]. Si spianarono le case esterne a ridosso delle mura: tale zona assunse il nome di "Canneto" [via Canneto] perché dal colle di S. Lorenzo alla valle dove corre la via publica il terreno incolto venne invaso dal cannetum. Le parti della città che rimasero fuori dalle mura cittadine sopravvissero come borghi commerciali separati, vitali ma indifesi. La parte orientale della Liguria subì nel 452 le orde del Re unno Attila.
Dopo la costituzione del Regno Vandalo d’Africa e l’occupazione di Cartagine del 440 iniziò l’offensiva del Re vandalo Genserico alle coste italiane. In quest’occasione si ebbe una parziale militarizzazione della popolazione civile che fu abilitata all’uso delle armi ed ebbe incarichi di difesa nei confronti di mura e porte cittadine. Nel 440 la navigazione divenne del tutto impossibile per via dei corsari vandali.
Per fronteggiare le incursioni Vandale dal mare s’instaurò un collegamento tra la Marittima e la provincia della Tuscia Annonaria (sorta nel 458 e comprendente Arezzo, Firenze, Lucca, Luni e Pisa) al fine di avere un’unica frontiera marittima.
In questo frangente rimase importante, nonostante tutto, la funzione commerciale di Genova come scalo per le Gallie e la Spagna. Le Alpi Marittime, la Narbonense e parte della provincia Viennensis vennero de facto unite al regno visigoto. Ciò fu commercialmente valido per Genova nonostante gli inasprimenti fiscali, che colpirono principalmente la piccola proprietà terriera, e la non florida condizione delle Gallie.
Lo stanziarsi in Italia degli Ostrogoti non alterò gli equilibri sociali ed economici (anche se ufficialmente cadde l’Impero Romano d’Occidente) e il Re ostrogoto Teodorico (457-526), pur senza avere un proprio rappresentante, esercitò la propria autorità sulla città di Genova.
In quel periodo vi era a Genova, sintomo dei floridi commerci, un’antica comunità ebraica. I Vandali d’Africa, che si dedicarono alla pirateria, furono sconfitti dal Generale bizantino Belisario.
Genova rimase quindi lo scalo commerciale preferito dal momento che la "Flaminia - Aemilia" si trovava sotto la minaccia delle orde barbariche.
L’agricoltura ligure all’inizio del 500 era in netto declino per via dei continui passaggi di truppe sul territorio (508-9 e 523), delle carestie, delle incursioni Burgunde del 493 e del 534 e Alemanna del 536. Tra il 535 e il 536 Re Teodato ordinò di vendere ai Liguri colpiti dalla carestia la terza parte del frumento raccolto nei magazzini di Pavia e Tortona.
L'Impero Romano, cade definitivamente nel 476, Odoacre si fece proclamare Re, deponendo l'ultimo Imperatore romano Romolo Augustolo e l'arrivo dei Longobardi nel 569, Genova riuscì a mantenere una propria autonomia grazie alla posizione favorevole che permetteva all'Impero di essere salvaguardato dalla minaccia degli arabi. Ed è proprio da questa situazione favorevole che Genova riuscirà ad attivare tutti i commerci che la renderanno una delle città più importanti e conosciute dell'epoca.
Nel dicembre 537, durante una tregua tra Re Vitige (536-543) e il Generale Belisario, giunse a Roma, assediata dai Goti, una delegazione di notabili liguri, guidata dall’Arcivescovo Dazio, che sollecitò l’intervento bizantino, promettendo la rivolta delle popolazioni liguri, per rovesciare il regno dei Goti.
I bizantini si accorgono delle potenzialità strategiche di Genova e ne fanno uno dei loro capisaldi nel nord Tirreno. Il legame tra la città e l'Impero Bizantino costituisce uno stimolo al commercio.
Il Generale Belisario inviò 1.000 Isauri e Traci, comandati da Paolo ed Enne, Fidelio Felice fu nominato praefectus Praetorio. Approdarono a Genova nel 538, trasportarono le barche con cui passare il Po presso la "Postumia" per non usare il ponte tra Pavia e Tortona che era presidiato dai Goti e presero Milano dopo aver sconfitto i Goti a Pavia.
A Genova i Bizantini tennero un forte presidio, che nel 544 era sotto il comando di Bono, nipote del Generale Giovanni, ma la città non risentì della loro guerra contro i Goti. Le milizie bizantine fondarono la cappella di S. Giorgio (santo della Cappadocia) nei pressi del porto vecchio, accanto al loro presidio militare.
Uraia, nipote del Re Vitige, al comando di 10.000 Borgognoni, assediò Milano e la città, visto il ritardo dei soccorsi imperiali, si arrese per fame nel 539. La città fu rasa al suolo e tutti i suoi 300.000 abitanti maschi furono giustiziati. Uraia proseguì fino a Tortona dove venne fermato dai Bizantini.
Il merovingio Teodeberto (534-547) calò in Liguria con 100.000 uomini e travolse entrambi i contendenti a Tortona: le truppe bizantine si dovettero rifugiare in Tuscia. I Franchi saccheggiarono la regione e Genova ma, decimati dal colera, dovettero rientrare in Austrasia mentre i Bizantini guidati dai generali Martino e Giovanni rioccuparono il Tortonese e ricostituirono il confine al margine cispadano.
Belisario assediò Re Vitige a Ravenna. In quel periodo Sisige, governatore goto delle Alpi Cozie si consegnò alle truppe bizantine del Generale Tommaso. Uraia, che con 4.000 Goti stava dirigendo verso Ravenna, dovette dirigere verso le Cozie in quanto gran parte dell’esercito aveva famiglia nei castelli ora in mano bizantina. Le truppe bizantine di stanza a Tortona vennero in aiuto di Sisige impedendo la riconquista della regione da parte di Uraia e nel Maggio 540 Ravenna cadde e Re Vitige si arrese.
Terminate le ostilità con gli Ostrogoti, quelle contro Alemanni e Franchi proseguirono fino al 563.
La classe senatoria fu impegnata a recuperare le terre confiscate da Totila e a riassestarle, dato lo stato generale di incuria in cui erano cadute. La curia ligure era praticamente scomparsa e nel suo processo di riorganizzazione diede origine ad una forte penetrazione lungo le vie di comunicazione con l’interno: nacquero S. Cipriano e di S. Olcese. Il governo imperiale di Norsete, considerando l’Italia una provincia, incaricò dell’amministrazione funzionari di origine orientale.
Nel 569 i Longobardi di Re Alboino (560-572) presero Bergamo, Brescia, Ivrea, Milano, Novara, Torino, Treviso, Verona, Vincenza; si diressero verso le Gallie e strinsero d’assedio per tre anni Pavia. La flotta bizantina sul Po ed i collegamenti marittimi di Genova riuscirono ad impedire loro l’ingresso in Liguria.
Si ebbe in questo periodo una forte militarizzazione della società civile: il territorio fu suddiviso in distretti castrensi e, data la scarsezza di truppe, la popolazione rurale venne trasformata in coloni limitanei mentre quella urbana diede origine ai numeri cittadini.
A Genova si formò un exercitus comandato da un vir magnificus, praefectus vices agens e formato da reparti di milizia cittadina e da laeti. La milizia, con sede nella basilica di S. Giorgio, era composta da numeri i quali, agli ordini di un comes tribuno, reclutavano nelle diverse contrade dai 200 ai 400 uomini; i laeti erano invece milizie barbare al servizio dell’impero.
Durante l’invasione longobarda e sotto il regno di Totila (574) Genova divenne il naturale rifugio della classe dirigente milanese. Il 3 settembre 569 a Genova giunse il Metropolita Onorato con al seguito il clero maggiore e tutta la nobiltà milanese, dato che i Longobardi avevano occupato la città.
L'invasione longobarda (568) travolge i bizantini nel nord della penisola risparmiando però Genova. Il Vescovo milanese si trasferisce in esilio a Genova per circa 70 anni. Viene adibita a sede la chiesa di S. Ambrogio (oggi chiesa del Gesù). Tra il 642 ed il 644 i longobardi riescono a saccheggiare o forse addirittura a distruggere Genova.
Per Genova, il periodo longobardo costituisce una fase di stagnazione se non addirittura di temporaneo declino commerciale.
Onorato divenne Vescovo di Genova, non appena la carica divenne vacante, ed i successivi Vescovi in esilio mantennero tale incarico. Questi furono i Vescovi in esilio: S. Onorato, Lorenzo Costanzo, Deus Dedit, Asterio, Forte, S. Giovanni Bono. In questo periodo d’esilio la nobiltà milanese contribuì all’erezione della chiesa di S. Ambrogio, voluta dal Metropolita Costanzo, e della basilica dei SS. Vittore e Sabina. Il clero genovese era tenuto a recarsi in processione a S. Ambrogio in occasione delle feste dei Santi Ambrogio, Gervasio, Protasio e Andrea e tale obbligo venne definitivamente fissato dal Metropolita Giovanni Bono durante i preparativi per il rientro della sede episcopale a Milano.
I Vescovi milanesi furono sepolti nella basilica cimiteriale di S. Siro ad eccezione di Onorato (sepolto a Noceto di Camogli) e di Forte (la cui sepoltura è ignota per via dei disordini seguiti all’invasione longobarda di Genova).
La comunità milanese si stanziò nel Brolium, terreno fiscale presso la porta di S. Andrea, dove la chiesa episcopale ricevette dal governo imperiale numerosi terreni e proprietà. Il Brolium, che deriva da brogilus: "bosco" oppure "orto" si trovava alle pendici nord - ovest del colle del Castello, attorno alla chiesa di S. Ambrogio.
Alla chiesa milanese furono anche donati terreni ad Albaro, Staglieno, Bargagli, Crovara, Neirone, Carpeneto, Lumarzo, Recco, Noceto, Capodimonte ed inoltre il Metropolita milanese ebbe giurisdizione per secoli sulle quattro circoscrizioni plebane di Camogli, Rapallo, Recco e Uscio.
Nel 573, alla morte di Alboino i Franchi, fiaccati dalle ripetute incursioni, si accordarono con i Longobardi.
Durante il periodo dell’interregno (574-584), quando molti Duchi si posero sotto la protezione imperiale seguendo Rosmunda ed Elmichi (gli uccisori di Alboino) nelle file bizantine, le schiere longobarde riuscirono a passare il Po all’altezza della Liguria.
Nel 582 Tiberio II avviò la riorganizzazione distrettuale dell’Italia bizantina (l’Eparchia Urbicaria comprese il versante toscano e ligure dell’Appennino) e provvide anche a un graduale inserimento delle milizie longobarde all’interno della struttura militare bizantina tentando di renderle affidabili attraverso la conversione al cattolicesimo.
I Franchi tra il 584 ed il 604 effettuarono numerose incursioni in Nord Italia. I Bizantini si ritirarono sulla linea Stura - Tanaro e tennero la piazza di Tortona e tale linea fino al 599. I Longobardi occuparono la Val di Taro e Val Gotra.
Nel 594 Re Agiulfo (591-616) prese Parma e Piacenza e consolidò le conquiste nel 603 cacciando i Bizantini da Brescello, Cremona, Mantova e Reggio. I Bizantini, essendo Tortona indifendibile, si ritirarono in Val Trebbia ed arretrarono sulla sinistra dello Scrivia.
Nel 594 Agiulfo si diresse contro Roma attraversando la Val di Taro, Val di Magra, Val Aulella, Val di Serchio e Lucca. I Bizantini si ritirarono e tennero la Valle Scrivia, Gavi, il castello di Bargagli e tutta la zona lungo il crinale tra il Bracco e Passo di Cento Croci.
Il Concilio di Costantinopoli condannò i Tre Capitoli il 2 giugno 553: le chiese di Liguria, Veneto ed Istria crearono ad uno scisma. Agiulfo e Teodolinda, nonostante la monarchia longobarda sostenesse lo scisma tricapitolino, avviarono una politica filocattolica. Il 7 aprile 603 Teodolinda fece battezzare, nella cattolica S. Giovanni di Monza, il figlio Adaloaldo.
Agiulfo nel 613 cedette in uso perpetuo a S. Colombano la zona di Bobbio, in Val Trebbia. Il monastero di Bobbio (longobardo e cattolico), attivissimo centro di evangelizzazione e di rinascita agricola sotto la protezione del Papa, fondò quello di S. Pietro della Porta, presso le mura della bizantina Genova, e lo dotò di ampie tenute agricole.
Nello stesso periodo i Vittorini di Marsiglia fondarono il monastero di S. Vittore nei pressi della chiesa paleocristiana dei SS. Vittore e Sabina.
Nel 725 giungono dall'Africa i resti di S. Agostino per essere poi trasportati a Pavia.
Il Metropolita Giovanni Bono partecipò nell’ottobre 649 al Concilio Romano e non aderì allo scisma. Genova tagliata fuori dall’entroterra padano con cui commerciava venne sempre più esclusa anche dal circuito commerciale mediterraneo.
A fine ottobre 643 il Re longobardo Rotari (636-652) tentò la conquista di Ravenna ma venne bloccato sul Panaro dall’Esarca Isacio. Ripiegò in Garfagnana e poi lungo la Val Aulella e proseguì conquistando la Marittima fino a Ventimiglia. Saccheggiò la Liguria, espugnò Genova e ne abbatté le mura. La civitas di Genova fu ridotta a vicus.
Genova, istituita in Judiciaria, venne affidata al governo di un Gastaldo regio con poteri giudiziari e militari. La guarnigione longobarda fondò la cappella dedicata a S. Michele "prope muros civitatis Januae" [poi incorporata nella chiesa di S. Stefano] accanto ad un fortilizio bizantino da loro occupato ed utilizzato come presidio militare.
Nel 658 il Re longobardo Ariberto I (635-660), abolito l’arianesimo, aveva fondato "Sancta Maria de Castro" (S. Maria di Castello) e nello stesso periodo venne costruito alle Grazie, tra Castello e Molo (sullo scoglio che chiude il Mandraccio), una cappella dedicata si SS. Nazario e Celso.
Il Vescovo S. Giovanni Bono da Camogli iniziò i lunghi preparativi per riportare la sede vescovile a Milano. Con la sua partenza la sede episcopale genovese rimase vacante per alcuni anni.
Vi fu una certa lentezza nel rientro della sede metropolitana a Milano perché il Clero Maggiore (ordinarii o cardinales) era stato sostituito nella cura delle anime dal Clero Minore (officinales, decumani o peregrini); questo clero, che aveva aderito allo scisma tricapitolino, aveva ottenuto numerosi privilegi dalla monarchia longobarda ed era restio a perderli. Altro fattore che rallentò il trasferimento fu l’integrazione dei profughi nella comunità genovese ed il fatto che ormai gran parte del Clero come anche lo stesso Metropolita, Giovanni Bono da Camogli, era di origine genovese.
Re Pertarito (671-688), consolidatosi in Italia meridionale appoggiò l’evangelizzazione cattolica. Nel 698 il sinodo di Pavia, convocato da Re Cuniperto (688-700) e Papa Sergio, concluse lo scisma tricapitolino.
Re Liutprando (712-744) riscattò dagli arabi africani nel 725 le ceneri di S. Agostino che furono accolte dal Re sulla spiaggia di S. Pier d’Arena, dove fu eretta una cappella in ricordo [ora presso la chiesa di S. Maria della Cella], per poi proseguire verso Pavia. Durante la sua permanenza a Genova fece edificare il "Palatium Castri" a Sarzano dove poi si trasferì il suo Gastaldo.
I commerci divennero rigogliosi, per quanto a nord la via "Francigena" deviava parte delle merci, ma era collegata a Genova dalla Val Bisagno e Val Trebbia per il Passo della Scoffera. Re Astolfo (749-756) rese l’autorizzazione regia obbligatoria per il commercio con l’estero. Gli attriti con i Franchi aumentarono e tra il 754 e il 756 nacquero numerosi monasteri, oasi sicure e di notevole peso economico e politico. Astolfo stava cercando di assumere dignità imperiale per cui esigeva la giurisdizione su Roma e su tutto il suo ducato pontificio. Il Re carolingio Pipino il Breve, poiché Astolfo minacciava l’autorità papale (che aveva reso legale il suo colpo di stato a danno dei Merovingi) e sosteneva l’opposizione interna franca guidata dal suo fratellastro Grifo, lo combatté e lo sconfisse nel 754 e nel 756.


IL FEUDALESIMO TRA IL SETTECENTO E L’ANNO MILLE


La flotta bizantina era di stanza in Corsica e Sardegna, residui della prefettura africana, per cui i Saraceni, che iniziavano ad infestare il Tirreno, non infastidirono Genova. Il commercio, però, si esaurì lentamente. La città divenne il rifugio di profughi africani ed iberici dal momento che le restanti coste italiane erano scarsamente difendibili.
Il patriarca della spagnola Terragona, Prospero, nel 711 si rifugiò a Portofino con le reliquie di S. Fruttuoso e fondò l’omonima città.
L'Italia era in mano ai conquistatori germanici, i Longobardi, e anche Genova dovette sottomettersi a questo popolo, anzi si può affermare che la popolazione era, a quei tempi, al 50% formata da genovesi mentre l'altra metà era tedesca. Soltanto nel 772, con l'arrivo di Carlo Magno e la conquista della capitale Pavia, Genova cambiò padroni divenendo una città del "Sacro Romano Impero".
Nel 773 il Re franco Carlo Magno (768-814) entrò in Italia, investì Torino, espugnò Verona e poi assediò a Pavia Re Desiderio (756-774). Gli abati di Bobbio e Brugnato fecero atto di sottomissione e quasi di conseguenza la Marittima venne occupata pacificamente. Nel 774 assunse il titolo di "rex Francorum et Langobardorum".
La discesa dei franchi (773) libera il nord della penisola dai longobardi e accorpa Genova alla Marca Obertenga. In questa fase Genova non cresce e questa situazione avvantaggia gli insediamenti agli estremi dell'arco costiero ligure.
Nei secoli Genova vede crescere le prime mura cittadine e la città stessa. Assiste al declino dell'autorità marchionale a vantaggio dei Visconti. Anche i pericoli aumentano, la posizione privilegiata di isolamento dalle invasioni barbariche la pone invece sotto minaccia delle scorrerie saracene. Alcuni saccheggi si registrano tra il 922 ed il 935 e vengono ricordati con racconti popolari.
Nella pasqua del 781 il figlio di Carlo Magno, Pipino II (781-810), venne incoronato Re d’Italia ed iniziò una programmatica sostituzione di Duchi e Gastaldi longobardi con Conti franchi. L’ufficio del Gastaldo non fu sospeso ma venne ad assumere lentamente un ruolo di subordinato al Conte simile a quello del Visconte franco.

I sudditi dei Conti potevano essere:

1 ) uomini liberi: vassalli o valvassori, dotati di risorse economiche e gratificati con dei privilegi, tenuti al servizio militare a cavallo. arimanni, coltivanti direttamente la terra, tenuti al servizio militare a piedi.
2 ) servi: villani o rustici, in condizione servile, legati al fondo e tenuti a vari obblighi.
Il Vescovo venne ad assumere con il capitolare di Herstal del marzo 779 un potere di controllo sul Conte, e sui processi (per garantire equità di giudizio) da lui presieduti. Il Comitato carolingio d’Italia si modellò sui confini delle Diocesi ecclesiastiche dato l’ormai stretto rapporto amministrativo che legava le due cariche (a tal punto che spesso erano detenute dalla medesima persona): i confini del territorio comitale e vescovile tendevano ad essere i medesimi. L’antica città romana (in genere rimasta sede vescovile) divenne il capoluogo del Comitato e nel concilio dell’850 venne definitivamente affermato il principio di identità fra la città sede vescovile, la circoscrizione diocesana e quella comitale.
Carlo Magno, visitando Genova, ne riconobbe l’importanza strategica per il controllo dei mari infestati dai mussulmani. Nel 806 i genovesi, su incarico di Re Pipino, parteciparono alla sortita in Corsica contro i Saraceni e in quest’occasione morì il loro comandante, il Conte Ademaro.
Il territorio ligure, che prese il nome di Litora Maris, fu ripartito tra i Comitati di Ventimiglia Albenga, Vado, Genova e Luni. Il confine dei Comitati, di solito coincidente con quello della Diocesi, era in genere delimitato dallo spartiacque alpino o dall’area più vicina la sommità:

A ) Luni (Diocesi e Comitato) con a est il Comitato di Lucca e a nord il Comitato di Parma: Torrente Versilia - Serchio - spartiacque fino alla Cisa - Gotra - Monte Gottero - spartiacque fino al Monte Scassello - Stora - Vara fino al Malacque - Monte Guaitarola - Mare tra Reggimonti e Framura.
B ) Genova (Diocesi e Comitato) con a nord il Comitato e la Diocesi di Piacenza e il Comitato e la Diocesi di Tortona: Mare tra Reggimonti e Framura - Monte Guaitarola - Vara fino al Malacque - Stora - Monte Scassello - spartiacque fino al torrente Lerone - torrente Lerone.
C ) Vado (Diocesi e Comitato) con a nord la Diocesi di Alba: Torrente Lerone dal mare allo spartiacque - spartiacque fino al Col Melograno - torrente Pora.
D ) Albenga (Diocesi): Torrente Pora - Col Melograno - spartiacque fino a Col di Nava - torrente Negrone - Cima Pèrtega - Monte Saccarello - torrente S. Romolo [torrente Armea].
E ) Ventimiglia (Diocesi e Comitato) con a nord la Diocesi di Torino: Torrente Armea - Cima Pèrtega - Monte Bego.

Tra Albenga e Ventimiglia vi erano i vasti possedimenti temporali e spirituali del Vescovo genovese: i fines Matutianenses (S. Remo - Armea - Monte Bignone - Monte Seborga - Monte Gozzo - Coldirodi) e i fines Tabienses (Taggia e l’intera Valle Argentina). Nel 980 Teodolfo, Vescovo di Genova, donò "gente repressa Saracenorum" i tre quarti delle proprietà, chiese, decime e redditi di questi possedimenti.
Nell’825 Lotario, associato all’impero dal padre Ludovico il Pio, ordinò l’istituzione di nove centri di formazione culturale. Pavia per gli studenti di Acqui, Asti, Bergamo, Brescia, Como, Genova, Lodi, Milano, Novara, Tortona, Vercelli; Torino per quelli di Alba, Albenga, Vado e Ventimiglia.

Il Re d’Italia Ugo di Provenza, organizzando il territorio a sud del Po, affidò sistematicamente il governo a Marchesi, i quali erano Conti dotati di particolari poteri giurisdizionali e militari (in funzione antimussulmana) su altri Conti e su più Comitati. Alcuni Comitati erano alle loro dirette dipendenze mentre altri erano governati da un loro Conte. Questa nuova forma di centralizzazione non intaccò l’individualità territoriale ed amministrativa dei Comitati. Genova, come anche molte altre città, ottenne maggiore autonomia sotto l’autorità di un Visconte. Ai Visconti si affiancò con poteri giudiziari il Vescovo.
Nel 950-951 Re Berengario II terminò la riorganizzazione del territorio, iniziata da Ugo di Provenza, nominando tre nuovi Marchesi.

Marca Aleramica (Liguria centr’occidentale)
Aleramo, Conte di Vercelli nel 933, ottenne nel 935 (periodo del secondo attacco saraceno ad Acqui) potere marchionale sui Comitati di Acqui, Vado e parte del Comitato del Monferrato.
Sposò Gerbenga, figlia di Re Berengario II ma ebbe l’appoggio di Adelaide, moglie dell’Imperatore tedesco Ottone I, per cui all’arrivo di Ottone in Italia non fu privato delle sue prerogative.
I due figli del Marchese Aleramo: Anselmo e Oddone mantennero il governo della Marca di Vado. In seguito, dopo il 1004, la Marca passò ai discendenti del Marchese Anselmo e fu divisa in due parti.
Il Marchesato aleramico diede origine ai Marchesi del Bosco, di Ponzone, del Vasto e da questi ultimi poi discesero i Marchesi di Incisa, Busca, Saluzzo, Ceva, Clevasana e Savona.

Marca Obertenga (Liguria orientale) detta poi "Januensis"
Oberto, Conte di Luni, venne nominato Marchese prima del 951 con autorità sui Comitati, prima appartenenti ai marchesi di Tuscia, di Genova, Luni e Tortona (governati direttamente) e su quelli di Parma e Piacenza.
Nel 960 si dovette rifugiare in Germania dove chiese l’intervento in Italia di Ottone I. In questa occasione fu sostituito da Re Berengario II con Ildebrando III, Conte di Roselle. Con la vittoria di Ottone I il Conte Oberto riottenne l’incarico.
I figli, Adalberto I e Oberto II, mantennero in consorzio la carica marchionale. In seguito la stirpe si divise dando origine alle famiglie Estense, Pallavicino, Malaspina e Adalbertina.
Nel 1014 congiurarono contro Enrico II e per questo persero il Comitato di Tortona, acquisito dal Marchese Ugo. Dopo il 1044 Adalberto Azzo II rinunciò ai suoi diritti sul territorio genovese mentre mantenne, lui e i suoi figli, quelli sul Comitato di Luni.

Marca Arduinica (Torino)
Arduino il Glabro, Conte di Torino, aveva sotto di se i Comitati di Alba, Albenga, Asti, Auriate, Bredulo, Torino e Ventimiglia.
Quando nel 1091 morì la Contessa Adelaide (ultima degli arduinici), la Marca passò al nipote: il Marchese aleramico Bonifacio (pronipote del marchese Oddone).
L’impero carolingio era debole in modo specifico dal punto di vista navale. Fin dal suo sorgere ricostituì la classis italica, con i residui della flotta bizantina, coordinata dal Comitato di Lucca. Gli emiri aghlabiti dell’Ifrìqiya, sostituitisi alla precedente dinastia abbasside, conquistarono la Sicilia ed iniziarono un’espansione sistematica nel Mediterraneo approfittando di questo vuoto.
Nel 849 i pirati arabi saccheggiarono le coste da Luni alla Provenza. La difesa della Marca si frazionò. I pirati arabi e normanni intensificarono le loro scorrerie e, a partire dal IX secolo, ci fu un esodo generalizzato di sacre reliquie verso località sicure.
Papa Giovanni X iniziò nell’850 la lotta contro i Saraceni e per questo le incursioni fatimite si spostarono a Nord.
Tra l’849 e l’850 Genova, viste le scorrerie saracene e normanne contro Luni (distrutta dai Normanni nell’860) e le coste liguri e toscane, ampliò le mura che assunsero un perimetro di 1488 metri. Le nuove mura inclusero borgo Saccherio (Brolium) Ravecca, Porta Soprana [di S. Andrea], il Canneto (ora abitato) e la collina di Macagnana (includendo così S. Lorenzo) per terminare alla regione di Banchi.
La Valle di Soziglia, percorsa dal rio Bachernia, era cosparsa di campi [Piazza Campetto], vigne [S. Maria delle Vigne] e boschi [via Luccoli]. Proprio qui, in una vigna di loro proprietà, nel 991 i Visconti Oberto e Guido di Carmandino fondarono, su un precedente sacello, S. Maria delle Vigne.
I Saraceni spagnoli alla morte di Re Bosone nel 887, approfittando del generale stato di crisi dovuta al disfacimento dell’impero carlingio, costituirono nel 889 a Frassineto [golfo di S. Tropez] una base stabile per le loro incursioni. Privi di formali legami con gli stati arabi africani e spagnoli, si dedicarono alla guerra di corsa lungo le coste da Arles ad Albenga, evitando le città protette da mura ma devastandone le campagne. Dal 921 dominarono stabilmente le Alpi Occidentali depredando i pellegrini diretti a Roma. Tra il 936 ed il 940 occuparono le Alpi Pennine.
I pirati di Frassineto arrivarono via terra fino a Serravalle, tagliando la "Postumia" che era ancora un’efficiente via praticabile dai carri usata per il commercio tra Roma e la Provenza. Danneggiarono il commercio Genovese imponendo controlli e dazi. Erano così forti che "Re Marco" fondò uno stato Saraceno con capitale Libarna [Altylia] pur contrastato attivamente dai Carolingi.
Il commercio ormai passava per l’Adriatico mentre i pirati spagnoli ed africani assaltavano le coste tirreniche a più riprese e Luni, indifesa capitale marchionale, fu aggredita ininterrottamente fino alla sua distruzione (1015). Sabatino, Vescovo tra il 876 ed il 915, fece trasferire nell’878 le reliquie di S. Romolo nella cattedrale di S. Lorenzo.
La corona del regno d’Italia fu oggetto d’aspre contese tra l’888 e il 926 e, infatti, la prima reazione cristiana al dominio di Frassineto arrivò solo nel 931. La flotta bizantina di stanza in Sardegna e la marina genovese, inflisse a Frassineto un pesante colpo pur senza riuscire ad espugnarla.
Per reazione il califfo fatimita Abû al Qâsim Muhammad nel 935, dopo una prima sortita contro Genova nel 934, fallita per il maltempo, inviò una spedizione comandata da Yàqub ibn ‘Ishâq. Genova fu assediata da 200 galee che consentirono lo sbarco di milizie a levante ed il blocco navale.
Molto probabilmente la pagina più tragica per Genova fu il saccheggio della città da parte dei musulmani il 26 Agosto 935. Alle prime luci dell'alba, gli arabi arenarono le loro galee sotto San Siro e, mentre tutti i genovesi dormivano, entrarono nelle case, saccheggiandole, uccisero tutti gli uomini e rapirono tutte le donne e le bambine, imbarcandole sulle loro navi. La cattedrale di San Siro e le altre chiese furono profanate e bruciate. Dopo due ore d'inferno gli arabi tornarono alla spiaggia e ripartirono verso altri lidi, ma prima pensarono bene di portarsi via tutte le imbarcazioni genovesi. L'evento risultò devastante per i genovesi che cominciarono a serbare un odio feroce verso i saraceni che potrà essere placato solo sedici anni dopo quando batterono i musulmani riconquistando alcune città della riviera.
Contemporaneamente i mori di Frassineto si spinsero fino ad Acqui, Alba, Asti e Tortona bloccando presso Serravalle Scrivia le vie di comunicazione con la Lombardia. Nel 936 attuarono una spedizione, guidata da Sagittus, contro Acqui dove furono sconfitti.
Il Re d’Italia Ugo di Provenza nel 941 attaccò Frassineto da terra e la flotta bizantina di Romano I dal mare. I mussulmani si ritirarono sul Monte La Moure dove furono accerchiati. Re Ugo a questo punto, per fronteggiare un esercito raccolto in Germania da Berengario, Marchese d’Ivrea, se li fece alleati e li stanziò nelle Alpi Pennine.
Il Marchese Arduino fece parte delle armate guidate da Guglielmo d’Arles che espugnarono Frassineto nel 972-973. I mori si attestarono nella fortezza di Le Garde Freinet che, espugnato per il tradimento di un saraceno, fu donata a Giballino di Grimaldi.


GENOVA INTORNO ALL’ANNO MILLE: LA NASCITA DELLE COMPAGNE


Purtroppo di questo primo periodo medievale, detto "Basso Medio Evo", ci restano ben poche notizie, anche perchè la maggior parte dei documenti storici dell'Archivio di San Siro, furono bruciati dai Saraceni nel saccheggio del 935. Si sa che allora la città contava di circa 4000 abitanti, residenti entro le mura delimitate dai due "Canneti", il Lungo e il Curto, con due porte la Soprana e la Sottana, dove si trovava la piazza principale. Altre duemila persone abitavano oltre le mura, dedicandosi soprattutto all'agricoltura e alla pesca.
I Carolingi, diviso il territorio in "Marche", delegarono l’autorità ad un Visconte: a Genova come rappresentate del Marchese Oberto vi era il Visconte Ido (952) che aveva possedimenti in Val di Secca (a Cremeno), Val Polcevera e lungo la riviera di Ponente. I successori del Visconte Ido e del figlio Oberto si divisero nei rami Manesseno, Carmandino e Isole dando origine a numerose famiglie importanti (Avvocati, Pevere, Lusii, De Mari, Serra, Embriaci, Castello, Brusco, De Marini, Della Porta). Vassalli degli Obertenghi erano i Conti di Lavagna.
I Conti di Lavagna, vassalli degli Obertenghi, furono costretti nel 1110 a cedere i loro castelli al Comune.
Discendevano da Teodisio che aderì al movimento di reazione alle immunità vescovili e, considerato traditore, vide i suoi beni confiscati da Ottone III e concessi alla chiesa di Vercelli il 7 maggio 999.
Federico I riconobbe nel 1164 i possedimenti del Marchese Opizzo Malaspina tra cui la metà di Lavagna e di Sestri concessa in feudo ai Conti di Lavagna e ai signori Da Passano.
Imparentati con i Conti di Lavagna, i Cononi "de castro Vezano" dominavano invece tra Vernazza, Vara e il golfo di La Spezia dando origine alle famiglie: Enrici, Amalfredi, Opizzoni, Grimaldi, Cononi.
I Cononi furono gli unici a mantenere diritti signorili sul territorio di Genova e tra i loro possedimenti avevano diritti sull’isola di Sestri, ceduta nell’aprile 1147 dai figli di Conone al Comune di Genova che nel febbraio 1145 aveva edificato il castello di Sestri Levante.
Nel 1113 i Consoli invasero militarmente, per motivi strategici, le terre dei Da Vezzano impadronendosi di Portovenere. A Portovenere crearono una colonia di tipo romano con lo stanziamento di cittadini genovesi sul territorio conquistato e con la costruzione di un castello a protezione contro Pisa e gli Obertenghi. Iniziarono la costruzione di S. Lorenzo, consacrata da Papa Innocenzo II nel 1130. Solo nel 1139 vi fu l’acquisto formale dei territori (per 100 lire) da parte del Comune che nel 1160 iniziò la costruzione delle mura ed il rinnovamento del castello. 1132 Venne edificato il castello di Rivarolo presso il fiume Lavagna e, visto l’insorgere della già insofferente popolazione locale, l’esercito genovese devastò molti castelli locali. I Da Passano vennero infeudati i De Passano in quelle zone poiché avevano giurato fedeltà al Comune ed avevano come impegno di mantenere 4 cavalieri e 20 arcieri. Il Marchese Opizzo Malaspina ricevette in feudo 1/3 dei territori dei Conti di Lavagna. L’anno successivo la guerra divampò nuovamente ed i castelli dei lavagnini in rivolta furono distrutti. Nel 1138 i Conti di Lavagna giurarono la Compagna impegnandosi ad abitare in città almeno 2 mesi l’anno. Nel febbraio 1145 Lanfranco Visconte ottenne l’appalto per la custodia del castello di Fiaccone. Lo stesso anno i Signori di Cogorno donarono al Comune il castello di Calosso; si ordinò quindi ai Conti di Lavagna di non molestare più i castelli di Rivarolo e Sestri e di entrare ogni anno nella Compagna. Prima giurarono i Conti di Lavagna e poi i Da Passano. Si dichiarò per l’occasione, vista l’influenza dei signori feudali sottomessi al Comune, che se un Genovese fosse divenuto vassallo di un signore feudale avrebbe perso i suoi diritti politici. Lo stesso anno venne fabbricato il castello di Sestri e i Consoli, per avere via libera da terra, espropriarono le terre del monastero di S. Fruttuoso in cambio di una libbra di incenso annuale, un canone annuo ed alcuni terreni sull’isola di Sestri. Due anni dopo (1147) Sestri, di proprietà di Cova di Vezzano, venne acquistato per 15 lire. Nel 1148 il castello di Parodi venne comprato per 700 lire dal Marchese Alberto Zueta e dalla Contessa Matilde di Parodi per ottenere la liberazione del di lei marito, Alberto di Parodi, prigioniero degli uomini di Castelletto. Nel 1157 i Conti di Lavagna giurando la Compagna, promisero di comporre le discordie interne tra il Conte Martino e il fratello Enrico, e gli uomini di Cogorno, Nasci e Vezzano.

Nel 935 il Vescovo, in seguito al saccheggio saraceno, organizzò un’intesa tra gli "habitatores civitatis" antenata della Compagna. La ripresa iniziò subito: nel 952 il Vescovo Teodolfo riaprì al culto S. Siro.
A metà XI secolo il Vescovo Teodolfo consolidò le corti della mensa vescovile nell’Isola del Vescovo (pieve di Molassana), a S. Michele di Graveglia e a Lavagna. I mansi della corte, affidati a famuli e livellari sono sotto il controllo di un Gastaldo, sono tutti nella stessa zona e si trovano sotto la protezione di un castrum cui i livellari devono fornire per tradizione gli uomini per la "guaita" notturna.
Gli Ottoni ufficializzarono il feudalesimo ecclesiastico: in altre città i Vescovi ottennero l’investitura feudale ma ciò non successe a Genova dove i Visconti, residenti nel contado, mantennero a lungo e con continuità il loro potere. Vassalli vescovili i Vicedomini, gli Avvocati, i Giudici, i Pares Curiae (Tutela militare, giuridica, amministrativa e delle prerogative episcopali) si crearono come struttura parallela e spesso d’origine viscontile.
I feudatari minori con privilegi non ereditari (Vassalli viscontili, vescovili e marchionali) si inurbarono affianco al Vescovo; i feudatari maggiori (Marchesi) delegarono sempre di più le loro prerogative ai Visconti per arroccarsi nei castelli appenninici dominanti valli e strade.
Con la sicurezza delle campagne si ebbe un aumento della popolazione e una richiesta maggiore di terre, soddisfatta con cessioni enfiteutiche e livellarie. Ci fu una maggiore produzione e commercio dei prodotti con la conseguente nascita di un’economia monetaria, giocoforza, cittadina.
Tale stato di fatto il 18 luglio 958 causò il riconoscimento, da pare di Re Berengario II e suo figlio Adalberto, delle consuetudines della universitas civium, l’esenzione dal mansionaticum ed il divieto d’ingresso nelle loro case da parte dei pubblici ufficiali.
Tali privilegi furono poi ampliati quando il Marchese Alberto di Opizzo dovette giurare nel maggio 1056 il "breve de consuetudine". Queste norme, oltre a regolare il possesso fondiario, erano una chiara indicazione di un economia in espansione.
Nei secoli trascorsi la struttura urbana si è molto ampliata, al nucleo originale sul colle di Sarzano con S. Maria di Castello , se ne è aggiunto uno nuovo attorno a S. Siro (rimasto fuori delle mura) ed un'area (poi interna alla cinta muraria) che gravita attorno a S. Lorenzo. Proprio l'insicurezza di S. Siro potrebbe essere stata la causa della "promozione" a Cattedrale di S. Lorenzo.
Dopo Il “sacco” Genova ricominciò lentamente a riprendere vita e dieci anni dopo, nel 945, fu costituita una comunità che diventerà importantissima nei secoli a seguire: la "Compagna". L'ideatore di questa associazione fu il Vescovo Teodolfo, che pensò di dividere i cittadini in due categorie: gli "habitatores", cioè i nullatenenti che si dovevano occupare della guardia della città, e i "boni homines", cioè quelle persone abbienti che versando una quota annuale partecipavano alla costruzione della flotta militare. Il Vescovo preparò un vero e proprio statuto che presentò al Re Berengario, che dopo averlo accettato, promulgò, forse perche attirato dal vantaggio di disporre di una flotta a difesa delle invasioni saracene, la "Donatio Berengari", accettata poi da tutti gli altri Imperatori, che permetteva tra le altre cose di non pagare più gabelle allo stato e di avere una quasi completa indipendenza, tanto da considerare Genova una Repubblica.
Il Vescovo impose ai "boni homines", che volevano avviare una qualsiasi attività, di iscriversi alla "Compagna", pena l'esilio. Stessa condanna era commutata a coloro che dichiaravano meno guadagni del dovuto. Siccome in quell'epoca, tutti si chiamavano solo con il nome, pensò, per non creare confusione, di abbinare ad esso un aggiuntivo, derivante soprattutto dal luogo di provenienza o da un aspetto specifico del personaggio, facendo così nascere il cognome.
L’adesione del Vescovo alla Compagna, pur senza altro privilegio che rappresentare la città all’estero, ne favorì l’emancipazione politica a tal punto che nel 1097 le Compagne deposero manu militare il Vescovo scismatico (schierato con l’antipapa Clemente III, nominato dall’Imperatore tedesco Enrico IV).
Già nel X secolo, i notabili cittadini organizzarono alcune libere associazioni: le compagnae, le coniurationes, le rassae.
La Compagna, che poi prevalse, era un consorzio commerciale privato in accomandita semplice, giurato da nobili, mercanti o semplici persone atte alle armi abitanti in determinate circoscrizioni urbane ed aventi medesimi interessi economici e politici. In origine si costituivano solo per una determinata impresa economica o more piratico al termine della quale la Compagna si scioglieva ma poi divennero a tempo determinato e infine permanenti.
L’appartenenza non era al principio un obbligo ed allo scadere poteva anche non essere rinnovata.
Le Compagne in origine erano tre (Castrum, Civitas e Burgus) con sede nelle chiese di S. Maria di Castello, S. Lorenzo e S. Siro. Nel 1130 erano quattro e dopo il 1134 divennero prima sette ed infine otto. Ognuna di esse aveva un proprio Console ed un proprio vessillo.
Il contratto di Commenda (prestito di capitale legato ad un rapporto societario), derivò nella sua struttura dall’izqâ ebraica e prevalse in tutti i contratti, a cominciare da quelli della Compagna, dopo la prima metà del XII secolo.
La Compagna, il cui nome fa riferimento ad un’impresa comune e navale (comunanza di mensa su una nave), si ampliò con l’avvento della libertà di movimento e personali (le consuetudini) mantenendo sempre il suo carattere imprenditoriale navale. Ognuna delle Compagne poteva compiere il reclutamento navale ed armare sue galee.
Eleggeva, solitamente dai ranghi delle famiglie viscontili o avvocatizie, dei capi (i Consoli) che avevano la possibilità sia di comandare l’impresa sia di giudicare eventuali vertenze tra i soci.
Unici requisiti per entrare nella Compagna era l’essere "cittadino" cioè risiedere a Genova e il vivere secondo consuetudine. Tutti i soci dovettero giurare uno statuto detto breve e s’impegnavano a eseguire gli incarichi affidatigli pena la perdita dei diritti civili. Il fatto di dover abitare in città rimase a lungo un obbligo tanto che anche i feudatari delle riviere e dell’oltregiogo dovettero impegnarsi, quando giuravano, a risiedere, di fatto almeno per un breve periodo dell’anno, in città.
Ma non fu soltanto la costituzione della "Compagna" il grande merito del Vescovo Teodolfo. Infatti, tra le altre cose, impose la ronda notturna sulle mura e realizzò una catena di torri che partivano dai Piani d'Invrea per giungere fino a Porto Venere, per mettere in guardia gli abitanti della repubblica dagli attacchi saraceni. In caso di avvistamento, da una delle torri, veniva acceso un falò che permetteva di essere visto dai luoghi vicini che, al suono delle campane, invitavano le donne, i vecchi e i bambini a rifugiarsi nelle campagne, mentre tutti gli uomini abili si preparavano a combattere.
Alla base della società genovese è la famiglia. Questa porta alla creazione di Compagne a livello "zonale" e alla nascita di quartieri familiari, un esempio (cronologicamente successivo) su tutti sono le case dei Doria in S. Matteo. Le compagne sono otto e dalla loro espansione si arriva alla creazione della Compagna, questa rappresenta l'embrione dello stato genovese. I mutamenti istituzionali portano alla divisione dei poteri: i consoli del comune amministrano il potere esecutivo, ai consoli dei placiti è assegnato il potere giudiziario.
Con il Vescovo Airaldo nacque la Compagna Comunis struttura politica ufficiale della città con sede nella chiesa di S. Giorgio ove si conservava il vexillum magnum, lo "stendardo comune".
Una prima reazione marchionale venne arginata dalla Compagna di Castello capitanata dai Visconti di Manesseno (i fratelli Amico Brusco, Guido Spinola, Guglielmo Embriaco e Primo di Castello) e dai loro cognati i Della Volta. La Compagna Comunis rimase sine consulatu per un anno e mezzo dal 1098.
Una sorta di parlamento forse presieduto dal Vescovo (privo di poteri diretti) elegge annualmente il 2 febbraio i consoli su base zonale. Un senato costituito da "anziani", "saggi" ed "esperti" si affianca nella veste di organo consiliare ai consoli nelle decisioni più importanti. I consoli esercitano il loro potere dal palazzo episcopale previo giuramento di una breve. Il parlamento ed il senato si riuniscono in S. Lorenzo.
I Consoli, che detenevano il potere esecutivo, erano inizialmente eletti ogni quattro anni ma poi annualmente e, dopo un primo periodo in cui le cariche erano unificate, si divisero in Consoli del Comune (governatori politici e militari) e Consoli dei Placiti (amministratori di giustizia). Il potere deliberativo era prerogativa del parlamento della Compagna o delle Compagne riunite; in quest’occasione il Vescovo assisteva alle discussioni.
Per evitare l’accentrarsi del potere in mano a poche famiglie, nel 1122 si ridusse la durata del consolato da quattro anni ad un anno e nel 1130 si aumentò il numero dei Consoli e vi fu una separazione netta tra le varie cariche che assumevano. Nel 1122 si delegò l’amministrazione finanziaria ad otto Clavigeri (in possesso delle chiavi dell’erario).
I Consoli erano eletti dal parlamento ed entravano in carica il 2 di febbraio. Una volta terminata la carica, dopo aver giustificato le loro scelte a chi li aveva eletti entravano nel Consilium o Senato, al fianco d’altri cittadini illustri. Il Consilium doveva approvare le dichiarazioni di guerra, le nuove tasse e le cessioni in pegno delle proprietà del Comune.
L'unicità dell'istituzione non comporta però una stabilità politico sociale per Genova, le lotte tra famiglie o alleanze di famiglie sono una costante nella storia cittadina. Fondamentalmente lo stato genovese può essere definito un'oligarchia ma atipica. La nobiltà necessaria a far parte della cerchia di chi governa è acquisibile. L'intreccio tra pubblico e privato che caratterizza Genova diventa manifesto con le compere, una sorta di indebitamento dello stato con le famiglie genovesi mediante l'appalto degli introiti statali. Ciò porterà alla nascita del Banco di S. Giorgio, molto più di una semplice banca, quasi uno stato sia per poteri economici che politici. Un altro esempio di intreccio pubblico privato sono le maone, una sorta di società per azioni con poteri politici su territori "coloniali".
Intorno al 950 inizia una catena di mutamenti amministrativi che trasforma Genova in un elemento catalizzatore per l'area ligure. Il susseguirsi di vari eventi porta la città ad essere il centro di una sorta di Stato già intorno al 1200.
Sul finire del 900 prima Berengario II e poi il figlio Adalberto concedono alcuni privilegi a Genova mediante una sorta di "diploma di riconoscimento delle consuetudini genovesi".

Consuetudini genovesi:
I Marchesi potevano presiedere il placito solo per quindici giorni, giudicando secondo il diritto locale e non dovevano esigere dai coloni dei genovesi il fodro marchionale, l’albergaria o altro tributo.
In caso di controversia sulla proprietà era sufficiente che il proprietario genovese facesse giurare a quattro testi che la carta era autentica ed inoltre era fissato il diritto di usucapione dopo il periodo di 30 anni.
I concessionari potevano rinviare il pagamento annuale per dieci anni, purché poi versassero l’intera somma.
Non era più necessaria l’autorizzazione di parenti per l’alienazione compiute da donne di legge longobarda.
Gli stranieri residenti in città erano obbligati a prestare servizio militare in caso di guerra.

I Genovesi, per assicurarsi un corridoio sicuro che consentisse loro di scavalcare i valichi appenninici al riparo delle angherie dei signori feudali e dei briganti, si espansero oltregiogo.
Invadendo l’alta Val Polcevera giunsero ai confini del dominio adalbertino dei Marchesi di Massa e Parodi (castello di Gavi) che ostacolavano i principali valichi dell’Appennino.
Nel 1121 con un forte esercito valicarono il Giogo e presero Schiappino, Mondrasso, Pietra Bisciara e il castello di Fiaccone e l’anno dopo comprarono dal Marchese Alberto di Gavi il castello di Voltaggio e i suoi redditi (per 400 lire).
Nel 1128 l’esercito prese Montaldo poi donato al Comune e a Tortona nell’agosto 1144. Nel 1130 il Marchese è costretto a giurare la Compagna ma solo nel 1191 vendette il castello di Gavi aprendo così a Genova una doppia via con l’entroterra (verso Tortona e verso Alessandria).
Nell’ottobre 1130 Genova strinse un trattato d’alleanza con Pavia rinnovandolo poi per 20 anni nel 1140. Nel gennaio 1135 Novi cedette metà del suo castello alla chiesa di S. Lorenzo e metà alla chiesa di S. Siro a Pavia e promise aiuto a Genovesi e Pavesi nella loro guerra contro Tortona.
Lo stesso anno il Marchese Aleramo di Ponzone con il figlio presero la cittadinanza genovese e giurarono la Compagna cedendo i propri castelli al Comune. Nel 1152 Genova acquistò Lerici per 39 lire.
A ponente cercarono di avere la sottomissione di S. Remo e dei Marchesi Del Vasto per prendere Ventimiglia ed avere così una via di terra sicura per la Provenza. Già nel 1120 i Consoli operarono in zona come pacieri durante le dispute tra Vescovo e Savonesi per i privilegi che questi deteneva in quelle terre.
Genova avanzò fino a S. Remo e fece al Conte di Ventimiglia guerra aperta nel 1130, tanto che i suoi figli, fatti prigionieri, furono costretti a giurare la Compagna e si innalzò all’interno di S. Remo una fortezza.
Nel 1138 Genova rinnova le sue alleanze ed i suoi privilegi con le città provenzali di Antibes e Marsiglia e con i signori di Hyères, di Fos e di Narbona.
Nel 1140 vi fu un accordo con i savonesi Marchesi Del Vasto per avere aiuto militare nelle conquiste delle terre d’Oberto, Conte di Ventimiglia. Con un numeroso esercito via mare e terra espugnarono la città, sottomisero i castelli e fecero giurare fedeltà a tutti. Innalzarono un castello in città per dominare la popolazione.
Il Conte Oberto resistette 6 anni ma poi nell’agosto 1146 dovette giurare la Compagna, cedere i feudi (tra cui il castello di Poggio Pino) a Genova per riceverne da questa l’investitura (prassi ormai consolidata) e, fatto nuovo, impegnarsi a sposare i propri figli in famiglie genovesi.
Nel 1141 il Comune comprò il castello d’Amelio da Struccio e dai suoi fratelli e poi nel capitolo di S. Lorenzo, di fronte al Consiglio, lo infeudarono ai medesimi venditori.
Nel gennaio 1153 i Savonesi giurarono fedeltà alla Repubblica e si piegarono alle sue condizioni: ogni nave proveniente dalla Sardegna o da Barcellona doveva prima passare per Genova.
L’anno seguente il Marchese Enrico di Loreto, signore di Savona, giurò la Compagna e la pace con Noli ma nonostante questo suo gesto riprese le ostilità e quindi i Consoli lo richiamarono a Genova. Occupò in agosto il castello di Noli; essendo inverno, e non potendo armare la flotta per assalire il castello, l’esercito genovese passò via terra devastando i possedimenti del Marchese.
Nel 1155, mentre a Genova si procedeva alla costruzione della cinta muraria, fecero giurare la Compagna ai Marchesi del Carretto.
Due mesi dopo gli accordi stipulati con l’Imperatore Federico Barbarossa, messi imperiali incitarono alla rivolta Ventimiglia che occupò e distrusse il castello della città. Genova protestò con l’Imperatore ed espugnò la città.
Nel 1157 Guido Guerra, Conte di Ventimiglia, si piegò completamente e donò al capitolo di S. Lorenzo tutti i suoi castelli ricevendone la reinvestitura dai Consoli.
Dato che l’espansionismo territoriale in Liguria aveva aumentato la popolazione, divenne sempre più essenziale il commercio di cereale (di cui la Liguria era scarsa produttrice) con la Provenza e la Sardegna.
Già nel 1109 avevano ottenuto il monopolio commerciale di Saint-Gilles da Raimondo di Tolosa; nel luglio 1138 Genova stipulò alcuni trattati, con cui salvaguardava in modo particolare il Re del Marocco, con gli abitanti di Fos, Hyères, Marsiglia, Frèjus e con Raimondo d’Antibo.
Nel 1140 armarono due galee per contrastare due galee dei Gaetani che, approfittando delle ostilità tra il Comune e Ventimiglia, cercavano di penetrare in Provenza. Le trovarono presso Argentera (Linguadoca) e ne catturarono una in battaglia.
Nel 1143 quattro galee occuparono Montpelier e lo restituirono a Guglielmo VI, fratello di Raimondo III Conte di Provenza e Barcellona, ottenendone in cambio 1.000 marche d’argento, il fondaco di Bruno di Tolosa e l’esenzione dalle imposte. Il Console Lanfranco Pevere stipulò un contratto secondo cui Genova e Pisa lo avrebbero soccorso nel recuperare ciò che il Conte Alfonso I, suo nipote, e gli uomini di Saint-Gilles avevano illegalmente. Il 3 settembre fu conclusa la pace tra il Conte Alfonso di Tolosa e gli abitanti di Saint-Gilles.
Già l’anno successivo vi furono fortissimi attriti con il Conte Guglielmo VI per via dei suoi frequenti assalti alle navi genovesi; venne armata una galea per la Provenza. Il Conte morì combattendo contro i Genovesi ma poiché le piraterie non cessarono venne inviata una nuova galea. Questa catturò una saetta dei pirati e fece accecare tutta la ciurma come monito.
Nel novembre 1153, su mandato dei Consoli, Enrico Guercio vendette a Raimondo Berengario IV, Conte di Barcellona e Principe d’Aragona, i possedimenti Genovesi in Tortosa.
Sicilia Nel 1117 i Genovesi ottennero l’esenzione dalle imposte e il diritto di erigere un consolato a Messina. Durante la guerra con Pisa invasero tutta la città ma Re Ruggero costrinse a restituire il bottino.
Nel 1147 vennero catturati da Ruggero di Sicilia dei Genovesi e in patria si fece divieto di creare società (rassa) contro chi si riteneva fosse responsabile: Filippo di Lamberto Guezo, che venne privato d’ogni diritto politico a metà giugno del 1148. Siro II e i Consoli obbligarono al contempo gli uomini della rassa a pagare una penale di 150 lire e ad impegnarsi a non nuocere in alcun modo a Filippo di Lamberto. Le ostilità proseguirono fino al 1162.
Nel 1156, nonostante la chiara intenzione del Barbarossa di utilizzare la flotta di Genova contro i Normanni, Guglielmo Vento e Ansaldo Doria sottoscrissero con Guglielmo I, Re di Sicilia, un accordo con privilegi contributivi e l'esclusiva del mercato a danno dei mercanti Provenzali.
Tornati a Genova fu assicurata la salvaguardia di persone e proprietà siciliane sul nostro territorio.
Nel 1142 vennero inviati a Giovanni II Comneno ad Antiochia gli ambasciatori Oberto Torre e Guglielmo Barca per ottenere da Costantinopoli gli stessi benefici di Pisa e Venezia. La morte dell’Imperatore fece fallire la missione.
Nel 1144 vennero inviati ambasciatori a Papa Lucio II per svincolarsi dall’obbligo di versare una libbra d’oro all’anno per i diritti in Corsica e per aver conferma dei loro diritti in Siria. Quello stesso anno Raimondo I, Conte di Tripoli e Principe d’Antiochia, confermò le donazioni effettuate nel 1127 da Boemondo II.
Nel gennaio 1147 furono confermati dal Comune agli eredi dell’Embriaco i possessi, di cui erano stati investiti per venti anni nel 1125, d’Antiochia, Gibelletto, Laodicea e Solino. Nel gennaio 1154 Guglielmo Embriaco venne formalmente investito del feudo di Gibelletto e dei possessi in Laodicea per ventinove anni (per 100 lire e 90 bisanti annuali) mentre Ugo e Nicola Embriaco ricevettero per ventinove anni i possessi d’Acri (per 150 lire annue) e d’Antiochia (per 80 bisanti annui). Gli affitti furono irrisori considerando che nel porto di Acri non era infrequente veder ancorate anche 80 navi contemporaneamente.
Nel 1155 il Comune dovette inviare presso la Santa Sede il canonico di S. Lorenzo Manfredo per chiedere il rispetto delle concessioni da parte di Baldovino III, Re di Gerusalemme, di Raimondo II, Principe d’Antiochia, e del provenzale Bernardo Ottone. Il Papa invitò tutte le parti chiamate in causa a rispettare gli accordi con Genova sotto la minaccia di scomunica.
Il 12 ottobre 1155 in S. Lorenzo si poté sottoscrivere un accordo con il Metropolita Demetrio, legato dell’Imperatore di Costantinopoli Emanuele Comneno Porfirogenito.
L’Imperatore concesse una contrada, un fondaco, la chiesa di S. Croce a Costantinopoli, una banchina, la riduzione del dazio (dal 10% al 4%) in tutto l’impero e un dono annuo al Comune (500 ipèrperi) ed all’Arcivescovo (60 ipèrperi e due palli) in cambio della rinuncia ad ogni impresa contro Bisanzio.
Nel 1157 inoltre vennero inviati, al fine di garantire i privilegi di Genova all’estero, Guido di Lodi (presso la S. Sede), Gionata Crispo (in Oriente e Sicilia), Amico Di Murta (a Costantinopoli). Da
Costantinopoli si esigeva il rispetto dei patti firmati nel 1155 che promettevano un embolo ed uno scalo.
Già da prima del 1153 i Genovesi ebbero un fondaco ad Alessandria (ed il suo movimento d’affari eguagliava quello di tutta la Terrasanta) giusto allo sbocco delle vie commerciali con l’Oriente e l’interno dell’Africa.
Nel 1154 nove galee marocchine (con cui Genova aveva un trattato di pace) saccheggiarono in Sardegna una nave genovese di ritorno da Alessandria ma, scoperta l’origine della nave, fu consegnata al giudice di Cagliari affinché fosse riconsegnata a Genova con le loro scuse.
Nel 1188 Genova espugnò Tolemaide ed ottenne privilegi a Tiro (1194) ed in altre parti della Siria.

Con l’espanzionisto lungo la costa si amplia anche la città, e ad aprile 1152, per ragioni di salute pubblica, i Consoli decretarono la chiusura dei 52 macelli operanti fino a quel momento e aprirono per la macellazioni due spazi aperti di proprietà comunale (uno in Soziglia ed uno al Molo) e si riconobbero su di essi i diritti viscontili.
Dopo l’incendio del 1122 che devastò la periferia cittadina (Brolium) e quello devastante del 1141 la città si organizzò e quando il 25 dicembre 1154 scoppiò un incendio nella zona di Prè lo si arginò rapidamente.
Una legge del 1143 impedì alla moglie di possedere più della terza parte dei beni del marito ("jus tertiae") ma si dovette accontentare di una somma fissa "come da consuetudine".
La cassa del Comune, per l’impresa di Tortosa, aveva un forte disavanzo. La metà del debito era stato contratto con banchieri piacentini che fino al 1154 dovettero forzare la mano al Comune per rientrare delle loro 6.000 lire.
Si dovette procedere alla vendita dei beni e delle entrate del Comune com’era consuetudine, tanto che nel 1144 i Consoli avevano ceduto la riscossione dei dazi sul lino ad una società di cui facevano parte.
A febbraio 1149 si dovette procedere alla vendita, per 1.300 lire, del profitto di alcuni dazi (pesi, misure, rive, scoli e il monopolio del sale) per quindici anni al fine di compensare il debito pubblico. A fine 1149 vendettero per ventinove anni ad un consorzio di cui faceva parte anche il Console Caffaro, l’appalto per la riscossione delle tasse portuali e i proventi dei pedaggi di Voltaggio. Nel gennaio 1150 vendettero per ventinove anni a Guglielmo Vento l’appalto dei banchi di cambio per 400 lire.
Nel dicembre 1150 i Consoli allogarono per ventinove anni le spettanze del Comune in Tortosa per 300 lire annuali. Cedettero ai canonici di S. Lorenzo, che già ne possedevano i 2/3, la restante parte dell’isola di Tortosa e 1/2 di ciò che in quell’isola ricevevano dal Conte di Barcellona.
Nel gennaio 1152 quasi unanimi cedettero a Guglielmo Piccamiglio per venti anni il monopolio del sale ricevendo dai soci della compera 800 lire; vendettero per due anni il castello ed il pedaggio di Rivarolo a Grifo e Lamberto Guercio.
Nel gennaio 1154 gli Embriaco acquistarono l’investitura di Gibelletto e dei possedimenti genovesi di Laodicea, Acri e Antiochia; concessero a Baldassare Fornaro il castello di Fiaccone per ventinove anni e cedettero al Conte Raimondo Berengario IV la parte di Tortosa del Comune per 11.640 marabotini che non vennero versati.
Nel febbraio 1154 i Consoli eletti, vista la disastrosa situazione, rifiutarono la carica ma poi l’accettarono su pressione dell’Arcivescovo Siro II. Fabbricarono nuove galee, poiché ve n’era penuria, e risolsero le 15.000 lire di debito pubblico entro la fine del loro consolato pacificando al contempo i loro concittadini.
Nel 1155 i Consoli impedirono per il futuro la vendita e l’obbligazione di redditi del Comune per più di un anno e che le vendite o le obbligazioni di quei redditi non durassero oltre al consolato di chi le aveva consentite. Quindi riscattarono tutti i principali redditi.
Per attirare molti nobili lombardi e romani concessero a partire dal 1150, e più frequentemente nella seconda metà del secolo, libertà di commercio in imprese marine fino ad una certa somma. Molti giurarono fedeltà al Comune.


Le otto Compagne della Genova medievale

Nel 1130 la città di Genova era divisa in sette compagne. Nel 1134 venne aggiunta l'ottava cioè quella di Porta Nuova. Nel Medioevo, i più nobili e ricchi cittadini genovesi si organizzarono in consorzi di famiglie che abitavano nelle stesse contrade e che avevano interessi comuni. Tali consorzi furono detti Compagne. I capi, detti consoli e viceconsoli, avevano il mandato di governare, comandare le imprese, giudicare sulle vertenze dei soci; insomma avevano contemporaneamente funzioni amministrative, militari e giudiziarie.
Per fare un confronto, in origine la Compagna funzionava grosso modo secondo le regole della odierna "società in accomandita", una società commerciale la cui amministrazione può essere conferita soltanto ai soci accomandatari, i quali rispondono illimitatamente per le obbligazioni sociali, mentre i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita, ma non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società.
La Compagna era quindi un patto di natura essenzialmente commerciale, tra Nobili genovesi, che erano di fatto dei mercanti, ed Artefici, cioè coloro che si dedicavano alle arti minori. Gli artefici erano stati resi liberi dai Vescovi e dai feudatari e costituirono il Popolo del Comune di Genova prima e della Repubblica di Genova poi. Secondo alcuni autori, tra cui HENRICH SIEVKING, le Compagne erano soltanto organizzazioni militari.
Quando le Compagne aumentarono ad otto, il Popolo volle che i vantaggi e gli oneri delle Compagne fossero ripartiti tra tutti gli abitanti di Genova.
Il Vescovo assisteva alle riunioni del Parlamento delle Compagne (che oggi chiameremmo "assemblea generale" di tutti i soci) e conferiva carattere sacro alle decisioni prese. I Consoli avevano funzioni esecutive non deliberative. I soci dovevano giurare un Breve o Statuto.
Nella versione degli Annali del Caffaro edita dal Comune di Genova, a p. 114 del vol. VI si legge che, secondo un documento del XV secolo, le otto compagne e le contrade della città attribuite ad ognuna di esse erano le seguenti (Le immagini degli stemmi sono tratte da Angelo M. Scorza, Libro d’oro della nobilità di Genova, Genova, Weser, 1920):

I – COMPAGNA DI CASTELLO - Stemma della Compagna del sestiere di Palazzolo detta poi di Castello: un castello di tre torri sopra archiCastello con in cima una bandiera, campo bianco, croce vermiglia. Contrade di Castello: di Sarzano, di Ravecca con la Colla di sopra e di sotto.
II – COMPAGNA DI MACAGNANA - Stemma della Compagna del sestiere di Maccagnana, che comprendeva l’abitato che da Sant’Ambrogio va Macagnanaal Canneto: partito di azzurro e bianco. Contrade di Mascherona, di Santa Croce, del Prione di San Donato
III – COMPAGNA DI PIAZZALUNGA - Stemma della Compagna di Piazza Longa, che comprendeva le località di San Bernardo, San DonatoPiazzalunga e la contrada dei Giustiniani: scudo terzato in palo di azzurro. Contrade di Piazza lunga di San Marco, di Piazza del Molo, di Chiavica di Ripa
IV – COMPAGNA DI SAN LORENZO - Stemma della Compagna del sestiere di San Lorenzo, la località del Duomo: campo ondeggiante rosso. Contrade di San Lorenzo, di Canneto, di Canneto il lungo, di Scuderia vecchia e nuova
V – COMPAGNA DELLA PORTA - Stemma della Compagna del sestiere della Porta, ossia San Pietro di Banchi: orlato di rosso con un P in mezzo. Contrade di Sant’AndreaPorta, di Santo Stefano, di San Vincenzo, di Rivo Torbido, di Portoria di Chiavoneria, di Campo dei fabbri ferrai,di Piccapietra
VI – COMPAGNA DI SOZIGLIA - Stemma della Compagna del Sestriere di Sozziglia: banda di rosso e campo bianco. Contrade di Soziglia, dei Macelli, di Spaderia, della Maddalena, di Banchi
VII – COMPAGNA DI PORTA NUOVA - Stemma della Compagna del sestiere di Portanuova, la regione di San Siro e della Maddalena: inquartato di azzurro e di bianco. Contrade di Porta NuovaPorta Nuova, delle Fonti amorose, di Fossatello di Valloria, di Valle Chiara, di Via Regia fino alla Porta di Vacca
VIII – COMPAGNA DEL BORGO DI PRÉ - Stemma della Compagna del sestiere del Borgo, Fossatello e Sant’Agnese: palato in otto pezzi di azzurro e bianco ossia d’argento. Contrade di Pré, di Santa Fede, di San Vittore, del Poggio (Pietraminuta,) di San Giovanni,,di San Tommaso.

GENOVA TRA L’ANNO 1000 ED IL 1100


Nel 1107 Torchitorio di Lacono (detto Mariano), cacciato dal suo giudicato di Cagliari, chiese l’aiuto dei Genovesi per riprenderlo. 6 galee al comando del Console Ottone Fornaro espugnarono Cagliari e reintegrarono Mariano nella sua carica ottenendone 6 ville per la chiesa di S. Lorenzo
Intorno al 1015 i saraceni sbarcano in Sardegna per poi puntare sulle coste settentrionali del Tirreno. Nel 1016 Papa Benedetto VII promette la signoria sull'isola al suo liberatore.
Pisa e Genova, su pressione del Marchese Adalberto II e del Vescovo Giovanni II congiunsero le flotte sotto la guida degli Obertenghi. La collaborazione tra le due città prosegue negli anni con alcune spedizioni in terra d'Africa volte a debellare la piaga della pirateria saracena.
Con la partecipazione delle milizie cittadine guidate dai Vescovi, cacciarono da Lunigiana, Corsica e Sardegna la flotta saracena. Le flotte nel giugno 1016 sconfissero i Saraceni nei pressi della Sardegna catturando la famiglia del loro sovrano. L’anno successivo terminò la liberazione della Sardegna dai Saraceni che tornò allo statu ante quo mentre gli Obertenghi ed alcuni loro vassalli iniziarono una lenta penetrazione politica ed amministrativa in Corsica. Genovesi e Pisani acquistarono così il predominio del Mediterraneo e portarono il conflitto fino alle coste islamiche della Spagna, Sicilia, e Ifrìqiya.
Nel 1052 si registra la composizione dei dissidi tra l'autorità vescovile (residente nell'area di S. Lorenzo) e l'autorità dei Visconti (area di S. Siro). Cresce il potere del Vescovo a discapito dei Visconti.
Mentre per il resto della penisola, l'evoluzione verso lo stato indipendente porta alla nascita di nazioni attorno ad una figura forte, principalmente ereditaria o anche elettiva, a Genova la situazione di stato unitario è di sola facciata.
Nel 1061, su invito di Papa Benedetto VIII, Genova e Pisa, sconfissero definitivamente in Sardegna il Re saraceno Mugìâhid ibn abd Allah al Amiri catturandolo in combattimento. Nel 1063 i rapporti commerciali con la Siria e la Terrasanta erano completamente ristabiliti. A Genova venne creata addirittura una stazione d’imbarco per la Terrasanta.
Il commercio e la pirateria in questo periodo erano talmente proficui da permettere di aumentare il capitale investito del 200% l’anno.
Tra il 1060 ed il 1080 vennero stipulati una serie di accordi commerciali con gli Hammadidi e con gli Ziryti (succeduti si Fatimiti).
Nel 1070 i Pisani occupano parte della Corsica già dominio genovese dando origine ad un ininterrotto stato di tensione che durerà anni.
Nel 1087 Amalfi, Gaeta, Genova, Pisa e Salerno, su invito di Papa Vittore III, occuparono molte zone dell’Africa rendendo i Re di Tripoli e Tunisi tributari della Santa Sede. Con 300 navi e 30.000 uomini occuparono Pantelleria; la flotta araba non uscì dal porto perché indebolita dalle sconfitte inflittegli da Ruggero d’Altavilla. L’8 agosto 1088 (S. Sisto) sbarcarono a Zawila, ruppero le catene di sbarramento al porto, devastarono la città e le navi ed occuparono la penisola di Mehedia. Thamim, sultano ziryta di Mehedia, per ottenere la pace dovette pagare mezzo milione di lire, liberare i prigionieri e concedere l’esenzione dai dazi a Genovesi e Pisani. In ricordo della cattura della città venne edificata sulla marina di Prè una chiesa dedicata a S. Sisto.


LA NASCITA DELLA POTENZA MERCANTILE GENOVESE: LA FLOTTA


Inizialmente furono costruite da un singolo maestro d’ascia con un singolo committente che se ne assumeva le spese (tra cui la tassa per il varo) ed un singolo padrone che l’armava e la governava; solo in seguito per galee da guerra e grandi navi si creò un arsenale: la Darsena (Daar Senaah "casa di lavoro").
Rimase un unico maestro d’ascia anche se ne coordinava molti altri specialisti in vari settori della nave. Il committente divenne una società in partecipazione, il numero di partecipanti iniziali che sostenevano le spese determinavano il numero di parti di cui era composta la nave. Gli armatori si trasformarono anch’essi in società ma i loca in cui venivano divise le spese d’armamento equivalevano alle spese per un singolo marinaio (vitto e paga), perciò era frequente che alcuni marinai diventassero armatori di se stessi. I rematori erano liberi e soldati reclutati ad podisias cioè in base alle liste di leva obbligatorie e ricevevano, come tutto l’equipaggio una partecipazione agli utili.
La città per le imprese militari d’interesse comune non manteneva alcuna flotta militare ma ricorreva a quella commerciale dei privati. Ogni nave, poiché vi era un fenomeno endemico di pirateria, era da guerra oltre che commerciale. In caso di mobilitazione il Comune dichiarava il Devetum, in pratica la proibizione di intraprendere commerci marittimi, e quindi requisiva le navi necessarie. Per tali motivi la flotta era spesso poco affiatata ed inoltre gli uomini sottratti alle attività produttive potevano essere impiegati solo per tempi limitati pena la paralisi economica.
Le navi corsare, che ebbero una parte di predominante importanza nelle guerre di Genova, erano allestite e dirette da privati per specifici fini militari e di saccheggio. Il Comune le incoraggiò, senza finanziarle, pur imponendo loro una cauzione onde evitare che assalissero navi alleate. A loro spettava tutto il bottino tranne i prigionieri e la nave.
Le navi in genere erano o snelle a remi e quindi da guerra oppure larghe e a vela. Queste ultime erano più indifese ma potevano portare il carico quattro volte maggiore pur costando tre volte meno di una galea per questo furono preferite su rotte tranquille dove si muovevano scortate ed in convogli (carovane). 250 persone d’equipaggio ed in genere ogni Compagna armava le sue.
Queste sono le principali imbarcazioni Genovesi del periodo:
Nave: a vela dotata di tre ponti con tre castelli alti non meno di sette metri. Erano vere fortezze galleggianti che potevano anche raggiungere le 200 tonnellate.
Uscere: nave per il trasporto dei cavalli munita d’ampi portelli sui fianchi. Furono molto costruite in occasione della Crociata di S. Luigi.
Gàrabo: nave a vela detta caracca ed infine caravella.
Goletta: veliero piccolo con bompresso, due alberi e vele quadrate.
Gatto: bastimento a remi; dotato di castelli coperti in cui si proteggevano i soldati.
Calandra: nave tondeggiante a vela per il trasporto di cavalli e milizie simile alla bizantina Chelandra.
Abbiamo inoltre il buco ed il cursore.

Queste invece furono le macchine da guerra navali e di fanteria usate dai Genovesi agli inizi dell’anno mille:
Gli Speroni : alberi navali usati come speroni laterali; Su modello degli speroni navali a terra era usato il gatto che serviva ad abbattere le mura a colpi. All’estremità aveva una forma a testa di gatto. Era di legno non combustibile e rivestito di cuoio. Dentro aveva una trave dove si metteva un ferro uncinato (Falce) che quando era piegato estraeva le pietre dal muro oppure rivestivano la testa di ferro (Bolcione o Montone) in modo da sfondare le mura.
Il Fuoco greco: Vasi di terra, contenenti zolfo, carbone e salnitro, da lanciare a mano contro gli avversari.
Le comuni Pietre con il lancio a distanza con catapulte, balestre, pietrere.
I Liquidi bollenti come olio, pece, calce viva, sapone liquido (per far scivolare gli avversari).
I Castelli mobili sia specificatamente terrestri ma su modello del castello navale.


GENOVA E LA PRIMA CROCIATA


albori del secondo millenio, per i ricchi europei, cristiani cattolici, il massimo delle aspirazioni era raggiungere la Terra Santa, profanata dai fanatici seguaci di Maometto. Nessun porto, allora, era più indicato di quello genovese per organizzare viaggi verso quei lidi. Sappiamo, grazie al Caffaro, l'unico reporter genovese dell'epoca, che esisteva una nave destinata a queste particolari crociere che si chiamava "Pomella", e che si suppone fosse di proprietà degli Embriaci, in quel periodo famiglia più importante e ricca della città. La nave partiva da Genova nei primi giorni di Aprile e ci metteva alcuni mesi per raggiungere Giaffa, dove sostava, in attesa dei pellegrini, fino al primo Settembre, quando ripartiva per il capoluogo ligure. Il luogo che ospitava questi pellegrini prima della partenza o all'arrivo era la "Commenda" di Prè.
Proprio in quegli anni, Genova cominciava a far valere un acceso antagonismo marittimo con Pisa, che nel Medio Evo era molto più grande di Genova. Tutte e due le città possedevano una flotta ed entrambe avevano sopportato l'onta del saccheggio saraceno. Così, pur odiandosi nell'ombra, si allearono per combattere la minaccia islamica e in un'epica battaglia, nei pressi di Luni, annientarono la flotta islamica, costringendo il loro capo Mugahid, a fuggire in Sardegna, dove fu raggiunto dalle navi alleate. Gli uomini appena sbarcati si diedero al saccheggio della città di Cagliari. Molto probabilmente, il bottino più grosso lo fece l'Embriaco, nonno del celebre Guglielmo che incontreremo più avanti, al comando della flotta genovese, che riportò questo tesoro in città per costruire quella che ancora oggi è la Cattedrale: San Lorenzo. Ma questo non accadde subito, forse per colpa di qualche malinteso tra l'Embriaco e il clero, e con quell'oro venne costruita un'altra chiesa, ancor oggi famosa: l'Abbazia di San Siro.
Il punto di svolta per Genova è rappresentato dalla Ia Crociata. Il Papa Urbano II perora la causa della liberazione di Gerusalemme. S. Siro è la sede della "propaganda".
Qualche anno prima del 1100, Genova era una città molto povera, che riusciva a stento a mantenere i suoi traffici marittimi e con la popolazione ai limiti della sopravvivenza. Ma in una calda giornata dell'estate 1097, le sorti di Genova cominciano ad essere meno grame: è l'inizio di "Genova nei secoli d'oro".
Nel 1095 Urbano II nei concili di Piacenza e Clermont bandì una Crociata per liberare la Terrasanta dai Turchi. A Genova vennero Ugo di Chateaunef d’Isère Vescovo di Grenoble e Guglielmo I Vescovo d’Orange a lessero nella piazza di S. Siro ai Genovesi, molti dei quali reduci da Tortosa, la lettera pontificia.
Fu, infatti, nel Luglio di quell'anno che la "Compagna" chiamò a raccolta tutti i genovesi presenti nel borgo. Erano arrivati due Vescovi francesi, inviati dal Papa Urbano II, che chiedevano l'aiuto, con l'invio di viveri e volontari, per l'armata dei crociati che versava in gravi difficoltà in Terra Santa. La fame rischiava di decimare l'esercito più delle battaglie. Si dovevano raccogliere provviste alimentari e servivano marinai e vogatori, tutti volontari e non remunerati. Guglielmo Embriaco, console del "Castrum", forse il più autorevole cittadino dell'epoca, chiese ai presenti di giurare fedeltà all'impegno e tutti furono felici di farlo. Si riuscì in poco tempo ad organizzare la prima spedizione e i Vescovi tornarono in Francia, felici dell'accordo, dando appuntamento ai genovesi al porto di San Simeone, vicino ad Antiochia.
In poche settimane si riuscì a riempire una salanda, l'imbarcazione da carico di quei tempi, di derrate alimentari. La gente si privava di qualsiasi bene e lo portava al Mandraccio per essere caricato sulla nave che doveva partire per la Terra Santa. I magazzini (fondaci) di Sottoripa erano stracolmi di merce pronta per essere stivata.
Quando tutto fu preparato, il 24 Luglio 1097, la flotta, composta da dodici galee e dalla nave da carico, salpò verso la Terra Santa. I marinai genovesi erano circa quattromila, cioè tutti gli uomini abili disponibili della repubblica. La nave ammiraglia era la "Grifona", comandata da Guglielmo Embriaco.
L’esercito crociato prese Nicea il 21 ottobre 1097, e poi Antiocheta, Tasso e Mamistra. Baldovino, Conte di Fiandra, prese Edessa e si stanziò in quei territori. I crociati restanti proseguirono fino ad Antiochia che fu assediata in ottobre.
Il viaggio cominciava costeggiando le rive tirreniche per attendere l'arrivo delle altre flotte delle Repubbliche Marinare, cioè Pisa e Amalfi, ma chissà per quali motivi sia i pisani che gli amalfitani non si aggregarono, lasciando i genovesi da soli. Anche i veneziani, contattati dai Vescovi francesi, trovarono qualche scusa e rinunciarono a dare il loro aiuto ai crociati.
Così, i genovesi cominciarono in perfetta solitudine quell'avventura ed arrivarono nel porto di San Simeone, nel Novembre del 1097. Qui furono festeggiati dal contingente rimasto sulla costa e, subito, furono inviati dei messaggeri per informare le truppe crociate che stavano assediando Antiochia. Questi saputa la notizia dell'arrivo dei viveri abbandonarono gli accampamenti e, di conseguenza, l'assedio, per raggiungere la nave genovese. Molti turchi riuscirono a fuggire da Antiochia, nascondendosi nella città di Solino. L'Embriaco per agevolare il trasporto dei viveri verso Antiochia, dispose una colonna di 600 uomini che dovevano portare i sacchetti con gli alimenti. Purtroppo, per giungere ad Antiochia, dovevano passare da Solino, dove furono attaccati dai turchi e barbarmente massacrati.
Quando la notizia giunse nel porto dove la flotta genovese aveva attraccato, i compagni dei martiri partirono inferociti verso la città dove era avvenuto l'agguato. Era talmente grande la rabbia che dopo aver violato le mura, i genovesi, abbatterono a calci e pugni le porte e trucidarono selvaggiamente tutti i turchi. Qualche anno dopo Solino sarà donata come colonia ai genovesi.
Un mese dopo i Genovesi sbarcarono ed espugnarono S. Simeone (10 miglia da Antiochia, alle foci dell’Oronte). Su pressione di Boemondo d’Altavilla inviarono 600 dei loro migliori uomini ad Antiochia ma li persero contro una colonna di 1.000 Saraceni uscita dalla città. Lasciate le navi, raggiunsero ed espugnarono Antiochia il 3 giugno 1098 per il tradimento di Emir Feir che consegnò a Boemondo di Taranto la torre da lui protetta.
Una controffensiva guidata da Kiwani ed Daula Kerbgha principe di Mossul e da Kilgi Arslan sultano d’Iconio chiuse i crociati nella città appena espugnata. Guidati da un sogno mistico i crociati rinvennero la lancia che trafisse il costato di Gesù e seguendola in battaglia il 28 giugno sconfissero e cacciarono i mussulmani.
Il 14 luglio 1098 Boemondo, proclamato Principe d’Antiochia, cacciò dalla città Raimondo di Saint-Gilles e donò ai Genovesi per compensarli del loro impegno un fondaco, un palazzo, la chiesa di S. Giovanni, 30 case, un pozzo e l’esenzione dai tributi.
Questa conquista rappresenta il primo passo verso la rete coloniale alla genovese. Genova non possiede un numeroso esercito, e non può sprecare uomini a difesa di vasti territori lontani dalla madre patria. Lo schema quasi tipico della colonizzazione genovese è costituito da: una via e/o una piazza, alcune case contigue, un pozzo, alcuni fondaci e l'esenzione perpetua da tasse e gabelle. L'intenzione sembrerebbe quella di creare un'area commerciale di piccole dimensioni, facilmente difendibile, gestibile autonomamente dal resto del territorio e non gravata da imposte straniere.
Rientrando in patria fecero scalo a Patara entrarono in Mira (città licia, Asia Minore), s’impadronirono di un urna contenente le ceneri di S. Giovanni Battista, patrono della città e del Sacro Catino, e le trasportarono a Genova dove risiedono tuttora nel Duomo. Nello stesso periodo i Portofinesi acquistarono le reliquie di S. Giorgio fino a quel momento sepolte a Nicomedia. Le collocarono in una cappella collocata su uno scoglio.


GENOVA E LA SECONDA E TERZA CROCIATA


Come abbiamo visto, nella prima crociata, la figura più importante tra i genovesi dell'epoca era Guglielmo Embriaco, console del "Castrum". Fu lui a promuovere le prime spedizioni in Terra Santa a sostegno dei Crociati e, grazie alle sue conoscenze in alto loco, primo fra tutti Goffredo da Buglione, permise alla città di Genova di divenire la prima potenza commerciale nel Mediterraneo. Tramite concessioni imperiali e colonie donate per i servigi offerti, Genova iniziava ad essere conosciuta in tutto il mondo.
Infatti, nel 1102, anno di costituzione del "Comune" (con Guglielmo primo Console Communis), la città era un cantiere in fermento: venivano costruite nuove abitazioni, edificate chiese e il porto che solo quattro anni prima languiva nell'incertezza del futuro era costretto ad allargare i moli spostandosi sempre più a ponente.
Anche l'Embriaco decise di migliorare la propria casa, innalzando la Torre per farla diventare la più alta della città. Ma Guglielmo aveva molte risorse e non si faceva apprezzare soltanto per la sua bravura politica e marinaresca. Le sue capacità spaziavano anche nell'arte militare e due sue invenzioni fecero la fortuna di molti comandanti crociati. Si presume che sia stato lui a migliorare una delle armi più temibili del Medio Evo: la balestra. Difatti, celebri erano i "balestrieri del Mandraccio" che venivano richiesti sia nelle battaglie a terra che in quelle navali. Di sicuro è sua l'invenzione della "Torre mobile", un'alta costruzione in legno rivestita di cuoio, che veniva avvicinata alle mura delle città assediate, per permettere ai balestrieri nascosti al suo interno di scaricare le frecce delle balestre verso il nemico asseragliato. Quest'arma segreta fu determinante per la conquista di Gerusalemme.
Siccome, si stavano progettando altre spedizioni in Terra Santa, l'Embriaco, dimostrando, anche le sue grandi capacità diplomatiche e persuasive, riuscì a convincere anche i cittadini rivieraschi ad offrirsi volontari per queste avventure. Ci riuscì, grazie al Vescovo Airaldo, aumentando di circa tremila uomini la sua flotta. La maggior parte di questi furono impiegati come vogatori, il lavoro più duro sulla nave, ma molti furono ripagati di questi sacrifici perchè ad essi furono concesse le terre che i musulmani abbandonavano all'avanzare dei Crociati.
Nel 1099 solo 2 galee furono inviate a Cesarea. Il 7 giugno 1099 i Crociati francesi iniziarono l’assedio di Gerusalemme con soli 20.000 fanti e 1.500 cavalieri. I Genovesi, guidati da Guglielmo Embriaco detto "Testa di maglio" e da Primo di Castello, giunsero di rinforzo e con nuovo slancio, nonostante la minaccia delle navi saracene ancorate ad Ascalona, vennero costruite 2 torri d’assedio con il legname delle navi. Gerusalemme fu espugnata il 15 luglio grazie ad un ariete con cui i Turchi cercavano di allontanare una torre mobile genovese. I Genovesi lo usarono come ponte ed assaltarono le mura. Goffredo di Buglione divenne "Difensore del S. Sepolcro".
Espugnata Gerusalemme giunse l’emiro Efdhal ed Djoujousch, visir di Mostalì e califfo d’Egitto con un grande esercito sconfitto dai cristiani nella piana di Er Ramlèh.
Poiché furono i primi nel 1097 a soccorrere i Francesi, seguiti ad operazioni concluse da Veneziani e Pisani, e per l’aiuto nella conquista di Gerusalemme, Antiochia, Laodicea, Cesarea, Arzuf e per aver espugnato Accaron, Solino e Gibello ebbero in dono una contrada in Gerusalemme, una in Giaffa ed 1/3 di Cesarea, di Arzuf e di Accaron.
Tornarono a Genova la vigilia di natale 1099 con una richiesta di rinforzi dalla Terrasanta.
Uno dei momenti più importanti della storia medievale fu la conquista di Gerusalemme.
All'alba del 15 Luglio 1099, la torre mobile ideata da Guglielmo Embriaco fu avvicinata alle mura; i soldati musulmani, i temibili Mamluk (da qui il termine "mamelucchi", dispregiativo usato ancor oggi dai genovesi) cominciarono a scagliare frecce incendiarie contro le pareti di cuoio della torre, concentrandosi quasi tutti contro di essa. I balestrieri genovesi al coperto nella torre iniziarono a lanciare le loro frecce sterminando gli avversari. Quando i mamluk furono tutti uccisi, l'Embriaco sventolò il vessillo col Grifone, segnalando a Goffredo di Buglione il via libera. Questi, con i suoi uomini, salì le scale appoggiate alle mura e penetrato nella città fece abbassare il ponte levatoio, mettendo per primo il piede a Gerusalemme, finalmente conquistata.
Una seconda spedizione guidata da Guglielmo Embriaco approda a Giaffa dove vengono smantellate le navi per evitarne la cattura da parte nemica. Il legno ricavato viene trasportato fino a Gerusalemme, dove viene riutilizzato per la costruzione di una torre d'assedio. Proprio il manufatto ed il valore dei genovesi portano alla liberazione della Città Santa (15 luglio 1099).
I primi di agosto 1100 26 galee e 4 navi con 8.000 uomini in armi partirono per Gerusalemme per soccorrere Goffredo di Buglione. Arrivati a Laodicea nell’ottobre 1100 svernarono reggendo quei territori rimasti senza governo, con la morte del Duca Goffredo di Buglione, la prigionia del Conte Boemondo d’Altavilla, il ritiro di Raimondo di Saint-Gilles verso Costantinopoli ed il rimpatrio delle 200 navi appartenenti alla flotta veneziana.
In accordo con il Legato pontificio, il Vescovo Maurizio, e in contrasto con il Patriarca Damberto invitarono a colmare i vuoti politici Baldovino, Conte di Edessa, e Tancredi d’Altavilla, Principe di Tiberiade. Tancredi prese possesso del principato di Antiochia; Baldovino con 200 cavalieri e 300 fanti accettò il regno di Gerusalemme ma solo a patto di ottenere l’aiuto genovese nell’espugnare due città che avrebbe in seguito indicato.
Partì per Gerusalemme e ne divenne Re nel 1101, dopo aver sconfitto 3.000 turchi nei pressi di Baruti (Siria).
Genova otterrà dalla cessione di quei domini vacanti che si era prestata a reggere, oltre la riconferma della colonia di Antiochia, il possesso di un quartiere a Gerusalemme ed uno a Giaffa e di tutte le città che avrebbe contribuito a conquistare, 1/3 di Arzuf, una casa a Cesarea ed 1/3 di Acri e delle sue entrate e 300 bisanti ogni anno.
Dopo aver predato mentre svernavano ad Antiochia le coste tra Laodicea e Giaffa, diressero a Gerusalemme durante la Quaresima.
Il lunedì dopo la domenica delle palme con tutta la flotta diressero a Giaffa. Dopo aver trascorso la Pasqua a Gerusalemme, su incarico di Re Baldovino, assaltarono il 6 maggio 1101 Arzuf e l’espugnarono in tre giorni.
A maggio presero Cesarea scalando le mura senza usare alcuna macchina da guerra. Riuscirono ad espugnarla soprattutto per l’eroismo del Console Guglielmo Embriaco che scalate per primo le mura incitò l’esercito dall’alto di una torre. Cesarea venne saccheggiata e la popolazione risparmiata. Il bottino, tolto 1/15 per gli armatori, ammontò a più di 20.000 lire e 16.000 libbre di pepe. Tra tanta ricchezza anche il catino, ora conservato nella Metropolitana, in cui aveva mangiato la Pasqua Gesù. Ritornarono a Genova nell’ottobre 1101.
Durante il rientro si scontrarono presso Itaca con la flotta imperiale comandata da Landolfo. Catturarono e distrussero 7 chelandrie e con le loro 63 galee mossero verso le restanti 63. Trovandosi in difficoltà, l’Ammiraglio imperiale chiese una tregua a Corfù e accompagnò i genovesi Lamberto Guezo e Raimondo di Rodolfo come ambasciatori dall’Imperatore Alessio. Mentre erano a Corfù giunsero da Genova 8 galee, 8 gàrabi e una grossa nave carica di armati guidate da Mauro di Piazzalunga e Pagano Della Volta. Tale flotta diresse poi a Torcuosa e con Raimondo IV di Saint-Gilles, signore di Edessa, l’espugnò (nel marzo 1102).

Una terza spedizione in Terra Santa vede ancora protagonista Guglielmo Embriaco che con una flotta della Repubblica di almeno 26 galee e 8000 uomini, senza contare i pellegrini, si reca a Laodicea (1101). Terminato il pellegrinaggio a Gerusalemme, partecipa alla conquista di Tiro e successivamente di Cesarea.
Alla morte del conte Raimondo, il nipote di Guglielmo di Giordano ed il figlio Bertrando di Raimondo IV di Saint-Gilles chiesero ai Genovesi aiuto per espugnare Tripoli. Nel 1109 60 galee al comando di Arnaldo e Ugo, figli dell’Embriaco, partirono per l’Oriente. Presero Tripoli (13 luglio 1109) e con Tancredi principe di Antiochia Gibello. Bertrando di Saint-Gilles fu fatto Conte di Tripoli da Baldovino I di Gerusalemme e donò ai Genovesi i restanti 2/3 di Gibelletto invece che cedere la parte di Tripoli che aveva promesso. A Gibelletto, affianco ad Ansaldo Corso, venne lasciato Ugo Embriaco. Nel 1110 22 vengalee genovesi presero (su invito di Re Baldovino) Beirut e Mamistra e per via delle loro imprese fu posta il 26 maggio 1105 una lapide murata nella tribuna della chiesa del S. Sepolcro, costata 2.000 bisanti, il cui testo in oro attestava l’eroismo e le concessioni fatte ai Genovesi e un’altra sopra l’altare contenente l’iscrizione "Praepotens Genuensium Praesidio". Avevano il possesso di Mamistra, Salino, Gibello, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beirut, S. Giovanni d’Acri, Gibelletto, Cesarea, Arzuf, Giaffa, Ascalona e più di un quartiere di Gerusalemme. Nel 1127 Boemondo II confermò le donazioni fatte dal padre nel 1098 in Antiochia, Solino e Laodicea. Nel 1135 Innocenzo II concesse franchigie nei regni di Gerusalemme e Cipro. Nel 1136 12 galee nei pressi di Bugea (regno di Algeri) catturarono una nave saracena e fecero prigioniero Bolfetto, fratello di Matarasso ed un carico di 8.500 lire ed ottennero un fondaco e il diritto di riscuotere un’aliquota delle imposte portuarie a Bugea. Il fondaco era più piccolo e unico rappresentante politico era lo scriba; tutto si accentrava in un unico fabbricato (dogana, deposito, mercato, albergo e chiesa). Nel 1137 22 galee andarono a caccia di 40 galee saracene capitanate da Mohammed ibn Meimûm (Maimone), signore d’Almeria. Raggiunta Algeri e non riuscendo a raggiungere queste navi assaltarono altre navi e saccheggiarono la costa. Nel 1142 l’espansione nel Mediterraneo era tale che la Repubblica mandò ambasciatori Oberto Torre e Guglielmo Barca alla corte di Costantinopoli ottenendone, sulla scia di Venezia e Pisa, immediati privilegi. Nel 1104 i Genovesi con 40 galee aiutarono il conte Raimondo ad espugnare Gibelletto (poi assegnato come feudo agli Embriaco) e, lasciato Ansaldo Corso a presiedere la parte di città destinata a loro, aiutarono Re Baldovino ad espugnare S. Giovanni d’Acri. Ottennero per questo una via, 1/3 dei quartieri periferici, 300 bisanti annui e l’esenzione dai tributi nonché il titolo viscontile per Sigibaldo, canonico di S. Lorenzo. Alla morte del conte Raimondo, il nipote di Guglielmo di Giordano ed il figlio Bertrando di Raimondo IV di Saint-Gilles chiesero ai Genovesi aiuto per espugnare Tripoli. Nel 1109 60 galee al comando di Arnaldo e Ugo, figli dell’Embriaco, partirono per l’Oriente. Presero Tripoli (13 luglio 1109) e con Tancredi principe di Antiochia Gibello. Bertrando di Saint-Gilles fu fatto Conte di Tripoli da Baldovino I di Gerusalemme e donò ai Genovesi i restanti 2/3 di Gibelletto invece che cedere la parte di Tripoli che aveva promesso. A Gibelletto, affianco ad Ansaldo Corso, venne lasciato Ugo Embriaco. Nel 1110 22 galee genovesi presero (su invito di Re Baldovino) Beirut e Mamistra e per via delle loro imprese fu posta il 26 maggio 1105 una lapide murata nella tribuna della chiesa del S. Sepolcro, costata 2.000 bisanti, il cui testo in oro attestava l’eroismo e le concessioni fatte ai Genovesi e un’altra sopra l’altare contenente l’iscrizione "Praepotens Genuensium Praesidio". Avevano il possesso di Mamistra, Salino, Gibello, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beirut, S. Giovanni d’Acri, Gibelletto, Cesarea, Arzuf, Giaffa, Ascalona e più di un quartiere di Gerusalemme. Nel 1127 Boemondo II confermò le donazioni fatte dal padre nel 1098 in Antiochia, Solino e Laodicea. Nel 1135 Innocenzo II concesse franchigie nei regni di Gerusalemme e Cipro. Nel 1136 12 galee nei pressi di Bugea (regno di Algeri) catturarono una nave saracena e fecero prigioniero Bolfetto, fratello di Matarasso ed un carico di 8.500 lire ed ottennero un fondaco e il diritto di riscuotere un’aliquota delle imposte portuarie a Bugea. Il fondaco era più piccolo e unico rappresentante politico era lo scriba; tutto si accentrava in un unico fabbricato (dogana, deposito, mercato, albergo e chiesa). Nel 1137 22 galee andarono a caccia di 40 galee saracene capitanate da Mohammed ibn Meimûm (Maimone), signore d’Almeria. Raggiunta Algeri e non riuscendo a raggiungere queste navi assaltarono altre navi e saccheggiarono la costa. Nel 1142 l’espansione nel Mediterraneo era tale che la Repubblica mandò ambasciatori Oberto Torre e Guglielmo Barca alla corte di Costantinopoli ottenendone, sulla scia di Venezia e Pisa, immediati privilegi.
I genovesi sono protagonisti delle prime crociate, e per tale motivo molto spesso ricompensati con piccole colonie non solo a Cesarea ma anche a: Tortosa (Siria), Tripoli (Libano), Acri, Gebelet, Beirut. A Gibeletto si crea un possedimento "personale" degli Embriaci fino al XIII secolo quando l'occupazione degli ultimi territori cristiani li costringe a passare a Cipro.
Tutti questi eventi portano Genova ad essere di fatto autogovernata. La nascita della rete coloniale incrementa il commercio e spinge i genovesi all'evoluzione di nuove forme creditizie e assicurative.
Genova si affaccia prepotentemente sullo scenario internazionale ma ciò non porta alla sperata stabilizzazione sociale e "familiare" della madre patria.
Con la crescita politico-miltare-economica di Genova, aumenta la necessità di ampliare l'area di influenza e di controllo sui territori limitrofi. Genova si espande nel nord del Tirreno. Il controllo del levante ligure è una necessittà primaria per poter realizzare una zona sicura tra Genova e la rivale Pisa. I territori genovesi arrivano fino a Portovenere per contrapporsi a Lerici pisana (poi occupata). Il controllo del ponente è più articolato e diplomatico, volto ad integrare quelle città che già si autogovernano.
Dopo tanta miseria Genova, finalmente, scopriva la ricchezza portata da tutte quelle attività che si erano sviluppate dopo le prime Crociate. Naturalmente, questa nuova agiatezza aveva portato un po' di benessere al popolo e molta agiatezza ai "boni homines", ma anche tanti problemi di non facile soluzione. Ecco cosa accadde in quel periodo, secondo Vittorio Giunciglio nel suo libro "I sette anni che cambiarono Genova":
"Con la gloria delle spedizioni in Terra Santa e con la ricchezza che queste avevano portato, Guglielmo Embriaco ed il vescovo Airaldo, si trovarono a dover risolvere tre grossi problemi, causati dal raddoppio della popolazione, e cioè: quelli dell’acqua, del grano e della costruzione di un molo in porto. Per fortuna i soldi non mancavano, la cassaforte della Compagna Communis era piena.
Per il grano, fu consigliata dal Vescovo l’espansione oltre Appennino, nel territorio diocesano genovese. Fu scelta la zona lungo la via Postumia. Perciò furono incorporati prima i paesi di Vultabbio (Voltaggio), Palodio (Parodi Ligure), Gavi e Libarna (Serravalle Scrivia). Per il porto fu decisa la costruzione di un molo a partire dal Mandraccio e parallelo alla Ripa Maris. Gettando grosse pietre, per oltre cento metri fu creata una massicciata per difendere Sottoripa dalle mareggiate del libeccio. Questo è il vento che soffia da sudovest e non essendoci ostacoli, provocava allora grosse ondate provenienti dalla Lanterna, che si riversavano sul Mandraccio.
Nessuno in porto lavorava in occasione di "libecciate". I mariti potevano tornare a casa anzitempo e giustificati potevano fare altre cose... altrimenti all’epoca, chi non lavorava, trovava il piatto girato dall’altra parte! Questo primo molo fu chiamato in seguito "molo vecchio". Alla radice del molo fu eretta la prima dogana d’Italia. Fu chiamata così perché doveva tassare le merci "coloniali" provenienti dal mondo arabo. Infatti "dogana" deriva da "diwan" che in arabo significa "registro". Le gabelle venivano divise in due: metà al Comune e metà alla Chiesa di San Lorenzo.
Siccome in quel punto era ubicato questo misterioso edificio, chiamato poi la "casa del boia", si ritiene che proprio questa fu la prima sede della dogana, spostata poi nel 1270 a palazzo San Giorgio.
Questo edificio fu costruito dai benedettini prima di salpare per la Terra Santa, così come la facciata di San Lorenzo e torre Embriaci. Essi costruirono pure la Chiesa di San Giovanni Battista a Gihello, colonia genovese. La Chiesa è tuttora funzionante in Libano, come parrocchia cristiano - maronita. La «casa del boia" è stata spostata anni fa in piazza Cavour, numerando ogni pietra, per lasciar passare la rampa discendente della Sopraelevata.
Per quanto riguarda l'acqua fu decisa una derivazione per il Burgus a partire da Piazza Manin, Circonvallazione, Castelletto, Piazza Nunziata, Porta Sottana, Piazza Caricamento. Qui bisogna aprire una parentesi, riguardo l'antico acquedotto proveniente da Prato, che a mezza costa raggiungeva Piazza Manin dopo circa 24 chilometri per andare giù fino al Mandraccio. Il Comune di Genova ritiene che sia stato fatto dai genovesi a partire dal 1100 circa, non conoscendosi la storia anteriore al 935, quando furono bruciati dai saraceni i documenti storici della città.
Fortunatamente dagli « Annales » del famoso storico Tito Livio, sappiamo quanto successe a Genova prima del 200 a.C., quando Annibale valicò le Alpi con gli elefanti e si accampò sul Trebbia.
Genova ospitava allora la flotta navale romana comandata da Cornelio Scipione, mentre Savona quella cartaginese di Magone (fratello di Annibale). Magone saputo della partenza delle navi romane, venne a Genova una mattina del 205 a.C., distruggendo e bruciando tutte le case della città, che allora andavano dal Mandraccio a Sarzano. Tutto il bottino razziato fu portato a Savona, alleata allora dei Cartaginesi. I genovesi fortunatamente riuscirono a fuggire. Quando tornarono, al vedere lo scempio delle loro case, venne loro il cosiddetto "magone". Espressione usata tuttora in dialetto, per definire grossi dispiaceri. Quando il Senato romano venne a conoscenza del fatto, con commozione e gratitudine proclamò i genovesi soci dei romani, varando subito provvedimenti per la ricostruzione della città. Inviò il pretore Spurio Lucrezio con due legioni di soldati e con pieni poteri. Egli era anche ingegnere del genio militare. Per prima cosa eresse un muro di cinta, a fianco di un lungo fossato di canne che partiva da "Porta Superana" fino ad un altro canneto, più corto, perpendicolare allo stesso. Nacquero così le denominazioni di "Canneto il Lungo" e "il Curto", arrivate miracolosamente fino ad oggi, tali e quali.
Spurio Lucrezio edificò sul colle di Sarzano il solito Oppidum romano, che comprendeva gli alloggi per i legionari, mense, magazzini vari ed infine l'immancabile Castrum per la Pretura, prima sede del governo cittadino. Il castello era ubicato, dove ora ci sono i ruderi dell'ex Chiesa di S. Maria in Passione. Dopo aver ricostruito anche le case, chiamò la piccola città "Janua", che in latino vuol dire "porta di casa". Ciò significa che per un romano allora, trovarsi a Genova era come essere a casa propria."


GENOVA TRA L’ANNO 1100 ED IL 1200: LA STRUTTURA DELLE PRIME COLONIE GENOVESI, LE PRIME GUERRE ESPANSIONISTICHE

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La struttura tipica delle colonie appartenenti alle città marinare (di cui quella genovese del 14 luglio 1098 è il primo esempio) era differente da quelle finora in auge (greche e latine). Si componevano di un quartiere della città dotato d’alcune case in legno ad uno o due piani; gli artigiani avevano le botteghe allineate nella strada principale (Ruga Genuensium) che dirigeva verso il mare ed era attraversata da numerosi vicoli ciechi. Si chiamava embolo se la via era fiancheggiata da portici dove erano situati case e fondachi.
In porto una banchina era a loro riservato ed era chiusa con una catena mobile, subito dopo vi era la dogana dove si pagavano le tasse imposte dalla colonia (solitamente la colonia era esente dai tributi locali); di fronte alla dogana gli scribi genovesi detti "commerciari" stilavano i documenti in arabo. Al piano superiore vi era un alloggio temporaneo per mercanti.
Nei pressi (in alcune zone nello stesso edificio della dogana) vi sono i magazzini di deposito Fondaco, se un edificio, o Volta, se un solo locale.
In piazza, luogo di raduno della colonia, vi erano gli edifici pubblici in pietra e mattoni: la Loggia Comune e la Chiesa.
Alcune colonie hanno anche la zecca, per battere moneta propria, e a volte un bagno, macelli, mulini, un pozzo ed un forno. In alcuni casi tengono alcuni appezzamenti di terra coltivabili subito fuori città in modo da avere immediate scorte in caso d’assedio ma se ne curano poco.
In sostanza erano un punto d’appoggio per i mercanti, che operavano in forma privata, durante la navigazione o al termine di una via carovaniera.
All’interno di tale quartiere si viveva come in patria, si parlava la stessa lingua e un magistrato (Console o Visconte), inviato dalla madrepatria, tutelava i diritti e i privilegi dei coloni di fronte all’autorità locale.
Avevano larga autonomia politica, ecclesiastica, giurisdizionale e fiscale; in Terrasanta s’ispiravano al regime feudale (il capo colonia portava il titolo di Visconte ed aveva funzioni sia politiche sia giudiziarie) ma sempre sottostando alla legislazione penale e commerciale in vigore a Genova.
Con l’andar del tempo, le colonie presero a seguire sempre di più le leggi della madrepatria, eccetto che per i delitti di sangue, integrate con ordinanze locali e iniziarono a battere moneta locale.
Un tale dominio, frammentario ma solido, si appoggiava su un fatto di diritto (con una serie di contratti) più che sull’occupazione militare e forse per tale motivo durò più a lungo di quanto si potesse pensare.
Nel 1118 la Compagna che era ancora temporanea e durava in quel periodo 4 anni ebbe i Consoli in carica solo per due anni. Si giunse nel 1122 ad un Consolato annuale (fino al 1163), al fine di evitare l’abuso di potere. Ma già nel 1128 vediamo che l’intero blocco consolare dell’anno precedente venne riconfermato. Nel 1121 in questa politica di suddivisione del potere furono istituiti i Clavigeri (custodi delle chiavi dell’erario pubblico e quindi Tesorieri), gli Scrivani e i Cancellieri del Comune. Dal 1125 nella stesura dei contratti e delle laudi consolari si dovettero sottoscrivere i nomi dei testimoni. Inizialmente i Consoli dei Placiti mantennero una giurisdizione territoriale (inizialmente due per ogni Compagna) ma poi si ridussero di numero e già nel 1135 deliberavano per due parti del Comune, ognuna di quattro Compagne, una verso Palazzolo (centro città) e l’altra verso il Borgo (periferia). Dal 1156 i Consoli incaricati di amministrare giustizia sia in Borgo che in Palazzolo operavano nello stesso luogo, il palazzo dell’Arcivescovo, anche se in stanze separate. In questo periodo le Compagne aumentano di numero: nel 1130 divennero 7 e lo stesso anno si introdusse sperimentalmente la separazione tra gli incarichi tra i Consoli dei Placiti e del Comune. Nel 1133 divenne effettiva tale divisione e l’anno dopo le Campagne, ormai identificate geograficamente, divennero 8. Da quest’anno il Comune era consapevole di essere nato: chiunque approdava venne tassato in favore dell’Opera del Molo: 12 denari per chi veniva d’oltremare, un quartino per chi veniva dalla Provenza e una mina di sale per chi veniva dalla Sardegna. Sul capo del promontorio detto "capo di faro" esisteva un fortilizio romano che dominava l’Aurelia ed era custodito per decreto consolare dagli abitanti della periferia. Al suo interno venne eretta nel 1128 la Lanterna. Da almeno un secolo Genova aveva riaperto i valichi appenninici e si era ricollegata alla "Francigena" sia per deviarne parte del traffico sul suo porto che per collocare le merci che affluivano dall’Oriente nei mercati lombardi e d’oltralpe. Pisa fu inizialmente avvantaggiata dal suo collegamento diretto con la "Francigena" ma Genova in poco tempo la superò collegandosi al mercato di Asti e monopolizzando il traffico marino con la Provenza che gli permetteva di commerciare direttamente, lungo la via del Rodano, con le fiere di Champagne e Fiandra. Dato che i porti di Provenza e Catalogna erano arretrati sia per il dominio feudale che per la lunga oppressione saracena che avevano subito installarono colonie nel golfo del Leone, soprattutto a Saint-Gilles, tentando di instaurare un dominio politico sulla falsariga delle città in Terrasanta. Con l’improvviso e prepotente dischiudersi dei mercati orientali, l’espansione economica richiese un controllo sicuro sulle vie di comunicazione e commerciali con l’entroterra ed una riduzione della concorrenza di porti del litorale ligure.
Nei primi decenni del primo millennio si accende la rivalità tra Genova e Pisa. I Pisani in questo momento di rinascita si espansero verso il Tirreno meridionale mentre i Genovesi verso la Provenza e la Catalogna.
Nel 1015 su invito di Papa Benedetto VIII Genova e Pisa cacciarono i Saraceni da Sardegna e Corsica. I Genovesi s’impossessarono amministrativamente della Corsica mentre i mercanti pisani penetrarono a livello commerciale individuale. Il papato le considerava sue proprietà per i diritti derivati dai Carolingi.
Nel 1060 i Genovesi per contrasti sui feudi corsi entrarono in guerra con Pisa e vennero sconfitti da 12 galee pisane a Bocca d’Arno. Nel 1062 a Portofino furono i Pisani ad essere sconfitti.
Nel 1091 Papa Urbano II, in lotta con l’antipapa Clemente III, cedette in locazione perpetua alla chiesa pisana tutta la Corsica e gli diede facoltà di nominare i Vescovi e l’anno successivo su consiglio della Contessa Matilde di Toscana elesse Arcivescovo, Metropolita dell’isola, il Vescovo Damberto (poi patriarca in Terrasanta) e gli diede facoltà di consacrare i Vescovi Corsi. In Spagna dove le due flotte operavano congiuntamente alle notizie provenienti dalla Patria scoppiarono i primi dissapori. Il Papa, sia per le discordie tra Genova e Pisa, sia perché i Vescovi corsi rifiutarono tale consacrazione, dovette revocare tale privilegio e consacrarli di persona.
1118 i Consoli inviarono 10 galee a Gaeta su richiesta di un legato di Papa Gelasio II: lo liberarono dall’antipapa Gregorio VIII e lo portarono a Genova. Lungo la strada, a Pisa, rinnovò la concessione della Metropolitana e poi proseguì per Genova verso la Francia. Mentre era a Genova, alloggiato nel palazzo vescovile, consacrò ad ottobre S. Lorenzo in costruzione ed autenticò le ceneri di S. Giovanni Battista. Quando diresse verso la Francia la flotta genovese lo scortò fino alle bocche del Rodano.
La minaccia costringe i pisani ad accettare le condizioni di resa genovesi. Scampato l'imminente pericolo, Pisa riprende le scorrerie spesso con esito a loro sfavorevole. La mediazione pontificia porta alla revoca dei privilegi pisani sulla Corsica (1123). I nuovi attacchi pisani provocano la decisa risposta armata genovese che in pochi anni occupano numerosi approdi e castelli pisani in terra Corsa. Molti sono i convogli catturati dai genovesi. La paventata costruzione di una flotta pisana volta ad eliminare il naviglio genovese nel Tirreno fino alla Provenza, spinge all'occupazione di Piombino, alla rioccupazione della Corsica e ad un nuovo saccheggio di Piombino. Nel 1119 Callisto II concesse nuovamente il privilegio e divampò la guerra tra le due Repubbliche. Nel maggio 1119 16 galee partirono e sorpresero la flotta nemica in Gallura subendo però una sconfitta a Portovenere. Nel 1120 22.000 tra fanti e cavalieri, 5.000 dei quali corazzati, 80 galee, 25 gatte, 28 golette e 4 navi da trasporto partirono contro Pisa. Giunti a Bocca d’Arno il 14 settembre, i Pisani, vista la preponderanza militare nemica, giurarono la pace rinunciando alla Corsica; furono costretti a ridurre le loro case ad un solo e a liberare dalle carceri tutti i prigionieri genovesi. Nel frattempo, per le pressioni degli ambasciatori Caffaro e Barisone, Callisto II avocò a sé le nomine dei Vescovi corsi. Nei pressi di Pisa due anni dopo 2 galee genovesi sconfissero due galee pisane e fecero 1.000 prigionieri. Nel 1123 Papa Callisto II convocò i rappresentanti di entrambe le città a Roma durante il concilio Ecumenico per approvare il concordato di Worms. Il Papa abrogò ogni concessione ed elesse 24 giudici che consigliarono di abolire il privilegio pisano come avvenne il 6 aprile. La guerra con Pisa continuò fino al 1133. Nel 1124 presso la spiaggia di Castagneto (nei pressi di Livorno) 7 galee genovesi catturarono un ricco convoglio pisano di 22 navi scortate da 9 galee che dalla Sardegna tornavano a Pisa ed in seguito catturarono il pisano Castel S. Angelo. Durante l’estate del 1125 10 galee genovesi costeggiando la Corsica e la Sardegna presero alcune navi pisane; una nave da guerra con 400 uomini d’equipaggio la inseguirono fino all’Arno. Tornati i Genovesi in patria 8 galee pisane partirono per la Provenza al fine di imprigionare i Genovesi là residenti e danneggiare il loro commercio. Genova armò allora 7 galee al comando del Console Caffaro che batterono i mari alla loro ricerca. Trovarono, a metà settembre, una nave da carico ormeggiata sotto il castello di Piombino: distrussero il castello e saccheggiarono il borgo tornando poi a Genova. Lo stesso anno catturarono ad Aquila, in Provenza, una galea pisana. Nel 1126 galee e gatte genovesi giunsero all’Arno e sbarcarono truppe. Lì sconfissero l’esercito pisano e poi distrussero Volterra e il castello di Piombino. Veleggiarono in Corsica ed espugnarono Castel S. Angelo, ricostruito dai Pisani, e catturarono i 300 soldati pisani di guarnigione. Papa Onofrio II, dopo aver tentato inutilmente di pacificare le due città, restituì all’Arcivescovo di Pisa il privilegio di consacrare i Vescovi dell’isola. Nel 1127 16 galee che pattugliavano i mari della Corsica diedero la caccia a 9 galee pisane riuscendo a catturarne una sola. Nel 1128 16 galee inseguirono galee pisane fino alla loro colonia di Messina, l’espugnarono e la saccheggiarono ma su pressione di Re Ruggero restituirono tutto tranne una nave dal valore di 10.000 lire. Nel 1130 Papa Innocenzo II passò mentre dirigeva in Francia ed in sua presenza venne nominato Vescovo il 20 aprile Siro II. Nello stesso anno lo consacrò in S. Egidio [chiesa che, ceduta nel 1250 ai predicatori, prese il nome di S. Domenico]. In tale occasione ottenne da Genova e Pisa un giuramento di tregua fino al suo ritorno dalla Francia. Nel 1131 il Console Ottone Gontardo venne inviato in Sardegna come Legato presso Comite, giudice d’Oristano che per avere, come il suo predecessore, la protezione genovese fece grandi donazioni alla chiesa di S. Lorenzo e al Comune. Nel 1132 16 galee pattugliarono i mari corsi e sardi ma l’unica nave pisana che sorpresero era ancorata nel porto di Cagliari.
Nel 1132 l’abate S. Bernardo da Chiaravalle venne a Genova per incarico di Papa Innocenzo II al fine di chiedere soccorso contro l’antipapa Anacleto.
Il 20 marzo 1133 Innocenzo II fece concludere a Grosseto la pace tra Genovesi e Pisani. Elevò Siro II alla dignità arcivescovile assegnandogli come metropolitana i vescovadi corsi di Marana, Nebbio e S. Pietro d’Ajaccio e i vescovadi di Bobbio e di Brugnato (fatto risorgere per l’occasione). Metà della Corsica divenne dominio genovese ma, come la metà pisana doveva pagare un canone annuo di una libbra d’oro.
La pace arriva solo nel 1133, quando vennero a Genova ambasciatori di Ruggero II di Sicilia (che appoggiava l’antipapa) ma nonostante i loro sforzi partirono 8 galee genovesi dirette a Roma per difendere il papato. I loro sforzi però, appoggiati anche dalle ampie concessioni sull’isola, servirono ad evitare un appoggio genovese alle proposte antinormanne. Dopo la conquista di Civitavecchia, che era fuori dal Regno Normanno, i Genovesi rifiutarono di proseguire oltre. A Roma in compenso si prodigarono fino alla resa dei rivoltosi scismatici.

massima espansione genovese


GENOVA TRA L’ANNO 1100 ED IL 1200: LA CROCIATA IBERICA


Fin dal 1092 le flotte genovese e pisana avevano fornito aiuto militare ad Alfonso VI Re di Castiglia, e le flotte congiunte contavano 400 navi, per espugnare Valenza tenuta da "El Cid Campeador". Entrambe le imprese fallirono per il contrasto tra Genovesi e Pisani alle notizie che giungevano dalle città natali. Nel 1093 i Genovesi da soli, anche in quest’occasione senza successo, agirono in Francia con Re Sancio di Navarra e d’Aragona e con il Conte di Barcellona contro Tortosa.
Nel 1113 il Vescovo di S. Giacomo di Compostella (Galizia) assoldò il genovese Ogerio ed alcune maestranze affinché gli costruissero 2 galee ad Iria Flavia. Armatele poi con 200 uomini vennero usate sulle coste occupate dagli arabi a più riprese. Lo stesso anno il Conte Berengario di Barcellona chiese aiuto contro le Baleari e, con il patrocinio di Papa Pasquale II, Pisani e Lucchesi espugnarono Iviza e, nel 1114, Maiorca. I Genovesi, la cui partecipazione era marginale, abbandonarono la spedizione seguiti poco dopo dai Lucchesi. Nel 1146 Genova non seguì Re Luigi VII di Francia e Re Corrado di Germania nella II crociata. I Saraceni del regno di Granata erano ormai padroni delle Baleari (Minorca e Almeria) e, dal 1137 alleati dei Pisani, esercitarono una forte azione di pirateria ai danni di Genova. Su pressione di Papa Eugenio i Genovesi inviarono 22 galee, 6 golette, macchine da guerra e 100 cavalieri, sotto il comando del Console Caffaro e di Oberto Torre contro le Baleari. A Minorca i Genovesi sbarcarono nel porto di Fornello e lasciati pochi uomini a guardia delle navi, saccheggiarono l’isola per 4 giorni. Ritornati alle galee furono attaccati da 300 cavalieri saraceni e da molti soldati. Sconfittili saccheggiarono la città dell’isola, Polenza. Lasciata Minorca diressero ad Almeria. A Porto Mahon predarono le navi lì attraccate e piantarono le loro tende sotto le mura della città. I Saraceni promisero un tributo di 113.000 marabotini in cambio di una tregua. Versati i primi 25.000 Mohammed ibn Meimûm, Re d’Almeria, riuscì a fuggire. L’assedio riprese ma con l’arrivo dell’inverno i Genovesi sospesero l’attacco. Alfonso VII, Re di Castiglia e Leone, e Raimondo Berengario III, Conte di Barcellona e Principe di Aragona, si accordarono con l’ambasciatore genovese Filippo Lamberto Guezo promettendo 1/3 delle terre che sarebbero state conquistate e garantendo l’invio di un forte esercito per la ripresa delle ostilità: uno contro Almeria e l’altro contro Tortosa. L’anno successivo, pacificate le discordie interne che erano sorte ad inizio anno e puniti severamente tutti coloro che per evitare l’impresa militare si assentavano dalla città, 63 galee e 163 navi, guidate dai Consoli Oberto Torre, Filippo di Piazzalunga, Baldovino, Ansaldo Doria, Ingo ed Ansaldo Pizzo, diressero in giugno verso Porto Mahon. Da lì il Console Baldovino mosse con 15 galee verso Almeria e bloccò il porto. Quando tutta la flotta fu radunata i Genovesi si portarono a Capo Gatta dove attesero per un mese l’arrivo di Re Alfonso. Giunse Raimondo Berengario III con alcuni bastimenti, soldati e 53 cavalieri. Dal 21 agosto Baldovino mosse contro la moschea fingendo di voler attaccare per attirare i Saraceni fuori città mentre il Conte di Barcellona muoveva da terra. 40.000 Saraceni inseguirono i Genovesi. I soldati del Conte e 25 galee bloccarono i Saraceni mentre giungeva il resto della flotta da Capo Gatta. Guglielmo Pelle (poi Console del Comune nel 1149) mostrò in quest’occasione tutta la sua combattività tanto che roteando sopra la testa la sua spada "ultra centum interfecit". Il libeccio arrestò il combattimento; 5.000 mussulmani erano caduti sul campo e le galee ripiegarono a porto Lena. Nonostante tre incursioni saracene per tentare di incendiare le navi, i cristiani terminarono di costruire le macchine da guerra; giunse Re Alfonso con 400 cavalieri e 1000 fanti e i Genovesi si avvicinarono alla città. Poiché riuscirono ad aprire una breccia nel muro di protezione della città i Mussulmani cercarono di negoziare con Re Alfonso il suo abbandono del campo di battaglia in cambio di 100.000 Marabotini. Il 17 ottobre, con l’appoggio riluttante dell’esercito castigliano, 12.000 militari genovesi espugnarono la città nel giro di 3 ore, assaltandola nel più completo silenzio. I Saraceni persero 20.000 uomini e 10.000 furono portate a Genova come schiavi. 30.000 Marabotini furono presi di riscatto dai Saraceni asserragliati nella cittadella e molti altri nel saccheggio: 60.000 Marabotini furono destinati al Comune per compensare le spese (8500 lire) e il resto diviso tra gli uomini. Il terzo della città che divenne genovese fu concessa il 5 novembre 1147 in feudo per 30 anni al genovese Ottone Bonvillano in cambio dell’esenzione dalle imposte e di un canone simbolico per 15 anni e poi la metà delle rendite fiscali. I Genovesi si fermarono a Barcellona per svernare ma i Consoli Oberto Torre e Ansaldo Doria portarono i 60.000 Marabotini alle casse del Comune e con essi estinsero il debito pubblico che era di 17.000 Marabotini e chiesero l’invio di uomini e d’armi. Il 29 giugno 1148 i Genovesi, in base agli accordi presi con il Conte Raimondo, giunsero alla foce dell’Ebro, presso la città catalana di Tortosa. Metà dei Genovesi e parte dei cavalieri del Conte si portarono nella pianura adiacente la città; la rimanente metà nei pressi di Bagnera con Guglielmo IV di Montpelier. Nonostante la manifesta impazienza dei Genovesi, che costò numerose perdite, si provvide ad ultimare le macchine da guerra. Fatta breccia nel muro i Genovesi penetrarono con 2 castelli e giunsero con uno fino alla moschea e con l’altro fino alla fortezza (Sveta). A Sveta i Mussulmani si difesero arditamente. Gli assedianti riempirono, per ordine dei Consoli, l’ampio fossato di protezione e costruirono un castello mobile, pur essendo molti in dubbio sull’utilità di lunghe opere. Quando il castello fu pronto venne portato, con 300 militari, sul lato del fossato riempito ma i Saraceni lanciando massi di 200 libbre lo danneggiarono. I cavalieri del Conte, da lungo tempo senza paga, se ne andarono. Dopo alcune trattative, i Genovesi concessero 40 giorni di tregua in attesa di eventuali soccorsi dei mori spagnoli alla città assediata con l’accordo che, se non fossero arrivati, la città si sarebbe arresa. I Saraceni della cittadella si arresero il 30 dicembre inalberando il vessillo genovese, dopo 6 mesi di assedio. I Genovesi presero 1/3 della città, come pattuito, ed ottennero dal Conte di Barcellona, dono per la chiesa di S. Lorenzo, l’isola di fronte a Tortosa. La città non venne saccheggiata per cui i guadagni furono scarsi. L’anno seguente ritornarono in patria ma già nel 1159 Tortosa (la parte genovese) fu ceduta a Raimondo Berengario, Conte di Barcellona in cambio di 16640 marabotini che non furono mai versati. Nel 1149, a causa dei successi riportati in Spagna, il Re di Valenza e di Denia Abu Abd Allah Mohammed ibn Said Mardanisch (detto anche Lupo o Lopez) stipulò un trattato con l’ambasciatore genovese Guglielmo Lusio concedendo un fondaco in ognuna delle due città, l’esenzione dalle imposte e 10.000 marabotini. Era tale la fama dei Genovesi nel mondo arabo che ormai le loro navi potevano circolare liberamente senza alcun timore di essere assalite se non per errore.
L'elezione di Papa Innocenzo II e la contrapposta elezione dell'antipapa Anacleto II, dividono le nazioni cristiane. Il Papa viene appoggiato da Lotario, dagli stati francesi, da Pisa e da Genova. Proprio il pontefice riesce a riappacificare le due città. L'antipapa gode dell'aiuto di Corrado, di Milano, degli stati del centro nord italiano e dei Normanni siciliani. Il Pontefice trasforma Genova in Archidiocesi (1133) sottraendola a Milano. Alla nuova Archidiocesi fanno capo le Diocesi della Corsica, di Bobbio e di Voltaggio. Il 20 maggio 1133 un'operazione bellica congiunta Lotario-pisano-genovese insedia a Roma Innocenzo II come unico Pontefice.
Nel 1139 l'impero concede l'istituzione di una zecca per battere moneta, la prima è il denaro di rame (Croce + Conradus II Rex ed il Castrum o porta). Seguiranno il grosso d'argento e poi il genovino d'oro (forse la prima moneta aurea italiana).
Fin dall’epoca romana Genova batté la propria moneta (Genuaria) ma poi come regione romana prima e regno d’Italia poi, a Genova circolò la moneta ufficiale fino al XII secolo quando con l’attestarsi ufficiale della sua autonomia abbiamo un opera di coniatura prima con Denari Pavesi, su modello della moneta ufficiale del regno.Nel 1102 Visto che il precedente conio, il Denaro Pavese, era terminato e dato il frequente uso del Denaro Brunetto nei mercati del Mediterraneo, si decise il conio di una tale moneta. La zecca, che si trovava presso la metropolitana di S. Lorenzo, terminò i Bruni nell’ottobre 1115 e coniò una moneta più piccola, i Brunetti.In questo periodo, vista anche la scarsa circolazione monetaria e le sue condizioni di porto commerciale, erano in uso anche: Solidi (bizantini), Ipèrperi (levantini), Massamutini (arabi), Bisanti (arabi), Tareni (arabi), Marabotini o Marabizi (spagnole di Maravedis), Denari Pavesi (moneta del Regno d’Italia), Melgaresi (Linguadoca).Nel 1138 una delegazione genovese si recò a Norimberga per chiedere all’Imperatore Corrado III (eletto nel 1138 Corrado II Rex Romanorum) il diritto di imprimere sulle nuove emissioni il suo nome, al fine di dare maggiore spendibilità alle loro monete sui mercati stranieri. Il diploma d’autorizzazione fu consegnato a Genova dal cancelliere del Re e nel 1139, terminati i Brunetti, partì la coniazione del Denaro, coniato su modello meloglese per facilitarne la penetrazione in Provenza.
Tale struttura di base rimase invariata per quattro secoli. Sul dritto dal 1252 la scritta fu "Civitas Ianua" e poi a fine XIII secolo "Ianua quam deus protegat" spesso abbreviata.Con contrassegni minimi (modifiche d’interpunzione, sulla forma della D e della R, delle figure e della grafia) su queste monete, coniate per più di un secolo, i tre Magistrati delle Monete esercitavano il controllo sulle varie partite (più di 400) garantendo così una corretta esecuzione del lavoro.Nel 1141 il Comune cedette ad un consorzio privato la zecca per quattordici mesi.Nonostante lo stretto controllo che il Comune esercitava sulla circolazione delle monete, tanto che nel 1145 "alteram monetam non permittumus currere", alcune famiglie nobiliari (Doria, Spinola, Centurione) ebbero per diverso tempo il diritto di battere monete e avevano le loro zecche
Nelle colonie, che spesso avevano una zecca propria, dopo il 1287 coniarono gli Aspri (con la scritta "Caffa" e lo stemma dell’Imperatore tartaro con il nome in lettere arabe) e i Sommi (non monete ma verghe d’argento di un determinato peso e titolo).
La Riconquista vede Genova protagonista di numerosi episodi bellici non disinteressati. Genova si avvicina diplomaticamente agli stati iberici tranne al Regno di Aragona.
Nonostante la naturale intesa con gli stati cristiani, il commercio con le nazioni musulmane è fiorente ed indispensabile. Su tutta la costa occidentale del Mediterraneo nascono numerose le colonie genovesi sia sulla riva spagnola e cristiana, sia sulla riva meridionale e musulmana.
Gli interventi bellici genovesi vengono sostenuti principalmente dai genovesi stessi in prima persona. Caffaro con una ventina di galee saccheggia Minorca per poi cingere d'assedio Almeria fino al pagamento di un cospicuo "riscatto". Nel 1147 Almeria è nuovamente attaccata quindi occupata e saccheggiata. Lo stesso contingente, costituito da centinaia tra navi e galee, occupa Tortosa. Il saccheggio viene impedito dal Conte di Barcellona.
Tutta la costa spagnola da Valencia a Gibilterra vede nascere numerose "colonie" genovesi.
Genova diventa il crocevia del commercio del nord Europa con i paesi mediterranei. Dal porto le spezie (termine molto generico) iniziano il lungo viaggio che le porta nelle più importanti fiere del nord europeo. Questo cammino crea un legame tra Genova ed Asti che costituisce la 1a tappa verso l'Europa. Gli astigiani costituiranno una presenza fissa a Genova come gestori di banchi di prestito su pegno (casane).
Nel 1155 (?) Genova si affianca ai pisani ed ai venziani presenti a Costantinopoli con un suo quartiere con approdo.
Questo periodo di espansione e protagonismo politico non è privo di crisi. La crescente ricchezza delle famiglie genovesi non ha un altrettanto fortunato riscontro nelle casse dello stato. Si ricorre alla concessione della riscossione del dazio su varie merci in cambio di cospicue somme di denaro per lo stato. Potrebbe definirsi come una privatizzazione del fisco. Forse questa è una delle prime compere che porteranno alla nascita del Banco di S. Giorgio. La compera costituisce una sorta di titolo di credito frazionabile utilizzabile come bene di scambio e garantito con la cessione di imposte, di privilegi coloniali e beni immobili.


GENOVA ED IL “BARBAROSSA”


L'importanza di Genova non passa inosservata a Federico Barbarossa che mira a realizzare una coalizione assieme a Genova e Pisa con l'intento di affronare i comuni italiani, il Papa e conquistare la Sicilia. La conseguenza della richiesta imperiale divide l'oligarchia genovese.
Le famiglie genovesi hanno cospicui interessi in Sicilia ma si contrappongono con due ipotesi politiche opposte. La prima prevede una crescita degli interessi economici genovesi in una Sicilia imperiale grazie ai privilegi promessi dal Barbarossa. La seconda pensa che la situazione non possa migliorare oltre grazie ai buoni rapporti con i Normanni. La linea politica adottata è la trattativa infinita per non essere costretti a schierarsi apertamente.
Federico I Hoenstaufen, detto "il Barbarossa" divenne Imperatore e quindi re d'Italia nel 1152 alla morte dello zio Corrado II, che allora era il regnante. Dopo avere risolto alcuni problemi in Austria, il Barbarossa scese in Italia, dal Brennero, il 2 ottobre 1154.
Federico I "Re dei Romani", e quindi destinato al trono imperiale, giunse a Roncaglia (Piacenza) nell’ottobre 1154 e chiamò i rappresentanti d’ogni città e tutti i feudatari a rendergli omaggio di sudditanza. Con la dieta dei vassalli del regno rivendicò tutti i diritti imperiali ed impose a tutti i feudatari e comuni il giuramento di fedeltà all’impero e i tributi imperiali.
Appena giunto convocò un parlamento a Roncaglia per avvisare tutti i Comuni italiani che non accettava insubordinazioni e per riprendere possesso del potere Imperiale, trascurato dallo zio Corrado. Anche i genovesi mandarono dei loro delegati al Consiglio e rispetto ad altre delegazioni furono accolti con simpatia dall'Imperatore, che, addirittura, fu prodigo di buone parole per la partecipazione di Genova alle Crociate, dove, come sappiamo, avevano portato viveri e volontari. Sembra che, in un colloquio segreto, il Barbarossa promise ai genovesi il monopolio del commercio siciliano, in cambio dell'aiuto della flotta per conquistare l'isola, poiché Guglielmo, il Re normanno, rifiutava di sottomettersi! Tornati a Genova, gli ambasciatori riferirono ciò ai Consoli, i quali accettarono con entusiasmo la proposta del Barbarossa, considerando anche i guai che sarebbero sorti, se questa proposta fosse stata fatta ai pisani! Sarebbe stata la fine di Genova!
Subito dopo distrusse Asti e Chieti (che non avevano giurato fedeltà); assediò per 9 settimane Tortona e la distrusse a metà di aprile 1155 piegando le riottose città lombarde al suo volere. Il 24 aprile fu incoronato a Pavia Re d’Italia.
Considerando la condotta del Barbarossa nei confronti delle altre città, nonostante le assicurazioni ricevute l’anno precedente, i Consoli del 1155 riscattarono tutte le rendite del Comune che erano impegnate, ricostituirono la flotta e cintarono nel giro di 55 giorni la città da Porta Nuova di S. Fede a Porta di S. Andrea utilizzando anche parti delle navi per rendere l’opera più sicura.
Ma cosa c'era in Sicilia di così prezioso? C'erano le saline e per i pisani il traffico del sale dava un introito di circa il venti per cento alle casse della città toscana. Per questo motivo Amalfi era stata distrutta dai pisani! L'isola aveva quattro miniere d'oro, rappresentate dalle saline di Augusta, Siracusa Marsala e Trapani. A quel tempo il sale valeva quanto l'oro.
Per chiudere il discorso sulle saline, nel 1194 i genovesi cacciarono i pisani dalla Sicilia, ottenendo il monopolio da Enrico VI, Imperatore dei romani, finchè nel 1251 arrivarono i francesi.
Tornando alla dieta di Roncaglia, tutti i Comuni furono aboliti e sostituiti da un Podestà di nomina Imperiale, escludendo Genova e Pisa, per le precedenti autonomie concesse dai sovrani tedeschi. Per dare un esempio alle città più grandi,il Barbarossa assediò e rase al suolo per rappresaglia Tortona!
Nel frattempo, a Genova accade un fatto strano. Il 5 ottobre 1155, arrivò una nave da Bisanzio con a bordo Demetrio Metropolites, ambasciatore dell'Imperatore di Costantinopoli Emanuele Comneno, per riprendere le relazioni diplomatiche dopo 57 anni, interrotte dopo la rottura del patto di Costantinopoli, avvenuta nel giugno 1098. Questa visita ebbe una ripercussione gravissima sulle relazioni future dei genovesi, fino allora sempre uniti nelle decisioni sulla politica estera. A causa delle proposte che farà il Metropolita greco - ortodosso, la Compagna e la città si divideranno in due fazioni contrapposte, con odio tremendo e tafferugli persino in Parlamento!
Perchè accade questo? Il nuovo Imperatore Emanuele Comneno, per ripristinare le relazioni amichevoli, faceva grosse concessioni per i genovesi.
Genova ottenne, dall’Imperatore d’Oriente Emanuele Porfirogenito Comneno un approdo ed un quartiere a Costantinopoli: l’embolo di S. Croce, un dono annuo per il Comune e l’Arcivescovo nonché la riduzione del dazio dal 10% al 4%. In cambio s’impegnarono a non partecipare ad imprese ostili all’impero d’Oriente. Era una proposta più che allettante, entusiasmante! Si aprivano per la città enormi sbocchi commerciali con l'Impero bizantino, senza neanche bisogno di fare guerre!
Nel 1156, nonostante gli accordi che avevano con il Barbarossa, Guglielmo Vento e Ansaldo Doria stipularono un accordo con Guglielmo I, Re di Sicilia, ottenendo l’esenzione dai dazi e l’esclusione dei mercanti francesi e provenzali dall’isola, scalo obbligatorio verso la Terrasanta. Al loro ritorno a Genova, come da accordi, l’impegno fu giurato da 300 cittadini.Nel 1157 si proseguì la costruzione delle mura iniziate nel 1155 e lo stesso anno vennero inviati come ambasciatori: Guido da Lodi alla Curia Romana, Gionata Crispino in Sicilia e poi in Oriente, Amico Di Murta a Costantinopoli.
Però c'era un guaio grosso! La città faceva parte dell'Impero Romano. I Consoli avevano giurato fedeltà all'Impero. Il Barbarossa non avrebbe di certo gradito il tradimento!
Federico Barbarossa nel giugno 1158 espugnò Milano appoggiato da Como, Cremona, Lodi e Pavia.In ottobre a Roncaglia (II dieta) rivendicò a se, con la "Constitutio de Regalibus", i diritti imperiali secondo lo ius romanorum: amministrare giustizia, coniare monete, riscuotere tasse, investire gli amministratori politici.Solo alcune città, se avevano ricevuto in passato dall’Impero l’apposita immunità, potevano riservare a se tali diritti. Genova li rivendicò legalmente ma al contempo, pronta a difenderli militarmente, terminò in 8 giorni le sue mura, proseguì nel fortificare le cittadine dell’entroterra e costruì in 3 giorni le torri sulle mura rafforzandoli con gli alberi delle navi.Federico Barbarossa sciolse le leghe comunali e inviò podestà imperiali nelle città. I Genovesi chiamarono alle armi la popolazione ed allertarono i castelli sugli Appennini tanto che solo per le vettovaglie spesero 100 marchi d’argento al giorno.L’Imperatore preso atto delle richieste di Genova rinviò la decisione a quando si sarebbe trovato al castello di Bosco (presso Tortona). Crema e Milano cacciarono i podestà imperiali ma, nel 1160 l’una e nel 1162 l’altra, furono rase al suolo.l Barbarossa, che era giunto al castello di Bosco con tutto il suo esercito, incontrò il Console Ido Gontardo. Accordò la protezione imperiale fino al 24 giugno.
Successivamente Federico Barbarossa pone gravose richieste quali: sottomissione, ostaggi e tributi. Genova rifiuta le imposizioni e inizia la fortificazione della città con le note mura del Barbarossa. Scampato l'assedio chiude lo scontro diplomatico pagando una notevole somma di denaro guadagnando però il tempo necessario a terminare le mura.
Tornato a Genova accompagnato dal Cancelliere imperiale Rainaldo, Conte di Biandrate, 40 cittadini fecero giuramento di fedeltà, pur senza l’obbligo dei tributi, e consegnarono un dono di 1.200 marchi d’argento e la promessa di impegnare la flotta nella futura conquista del regno di Sicilia.
L’Imperatore inviò messi per tutto il Comitato. Alcuni giunsero fino a Ventimiglia dove fomentarono la rivolta: il castello genovese di guardia venne raso al suolo. I Genovesi inviarono legati all’Imperatore affinché li reintegrasse nei loro domini.Nel 1159 in 53 giorni furono terminate le mura cittadine e lo stesso anno, il 7 febbraio, Crema fu distrutta.Eletto Papa Alessandro III, il Barbarossa appoggiò l’antipapa Vittore IV. Genova, come altre città, non lo riconobbe e, nel 1161, ospitò Alessandro III, che aveva scomunicato l’Imperatore. Nel marzo 1162 lo scortò in Francia, con 25 galee, al fianco delle navi normanne.Nel 1160 i Consoli saldarono le 900 lire di debiti del precedente anno, crearono torri sulle mura, disimpegnarono il castello di Voltaggio e cinsero di mura Portovenere. Inviarono legati a Costantinopoli (il Console Enrico Guercio) e presso il Re spagnolo Abu Abd Allah Mohammed ibn Said Mardanisch (Oberto Spinola). Tra il 1160 ed il 1161 si tentò di eliminare le tensioni civili e si fece giurare la pace tra le fazioni cittadine rivali e, a chi non la rispettava, furono distrutte le abitazioni e confiscato il denaro. Nel 1161 vennero restaurati i castelli di Voltaggio, Flacone, Parodi, Rivarolo e Portovenere.A marzo del 1162 Papa Alessandro III lasciò Genova; lo stesso anno Milano, dopo un assedio durato tre anni, cadde. Il 6 aprile Federico Barbarossa accordò a Pisa enormi compensi futuri: completa esenzione dalle imposte nel regno, la città di Trapani, di Mazzara, metà delle città di Napoli, Salerno, Palermo e Messina nonché l’aiuto ad espugnare Portovenere in cambio della promessa di aiuto contro il regno Normanno di Sicilia.I Consoli genovesi Guglielmo Boirone e Grimaldo e sette cittadini illustri giunsero a Pavia per confermare fedeltà all’impero e la disponibilità alla prossima impresa di Sicilia, in modo da evitare che possibili benefici finissero solo in mano pisana. Barbarossa chiese entro 8 giorni una nuova missione diplomatica per trattare i particolari della missione e del suo compenso.I Consoli Ingo della Volta e Nuvolone, accompagnati da 5 illustri cittadini trattarono per più giorni con Rainaldo, Arcivescovo di Colonia e Arcicancelliere del regno d’Italia, ed il 9 giugno venne firmato a Pavia l’accordo che concesse benefici in Sicilia e confermò in perpetuo, in cambio dell’aiuto nell’impresa siciliana, tutte le regalie rivendicate dal Comune.
Nel 1162 l'imperatore riconosce: La facoltà eleggere i Consoli e di amministrare la giustizia senza la riserva della conferma imperiale; La sovranità da Portovenere a Monaco; I diritti sui territori d’oltremare; Il diritto d’usare propri pesi e misure; Il feudo di Siracusa, 250 giornate arative in Val di Noto, una colonia (chiesa, bagno e fondaco) in ogni città del regno di Sicilia nonché l’esenzione fiscale ed il monopolio commerciale.
In pratica l’impero riconobbe alla Repubblica piena autonomia politica ed economica ed il tutto solamente per via diplomatica.
Molti tra i componenti della "Compagna", pensavano che fosse un buon affare mettersi in società con Emanuele Comneno, ma sapevano che era molto rischioso mettersi contro il Barbarossa. Il metropolita, però, aveva pensato a tutto, anticipando una forte somma di denaro ai genovesi perchè costruissero delle mura per difendersi dall'inevitabile rappresaglia dell'Imperatore.
All'inizio del 1156, cominciarono i lavori di costruzione delle mura, partendo dalla Porta Sottana, l'attuale Porta di Vacca.
I genovesi spronati dall'Arcivescovo Siro, terminarono le mura in poco meno di due mesi. Ma queste trame giunsero all'orecchio dell'Imperatore che convocò i consoli genovesi nel castello di Bosco Marengo, per ricordargli l'antica alleanza e, soprattutto, l'indipendenza che Genova aveva mantenuto in tutti quegli anni grazie alle donazioni dei suoi predecessori. Ma Federico, oltre ad essere un grande regnante, era anche un abile affarista e sapeva che i genovesi gli sarebbero stati utili anche a scopi commerciali, soprattutto per quanto riguardava il mercato più importante di allora, quello del sale. La proposta che fece fu un colpo per i consoli genovesi, che subito annusarono il grosso "business". Infatti, ad un tratto del convivio, l'Imperatore chiese: "Ve la sentireste di portare il sale a Lubecca, senza dover passare dai varchi appenninici?".
L'affare andò immediatamente in porto. I genovesi con le loro navi mercantili cominciarono a portare il sale di Aigues-Mortes a Lubecca, con viaggi che duravano ben quattro mesi.
I pisani, saputo del clamoroso accordo, cominciarono a tramare contro Genova, proponendo all'Imperatore di distruggere la città ligure, colpevole a loro dire, di essere una città propensa al tradimento, che aveva fatto costruire mura con i soldi dei bizantini. Inoltre, Pisa, vista l'indecisone dei consoli genovesi era riuscita a conquistare la Sicilia per Federico, ottenendo la stessa indipendenza e gli stessi vantaggi di Genova.
Ma Federico, invece di distruggere la città, chiamò i consoli genovesi avvisandoli del comportamento dei pisani. La tiepida tregua tra le due città di mare, da quel momento, terminò.
Il Barbarossa tornò ancora in Italia, nel 1166 per appoggiare il nuovo antipapa, Pasquale III, succeduto a Vittore IV. Alessandro III fuggì nuovamente ma nel 1167, per un epidemia di peste, il Barbarossa dovette rientrare in Germania senza portare a termine la conquista del regno Normanno.
E nuovamente nel 1174 per fronteggiare la “lega lombarda”.
La Lega Lombarda nacque nel 1167 a Pontida; l’anno seguente chiese l’adesione di Genova, che non poté essere accordata per le difficoltà in cui la città versava. Ma su richiesta dei Consoli di Alessandria, per contribuire all’edificazione di tale nuova piazzaforte, Genova versò 1.000 soldi subito ed altrettanti l’anno seguente.Nel 1174 Barbarossa entrò con un forte esercito in Italia ed assediò Alessandria per 6 mesi. Genova era impegnata con Pisa e rimase neutrale.
L’anno seguente gli eserciti delle città Lombarde e della Marca (tra cui anche il Marchese Malaspina per anni ribelle al Comune) si raccolsero a Montebello.
Il 16 aprile fecero una tregua con l’impero.Il 29 maggio 1176 l’Imperatore venne sconfitto nella piana di Legnano e nel maggio 1177 firmò la pace a Venezia.
A gennaio dell’anno seguente passò per Genova con la moglie Beatrice ed il figlio Enrico trattenendosi soltanto pochi giorni. portando con sé un dono per la città di Genova, che consisteva in uno scrigno d'argento di enorme valore: la celebre "Arca del Barbarossa". Il marito, Federico, giunse solo il giorno dopo ed entrambi si recarono in San Lorenzo per rendere omaggio alle ceneri di San Giovanni Battista. La città festeggiò l'evento, ma il culmine delle feste doveva ancora arrivare.
Il 5 Febbraio, l'intera Genova era assiepata in vicinanza di Porta Soprana stava arrivando il futuro Imperatore, un giovinetto biondo di soli tredici anni: Enrico VI.
Questa visita del Barbarossa doveva avere un particolare significato per i genovesi, soprattutto per il fatto che veniva accompagnato dal figlio, come a dire: "Non preoccupatevi, alla mia morte i vostri privilegi continueranno e sarete sempre visti con occhio di riguardo anche dai futuri Imperatori."
Nel 1183, con il trattato di Costanza, riconobbe i privilegi tradizionali dei Comuni, pur mantenendo il diritto di confermare ed investire i magistrati eletti dai Comuni.Il 27 febbraio 1187 il figlio, Enrico VI di Svevia, fu incoronato Re d’Italia e, al fine di realizzare l’unificazione dell’Impero, sposò Costanza, unica erede del regno Normanno di Sicilia.
Alla morte di Federico, avvenuta nell'Agosto del 1190, gli successe sul trono il giovane Enrico, che si dimostrò, almeno per i genovesi, un ottimo Imperatore.
Prima di parlare del nuovo sovrano, facciamo una piccola parentesi curiosa sulla morte di Federico I di Svevia. Quando era giovanissimo, una maga gli aveva predetto che sarebbe morto per annegamento e, allora, il Barbarossa si era sempre rifiutato di salire su qualsiasi imbarcazione. Anche in occasione della III Crociata, aveva compiuto il viaggio via terra seguito dal suo esercito. Sfortuna volle che, guadando il fiume Salef in Anatolia, cadesse dal cavallo, morendo annegato anche a causa della pesante armatura che indossava.
Appena arrivato al potere il venticinquenne Enrico VI, riprese il rapporto privilegiato con i genovesi, preparando l'invasione del Regno normanno di Sicilia con l'aiuto della flotta con il vessillo di San Giorgio. Nel 1194, proprio mentre la moglie Costanza dava alla luce il primogenito Federico II, Enrico VI giungeva a Genova accompagnato da tutti i dignitari della sua corte.
Il popolo genovese accorse ancora una volta festoso a Porta Soprana, felice soprattutto di vedere la forza imponente dell'Impero al suo fianco contro gli odiati pisani, che si erano schierati a difesa della Sicilia.
Il 1° Agosto la flotta partì costeggiando tutto il versante tirrenico, facendo attenzione ai possibili attacchi delle galee pisane. Questo non avvenne e la flotta imperiale, tre settimane dopo la partenza, raggiunge il porto di Napoli, dove le truppe conquistarono il Principato di Capua. Nel mese di Settembre le navi genovesi arrivarono nelle acque antistanti Messina dove si trovava la flotta pisana pronta ad accoglierle, non proprio in modo amichevole. La battaglia fu cruenta ed indecisa fino all'ultimo istante, ma alla fine la flotta genovese, comandata dall'ammiraglio Spinola ebbe la meglio.
Poi, nel corso dei mesi seguenti i genovesi continuarono la conquista dell'isola, cominciando da Catania, Siracusa, Marsala, Trapani, per giungere fino a Palermo, dove il giorno di Natale del 1194, Enrico VI fu incoronato Re di Sicilia nel Duomo della città.
Ma non per tutti gli storici Enrico VI fu un buon Imperatore per i genovesi, anzi fu un approfittatore beneficiando della forza navale della città di Genova per poi non concedergli nulla. Ecco cosa si legge negli annali di Ottobono Scriba: «Fingendo di donare pressochè tutto quel regno ai Genovesi, a tutti facea lusinghe, e dalla città, dalle castella e dai casali porgeva agli uomini di Genova larghe le mani e piene di vento; e dei predetti e di altri innuneri favori fece far vani privilegi e inefficaci, e del suo sigillo li fè bollare».
Per altri, e noi seguiamo questa traccia, Genova ebbe solo dei benefici dalla conquista della Sicilia da parte di Enrico VI, perchè fu un buon viatico per il predominio del Tirreno e il completo abbattimento di Pisa, intesa come Repubblica Marinara, che doveva avvenire qualche anno dopo.
Quindi, anche se involontariamente, Enrico VI servì anche allo sviluppo urbanistico di Genova che cominciava ad allargarsi, per motivi logistici, sia a levante che a ponente.
Enrico morì prematuramente il 30 Settembre 1197 e anche la moglie Costanza, distrutta dal dolore, si ammalò gravemente, tanto da morire pochi mesi dopo il marito. La donna però si era premunita, affidando le cure del loro piccolo figliolo di quattro anni al Papa, Innocenzo III.
Questo bimbetto, sarà uno dei personaggi più celebri del Medio Evo: Federico II di Svevia.
Sembra che il futuro Imperatore sia stato cresciuto ed educato a Palermo in casa del Reggente della Corona, l'ammiraglio genovese Nicola Spinola e dalla moglie Beatrice. Insieme al greco, al latino, al tedesco e al francese, il giovanissimo Federico imparò anche il dialetto genovese.
Dopo il matrimonio, imposto dal Papa a soli quattordici anni, Federico arrivò per la prima volta a Genova nel 1208, accolto, come già era accaduto a suo padre, da grandi festeggiamenti.
Ma, a differenza del suo predecessore, il giovane Imperatore non si mostrò per i genovesi un buon sovrano. Infatti quando assunse il papato Sinibaldo Fiesco, con il nome di Innocenzo IV, che con la completa epurazione dei ghibellini dalle alte cariche comunali di Genova, la città divenne guelfa e quindi avversa alla politica imperiale. Federico, giunto ormai alla terza scomunica, si alleò allora con Pisa e Savona organizzando la conquista del capoluogo ligure. Ma purtroppo per i valorosi arcieri genovesi, accorsi in difesa di Milano, ci sarà una punizione tremenda. Imprigionati dai soldati imperiali, furono portati sulla piazza principale di Milano dove un aguzzino tagliò loro la mano destra e accecò l'occhio destro, perchè erano considerati traditori dell'Impero.
Federico morì nel 1250 e per Genova fu un sollievo. Ma la città non era più quella di prima, la lotta tra guelfi e ghibellini era divenuta acerrima e questo era un grave danno per la prosperità dei genovesi.
Sempre nel 1162 scoppia un nuovo conflitto tra Genova e Pisa a causa dell'aggressione dei genovesi di Costantinopoli.
Nel giugno 1162 a Costantinopoli circa un migliaio di Pisani aggredirono i 300 mercanti genovesi e ne saccheggiarono i fondachi. L’assalto, a causa dell’accordo appena stipulato con l’Impero per l’impresa di Sicilia, fu promossa dalla diplomazia normanna che, inimicando le due città, rese impossibile la conquista vagheggiata dal Barbarossa.Il 19 giugno la Repubblica dichiarò guerra e armò 12 galee che abbatterono la torre del Magnale (Portopisano), catturarono 3 navi per poi ritirarsi a Portovenere: se i Pisani fossero usciti dall’Arno, con le navi ancorate a Genova, li avrebbero presi da due lati.Nel frattempo altre 4 galee, su cui era imbarcato anche il Console Ottone Rufo (che perse il figlio a Costantinopoli), predarono le navi pisane tra la Corsica e la Sardegna facendo prigioniero il Console pisano Bonacorso.
Le due città si stavano preparando allo scontro quando l’Arcicancelliere imperiale Rainaldo, di passaggio a Pisa, invitò Genova (per mezzo del cappellano Siccardo) a restituire i prigionieri, e le due città a sospendere le ostilità.Proseguirono comunque le schermaglie: i Pisani fecero uscire 36 galee come scorta alle loro navi ma al largo della Sardegna queste diressero a Pianosa dove catturarono 2 navi genovesi e la flotta genovese, di stanza a Portovenere, riuscì a raggiungerle prima che rientrassero in Arno preferendo, giunta la sera, radere al suolo l’isola di Pianosa come rappresaglia e dedicarsi al saccheggio dei mercantili pisani al largo delle coste corse e sarde prima di rientrare a Portovenere.Rainaldo, di passaggio a Genova, impose una nuova tregua ed invitò le due città a mandare 8 ambasciatori ciascuna alla corte di Torino dove l’Imperatore costrinse i legati prima, 200 Pisani e 200 Genovesi poi, a giurare la pace fino al suo ritorno dalla Germania.
L’anno successivo il Comune acquistò e spianò l’intero tratto tra la chiesa del S. Sepolcro ed il fossato di Bucceboi e vi aprì numerosi scali navali terminando il consolato (febbraio 1163) in attivo di 7.800 lire e mezza. A settembre, dopo aver ottenuto la suffraganea di Albenga, l’Arcivescovo Siro II morì e gli succedette l’Arcidiacono di S. Lorenzo Ugo Della Volta.I Consoli Baldizone Usodimare e Corso di Sigismundo si recarono da Federico Barbarossa a Fano nel 1164 per sapere se armare la flotta per l’impresa di Sicilia giacché stavano per scadere i termini del loro accordo. Scesero assieme verso Parma (dov’era la corte) ma la sua risposta venne rinviata a quando, prima di pasqua, si sarebbe trovato a Sarzana (presso Portovenere).
Tra il 1160 ed il 1161 si tentò di eliminare le tensioni civili facendo giurare la pace tra le fazioni cittadine rivali e, a chi non la rispettava, furono distrutte le abitazioni e confiscato il denaro. Nel 1162, anno privo di tensioni, giurarono la pace le famiglie Piccamigli ed Usodimare.
Già dall’anno successivo, per arginare le risorte e dilaganti lotte intestine, i Consoli fecero gettare in mare numerosi "ribaldi, con piedi e mani legati e gran peso di pietre al collo".
Gli Avvocato e i Castello (i Della Volta erano per lo più commercianti) erano di frequente eletti a cariche politiche e spesso tali cariche appagarono ambizioni economiche. Da metà secolo il Comune chiedeva senza più remore prestiti redimibili a privati appaltando la zecca, le imposte, le colonie d’oltremare e i castelli dell’entroterra. Spesso gli appalti finirono a parenti se non agli stessi Consoli in carica.
Quando nell’estate 1164 il Giudice di Oristano e i messi imperiali stavano per sbarcare a Genova dalla Sardegna, scoppiò un tumulto tale tra le fazioni di Fulco di Castello (spalleggiata dai Della Volta) e di Rolando Avvocato che vi furono numerosi morti e feriti, tra cui lo stesso figlio di Rolando. A settembre il Console Marchione Della Volta venne assassinato nella sua casa di campagna.
Al termine del consolato tanto era accesa la lotta che la chiamata a parlamento per l’elezione fu ritenuta un rischio e il successivo consolato (1165) venne eletto dall’Arcivescovo. Nelle campagne imperversarono, cogliendo l’occasione, gli uomini del Marchese di Malaspina e gli uomini di Meledo. Cicagna chiese ed ottenne dal Comune la costruzione di un castello (Monteleone) per proteggersi dai Malaspina.
Nel 1165 i Consoli fecero giurare una tregua in S. Lorenzo tra tutte le fazioni e per sicurezza sequestrarono case e torri che, in centro città, appartenevano a Ingo Della Volta e Amico di Castello.
Nel 1166 era normale girare armati in città; molti nobili uomini erano caduti e la guerra civile scoppiò apertamente per quanto entrambe le fazioni avessero giurato una tregua.
Ne approfittò il Marchese Guglielmo di Monferrato che, nonostante il suo giuramento, assediò il castello di Parodi e lo espugnò prima che arrivasse da Genova la colonna di soccorso. Per aver consegnato il castello il 15 novembre 1166 furono condannati al bando ed alla confisca dei beni il Visconte Roderico, Guglielmo Gimbi di Carmandino e Guglielmo Monticelli.
I Conti di Lavagna giurarono la Compagna il 23 novembre. Il 13 febbraio 1167 l’Arcicancelliere Rinaldo bandì i Marchesi di Parodi e a quelli di Gavi per non aver restituito il castello di Parodi ed intimò ai Pavesi, ai Marchesi del Vasto, di Ponzone, del Bosco e Malaspina di aiutare i Genovesi.
Il 3 ottobre 1168 il Marchese Opizzo Malaspina e il figlio Moroello giurarono fedeltà a Genova, si impegnarono a fornire in caso di guerra 15 cavalieri e 100 arcieri ed ottennero 300 lire e 25 lire annuali per chiudere le controversie del castello di Monteleone.
Il 10 maggio 1171 Guglielmo e Ranieri di Parodi restituirono il castello, giurarono fedeltà assieme a 20 loro vassalli, si impegnarono a fornire 10 cavalieri in caso di guerra e furono quindi investiti feudatari del castello.
Nel 1168 le varie fazioni giurarono una tregua ma, pochi giorni dopo, Cendato e Ingo Bertolio, si scontrarono. Vi furono con morti e feriti ed entrambi, uno subito e l’altro entro l’anno, morirono a causa di quel combattimento. A fine consolato vi fu un altro scontro, con numerosi partecipanti, in cui fu mortalmente ferito Jacobo, figlio di Ingo Della Volta.
La guerra Civile durava ormai ininterrottamente da 6 anni per cui i nuovi Consoli (1169) arruolarono 200 mercenari e fecero giurare tutta la città, nobili e plebei, che sarebbero rimasti in pace ed avrebbero rimesso ai Consoli le loro liti.
I Consoli decretarono di risolvere le liti con 6 duelli tra i maggiori cittadini che avevano portato a questo stato di fatto. I duelli si sarebbero svolti nel cortile dell’Arcivescovado dove i Consoli amministravano la giustizia. Nel mezzo di una notte chiamarono a parlamento la città e lì, a sorpresa, l’Arcivescovo e il clero in parata solenne indussero i capi delle rivolte (Rolando Avvocato e il cognato di Ingo Della Volta, Fulco di Castello) a giurare la pace.
Oramai a causa dell’insofferenza degli abitanti e dei signori locali era divenuto un rischio salire in campagna per la vendemmia: i Consoli mossero due colonne verso Lavagna e Polcevera e ripristinarono l’ordine imprigionando, multando o tagliando "a chi i piedi a chi le mani".
Con il Consolato del 1170 la Guerra Civile sembrò definitivamente sopita anche se i "cuori degli avversari apparivano tenebrosi". Furono eletti 4 uomini che definirono le liti tra dei Castello e Avvocati.
Lo stesso febbraio (6 giorni dopo l’elezione dei Consoli) i Conti di Lavagna (Alberto Penello e i figli di Girardo Sforza) espugnarono di notte il castello di Frascario dato in feudo ai Da Passano. Fu chiesta la restituzione del castello.
I Consoli Ottone Fornaro e Bonvassallo Usodimare, mentre a Genova si armavano fanti e cavalieri, portarono ai Conti un ultimatum che fu accettato. I Conti Gerardo Sforza, il figlio Musso ed Enrico Bianco vennero a Genova nell’aprile 1171 dove giurarono di rispettare le convenzioni del 1166.
I Da Passano per vendicarsi della perdita del castello di Frascario, ora in mano ai Consoli, espugnarono ai Conti di Lavagna il castello di Zerli e appena questi li assediarono si rimisero al Comune che, dopo lunga causa, lo restituì ai Signori di Lavagna.
I Signori Da Passano restituirono i feudi concessigli dalla Repubblica (castelli di Frascario e Frascarino) il 4 agosto 1171: tali castelli non saranno più infeudati per mantenere una migliore difesa verso Sestri Levante. I Da Passano giurarono fedeltà a Genova che promise di non turbare i loro possedimenti e li investì nomine feudi in pubblico parlamento.
I Marchesi Malaspina, i Signori Da Passano e i Conti di Lavagna si ribellarono in settembre, approfittando dell’impegno della Repubblica in Toscana. Vicini e potenti signori feudali occupavano tutto il territorio da La Spezia a Sestri Levante ed il territorio interno lungo le valli e le vie di comunicazione.
Il 25 settembre 1172 Gerardo di Fosdinovo e i Consoli di Pontremoli si impegnarono, a spese del Comune, di conquistare il castello di Trebbiano.
A dicembre Opizzo Malaspina ed il figlio Moroello mossero contro Genova: Opizzo assediò il castello di Chiavari (edificato da Genova nel 1167) e Moroello prese l’isola di Sestri Levante e poi con 250 cavalieri e 3.000 fanti assaltò il castello di Rivarolo.
I Consoli si portarono a Rapallo dove chiamarono a raccolta cavalieri e Marchesi a loro fedeli; prima che l’esercito si fosse raccolto Chiavari pagò 300 libbre al Marchese per farlo allontanare.
Opizzo che si portò a Rivarolo, nella piana di Sestri Levante. L’esercito genovese espugnò Cogorno ed inseguì il Marchese, che si ritirò verso Pietra Tinta, e sopra Moneglia perse il contatto a causa di un’improvvisa gelata. Non fidandosi dei Marchesi suoi alleati (Enrico Guercio e i Marchesi di Monferrato, di Gavi, del Bosco e di Ponzone) fu firmata a Sestri Levante una tregua fino a Pasqua e venne pagata, ad ognuno dei cavalieri arruolati, una libbra.
Nel 1173 Opizzo sobillò gli abitanti da Rapallo a Airona (Valdinievole) e il Consiglio dei Silenziari decise di creare una milizia permanente di 100 cavalieri. A giugno la Milizia, guidata dal Console Ingo di Flessa, edificò il castello di Villafranca a Moneglia (che era dal 1153 feudo dei Da Passano).
Il 14 marzo del 1174 furono comprati dai Malaspina i castelli di Pietra Tinta (Pietratetta), Lerici e Figarolo per 3.700 lire e quindi vennero rasi al suolo. I Marchesi si impegnarono ad armare 20 cavalieri e 100 arcieri in caso di conflitti con i Conti di Lavagna, i Signori Da Passano o di Cogorno.
Nel 1178 vi furono contrasti e combattimenti tra Mazanelli e Navarri mentre l’anno successivo tra Amico, figlio di Amico Grillo, e i fratelli Pietro e Simone Vento ed in quest’occasione vi fu un aspro combattimento presso Sturla.
Nel 1180 pacificati Vento e Grillo si contrapposero Rubaldo Porcello e Girardo Scoto anche se non si venne alle vie di fatto. I Consoli composero quest’ultima discordia ma, poiché Girardo rifiutò la sentenza e si allontanò da Genova, le sue proprietà furono confiscate e demolite.
La situazione igienica divenne critica: nel 1179 morì di peste il Console, Baldizone Usodimare, ma nel 1181 la malattia dilagò in città decimando gli abitanti e a Natale un incendio devastò completamente il quartiere di Palazzolo.
Nel 1183 Fulco di Castello e i Vento contrapposti ai Bulbunoso e alla Curia combatterono aspramente nel Bisagno.
In campagna risorgono gli atti di brigantaggio: nel 1182 gli abitanti di Laigueglia rapirono Maria degli Alberici che si stava dirigeva a Nizza. La Repubblica armò l’esercito per muovere contro di loro ma gli abitanti giurarono fedeltà mentre si stava ancora armando l’esercito e consegnarono a Genova le terre ed il castello.
Vernazza invece (feudo dei Fieschi, sostituitisi ai Da Passano) assalì alcuni mercanti pisani lungo la via publica ma le due città erano in pace per cui Genova espugnò il castello di Vernazza.
Lo stesso anno il Console Guglielmo Modiodiferro con le sue truppe ed una colonna di Alessandrini espugnò il castello di Silvano.
Nel 1184 Porto Maurizio insorse e si armò l’esercito ma i notabili di tale città vennero per implorare il perdono.
Finalmente tra il 1185 ed il 1186 furono composte le discordie civili e con una colletta si pagarono i debiti del Comune; ma già dal 16 febbraio 1187, quando Lanfranco, figlio di Jacopo di Turca, uccise alcuni ladroni, e con essi il Console Anglerio de Mari, risorsero le guerre civili. Si radunò il popolo che cacciò l’uccisore dalla città e, a mano armata, andò a demolire la sua torre e le sue proprietà. Il 24 luglio Rubaldo Porcello e Opizzone Lecavelo vennero uccisi a capitolo e vi fu un gran tumulto.
Nel 1188 il Console dei Placiti Ingo, figlio di Cassizio Della Volta, mentre passava presso la casa dei Malfante fu colpito a morte con una pietra.
Successe all’Arcivescovo Ugo l’Arcidiacono Bonifacio. Arcivescovi: Siro II: 1133, Ugo Della Volta:1163, Bonifacio:1188
Quello stesso anno Pietro, Cardinale di S. Cecilia e legato della Sede Apostolica riuscì a comporre la pace tra le fazioni di Lanfranco di Turca e di Bulbunoso.
Nel 1189, con l’arrivo dei crociati da trasportare si acuirono le tensioni tra i Vento e i Della Volta. Il 2 maggio si combatté al mercato di S. Giorgio mentre il giorno di Pentecoste a S. Lorenzo e a S. Maria delle Vigne.
Nel 1165 inizia la questione sarda. Pietro, Giudice di Cagliari, ed il fratello Barisone, Giudice di Torres, destituirono Barisone, Giudice d’Oristano, e ne usurparono la giudicatura.Barisone d’Oristano chiese tramite Ugo, Vescovo di S. Giusta la corona regia di Sardegna e l’Imperatore acconsentì in cambio di 4.000 marchi d’argento
.La flotta genovese con i nunzi imperiali (il Conte Gavaro di Arnstein, Opizzo Malaspina, Olevano e Burgonzo di S. Nazario), imbarcò Barisone ad Oristano e giunse a Genova il 29 giugno 1164. A Pavia, il primo lunedì d’agosto, Barisone ricevette la corona.Il pagamento dei 4.000 marchi d’argento promessi all’Imperatore (equivalenti a 29.000 libbre) fu anticipato dalla Repubblica come anche le 2.000 libbre necessarie ad armare 7 galee, 3 navi maggiori, cavalieri ed arcieri in quanto l’isola, sobillata dai Pisani che vedevano in pericolo i loro interessi commerciali, era in rivolta. Il 16 settembre il Giudice si impegnò per iscritto a restituire al Comune ed ai creditori privati il debito contratto non appena fosse giunto in Sardegna.
Barisone cercò un accordo con i Pisani al fine di sottrarsi agli enormi impegni finanziari che si era assunto. Giunto ad Oristano con Barisone a bordo, il Console Picamilio non lo fece scendere a terra fino a che non avesse estinto il debito e, avvedutosi che navi pisane stavano giungendo a Portotorres in suo soccorso, tornò a Genova senza sbarcarlo e lo consegnò come pegno in mano ai creditori. Barisone rimase in prigionia 6 anni finché i suoi concittadini promisero che avrebbero pagato i suoi debiti.
Nel 1165, mentre si allestivano 8 galee per sostenere la spedizione in Sardegna, le navi che portavano Barisone ritornarono dalla Sardegna e tra le altre cose riferirono che una nave genovese proveniente da Ceuta (presso le colonne d’Ercole) era naufragata all’Asinara e veniva saccheggiata dai Pisani. La Repubblica inviò Lanfranco Alberico e Filippo di Giusta all’Imperatore per ottenere la restituzione delle merci.
Genova rappresenta l'intermediario tra Barisone e l'Impero. Non rispettando gli accordi presi, il Giudice Barisone viene trattenuto come prigioniero in città. Il risultato per Genova è però molto positivo riuscendo a sottrarre la Sardegna all'influenza di Pisa. La risposta pisana non si lascia attendere iniziando una guerriglia contro i genovesi. Lo stato di guerra non è breve, nel conflitto intervengono Lucca (alleata con Genova) e Firenze (alleata con Pisa).
Federico Barbarossa inviò il cappellano Conrado a Pisa; il Console Ottobono e Filippo di Lambero gli vennero incontro a Portovenere dove ebbero più incontri con il Console pisano Elemano. I Pisani temporeggiarono cercando al contempo di ottenere la liberazione del Giudice di Oristano in quanto sostenevano fosse loro colono e quindi ora loro vassallo ma non poterono accollarsi il suo enorme debito.Durante i colloqui venne trattenuta a Portovenere una nave da corsa genovese, al comando di Trepedecino. Ritenendo di poterla facilmente affondare il Console pisano mandò a chiamare una galea a Pisa e salitovi sopra tentò inutilmente l’assalto.Non ottenendo soddisfazione le navi Genovesi ricominciarono la corsa e nel giro di pochi giorni su tre navi pisane predarono quasi 2.000 libbre. Simone Doria con 300 uomini espugnò il castello della Rocheta (presso Vernazza) che era difeso da Enriceto di Carpena, alleato di Pisa. Durante l’impresa furono imprigionati tre Signori di Vezzano che erano nel castello.14 galee genovesi al comando di Amico Grillo risalirono il Rodano dietro 8 galee pisane e ne distrussero alcune presso Arles prima di rientrare.Il 21 agosto 31 galee pisane distrussero Albenga e proseguirono per la Provenza. 45 galee genovesi, al comando del Console Amico Grillo, furono armate in solo 4 giorni e trovarono i Pisani ormeggiati a Saint-Gilles sotto la protezione della città. I signori di Baux (per 800 libbre) si schierarono con i Genovesi mentre i Pisani reclutarono gli abitanti di Saint-Gilles, il Conte Raimondo di Saint-Gilles e il Conte Raimondo Trencavallo, Visconte di Carcassone. Amico Grillo preferì disimpegnarsi e rientrare a Genova.Tre galee bruciarono la pisana Portotorres (Sardegna) e ne predarono le navi mentre 25 galee pisane distrussero Levanto (che dopo la signoria dei Da Passano era divenuto libero Comune) ma inutilmente provarono ad espugnare Portovenere soccorsa in quest’occasione dai Marchesi Malaspina e dagli uomini di Vezzano.
Genova riesce ad ottenere una pace favorevole nel 1175 dopo aver azzerato gli interessi pisani in Provenza
Giunto l’inverno la flotta fece un blocco navale alle foci del Rodano predando 1.400 libbre ad una nave pisana proveniente da Bugea e rientrò a Genova per la fine dell’anno consolare: le navi pisane allora uscirono dal Rodano ma in una tempesta 13 di loro naufragarono.Quattro galee al comando del Console Ottone di Caffaro fecero dal marzo 1166 blocco navale al largo della Provenza mentre il Console Oberto Recalcato, in Sardegna con tre galee, ritirò 700 libbre ad Oristano, ricevette giuramento di fedeltà da Pietro, Giudice di Cagliari, e la promessa di 10.000 libbre e di 100 libbre annuali.Furono inviate 9 galee, guidate dal Console Oberto Recalcato, in Sardegna per evitare che i Pisani approfittassero delle crescenti discordie civili. Sconfitti nel golfo di Ogliastra da 17 galee pisane e mentre si ritiravano distrussero Portopisano e le sue navi. A Genova nel frattempo si stavano armando altre 32 galee.Pisa inviò tre santi uomini a chiedere la pace e le 32 galee genovesi che nel frattempo erano partite per la Sardegna al ritorno fermarono a Portovenere.7 galee al comando del Console Ansaldo di Trenquerio, in agguato a Piombino per bloccare due galee pisane che scorrevano la Provenza vennero sconfitte da 7 galee pisane.I Pisani inviarono 5 galee in Provenza inseguite inutilmente da 6 galee genovesi al comando di Baldovino Guercio. Durante la loro ricerca Baldovino attaccò a Vado 7 galee pisane ma per via della discordia tra i comandanti delle galee (s’era in pieno periodo di guerre civili) furono sconfitti.Il 7 ottobre, a S. Giorgio di Lerici, si stipulò un’alleanza con Lucca; nello stesso periodo Arles accettò tutte le richieste genovesi al fine di definire le vertenze pendenti; il 12 novembre il legato di Narbona, Guglielmo di S. Grisato, firmò un trattato con Genova che tagliò fuori dalla regione i Pisani.Genova inviò Lanfranco Pevere e Ottone Bono a chiedere giustizia all’Imperatore. I Pisani nel contempo comprarono per 13.000 libbre l’investitura dell’isola di Sardegna per mezzo dell’Arcivescovo di Magonza.L’Imperatore impose a Pisa la restituzione dei prigionieri genovesi che però non avvenne.Da marzo 1167 fino a novembre quattro galee fecero blocco navale, al comando del Console Rodoano; 9 galee pisane prepararono una sortita e il Console Oberto Spinola (con 7 galee) e il Console Rubaldo Bisacia (con 4 galee) le attaccarono a Foro ma calata la notte le flotte persero il contatto.Il Console Rodoano fece il 7 maggio un trattato con il Re d’Aragona che si impegnò a bandire dal suo Regno tutti i Pisani ed in cambio Genova inviò 4 galee, guidate dal Console Rogerio Maraboto, per aiutarlo ad espugnare il castello di Albarone, in mano al Conte di Saint-Gilles.Altre galee pisane entrarono in Provenza ma in luglio Pisa chiese la pace.Il Console Corso da ottobre a febbraio presiedette i giudicati di Cagliari e Oristano e catturò, tornando a Genova con le sue due galee, una nave pisana.
Pisa inviò nel 1168 11 galee in Provenza e inseguite da 13 genovesi che, al comando del Console Nicola di Rodulfo, riuscirono a catturarne 4 nel porto di Agde mentre le altre 7, che erano a Malgoires, fuggirono.I Lucchesi, su pressione di Genova, espugnarono il castello pisano di Asciano e i 700 prigionieri pisani vennero usati per scambiarli con i 333 prigionieri genovesi ancora in mano pisana e mai liberati.Il Console Ido Gontardo con 16 galee cercò di intercettare 7 galee pisane, con a bordo il Cancelliere imperiale Cristiano, dirette a Marsiglia: non trovandole passò in Corsica. Avuta notizia che i Pisani erano giunti all’isola di S. Onorato, divise la flotta e inviò 8 galee verso la Provenza mentre con le altre 8 devastò l’isola di Pianosa finché, inseguito da 30 galee pisane non dovette rientrare a Genova con tutta la sua flotta.Pochi giorni dopo Villano Gaetani, Arcivescovo di Pisa, venne a Genova come mediatore di pace.Il Re di Sardegna Barisone, ancora in mano ai creditori genovesi, il 23 ottobre promise di consegnare in pegno di pagamento il castello di Arculento (affidato quindi in custodia ad Alinerio Della Porta), 140 ostaggi e 4.000 lire e di fare ritorno con la moglie ed il figlio sulle stesse galee che lo avrebbero portato in Sardegna. I Giudici di Torres e Cagliari fecero trattati di amicizia con il Re ed il Console Nuvolone giurò di difendere i Giudici nel caso il Re avesse violato i patti.Soltanto il 7 gennaio 1172, scortato dal Console Ottone di Caffaro, Barisone riuscì a rientrare definitivamente in Sardegna,: dovette lasciare come ostaggi figlio, moglie e 45 notabili; versare 1.000 lire entro un mese, 7.000 lire di merce entro il 24 giugno e 4.000 lire di merce annuali.L’anno seguente (1169) il Console Nicola Roza, subito dopo aver partecipato alla spedizione in Polcevera (in occasione della pacificazione delle campagne), partì contro i Pisani con 4 galee per la Provenza e lì fece blocco navale per due mesi.La Versilia, sobillata da Pisa, si rivoltò contro Lucca; Genova inviò 500 cavalieri e 22 balestrieri, al comando di Rogerio di Maraboto, senza chiedere alcun compenso ai Lucchesi. Giunti a Viareggio i Genovesi la presidiarono e fornirono soccorso ai vicini castelli di Corvaria e Assano poiché gli eserciti di Pisa, Garfagnana e Versilia, che si trovavano tra loro e Lucca, ne impedivano la difesa.A maggio il Console pisano Guido di Mercato chiese la pace. Mentre fino ad agosto si definirono le varie controversie, i Pisani assaltarono il castello di Assano e vennero respinti dai balestrieri genovesi.Genova armò 8 galee al comando del Console Anselmo Garrio. Questi ne inviò 2 in Corsica, 2 a Capraia e 2 in Gorgona mentre le ultime 2 restarono a Portovenere fino a quando, stanco di attendere il termine delle trattative di pace che qui si svolgevano, risalì con esse l’Arno e dopo una breve scorreria assalì il castello di Capalbo.
Nel frattempo 6 galee pisane diressero in Provenza; 7 galee, al comando del Console Ottone di Caffaro, si schierarono per proteggere i mercantili genovesi che si trovavano indifesi a Foro di Giulio.
Il 10 agosto, trovati i Pisani presso le isole Hyères, catturarono 3 galee nemiche.Altre galee pisane partirono per saccheggiare le navi dirette alla fiera di S. Raffaele per cui fu decretato che i mercanti si recassero a tale fiera in galea e 6 galee al comando di Ingo Tornello pattugliarono i mari di Provenza per 2 mesi.
Al suo ritorno (dicembre 1169) Tornello partì in, con 2 galee, per la Sardegna al fine di rinsaldare il possesso di Oristano e dei castelli di Arculenio e Mamilla.8 Galee al comando di Oberto Recalcato pattugliarono i mari di Provenza per un mese bloccando 4 galee pisane.In questo periodo la Guerra con Pisa fu delegata a 2 galee di Portovenere e 2 di Trepedecino che riuscirono a catturare 1 galea con a bordo due Consoli pisani e molti nobili.Nel 1170 6 galee al comando del Console Ogerio Vento e 2 galee di Trepedecino pattugliarono la Provenza per un mese e mezzo. Al ritorno, informati dai cursori di guardia al largo di Pisa, Trepedecino e le galee di Rapallo catturarono una galea pisana e fecero prigionieri due Consoli e molti nobili, mentre la galea di Ricio Da Passano ed una di Rapallo ne catturarono una pisana che però all’isola del Giglio venne sequestrata dal Re di Sicilia, che con la sua flotta era di ritorno dalla Spagna.8 galee assalirono i Pisani mentre a Genova le Compagne ne armavano altre 8 che, al comando del Console Grimaldo, pattugliarono i mari di Provenza per un mese mentre Trepedecino con una sua galea ed una di Portovenere predò una ricca nave pisana di ritorno dalla Sicilia.
Rogerio di Gusta, ambasciatore a Monte Pesulano, tornò a Genova e in novembre l’ambasciatore di Lucca, Guidoto Linaiol, venne a chiedere rinforzi per il castello di Mutrone minacciato dai Pisani. Genova promise di armare l’esercito, di stanziare 4 galee a Portovenere e di pagare il soldo per 300 cavalieri che Lucca avrebbe assunto a nome suo. Lucca chiese 8 galee a Portovenere e, con l’arruolamento dei cavalieri, ritenne non più necessaria la mobilitazione dell’esercito Genovese. L’esercito di Lucca venne sconfitto e la torre cadde.Genova chiamò alle armi tutti gli abitanti dei territori sotto al suo controllo e quando il Console di Lucca, Oberto di Sofreducio, riferì le notizie della guerra al parlamento di Genova ottenne la promessa, dato che i Pisani erano rientrati nella loro città, dell’invio di un esercito di 1.000 cavalieri entro 7 mesi e gli furono consegnati 600 prigionieri pisani, detenuti a Genova, che avrebbero potuto scambiare con i prigionieri lucchesi.
Nel 1171 5 galee di Trepedecino e 4 del Comune si mossero contro i Pisani mentre 8 galee e 8 gatti venivano preparati per trasportare l’armata.Il 10 maggio 1171 Genova (per mano del Console Nicola Rizo) strinse alleanza con Raimondo V Conte di Tolosa, Marchese di Provenza e Duca di Narbona e iniziò un blocco di 4 mesi ogni anno contro Montpelier in quanto Guglielmo VII si era alleato con Pisa.Si decise di comune accordo con gli alleati che, per difficoltà di approvvigionamento, si sarebbe mobilitato l’esercito la prossima estate e nel frattempo venne edificato, al posto della torre di Mutrone, il castello di Monte Gravanto.
Cristiano, Arcivescovo di Magonza ed Arcicancelliere imperiale, attraversò la Lombardia in fermento fino a Genova dove fu accolto nel gennaio 1172 con grandi onori ed ebbe adeguata scorta. Per rappresaglia a tale accoglienza la Lega bloccò l’esportazione di grano per 6 mesi causando una grave crisi alimentare ed economica.Il nuovo consolato intercedette presso l’Arcicancelliere (promettendo 2.300 libbre per finanziare la missione imperiale) in favore dei prigionieri lucchesi e genovesi in mano pisana.
L’Arcicancelliere convocò tutti i vassalli imperiali a Siena e invocò una tregua al fine di preparare i trattati di pace tra le due città.Durante i colloqui segreti tra l’Arcicancelliere e i legati genovesi e lucchesi ci si accordò che: i Pisani sarebbero stati banditi dall’impero, avrebbero perso tutti i loro privilegi e lo stesso Arcicancelliere si sarebbe schierato in campo contro di loro; Genova avrebbe armato una flotta di 50 galee e versato 1.300 libbre all’Arcicancelliere (ma non avrebbe mobilitato i 1.000 cavalieri promessi nel 1170) mentre Lucca avrebbe attaccato da terra.Pisa venne bandita ad aprile per non aver affidato mandato all’Arcicancelliere di concludere la pace. Visti i preparativi di guerra Pisa chiese di comporre la pace che venne giurata da 1.000 abitanti di ognuna delle città in conflitto (Firenze, Genova, Lucca, Pisa).Poiché Pisani e Fiorentini si prepararono ad espugnare il castello imperiale di San Meniato, 7 galee al comando del Console Corso risalirono l’Arno e rasero al suolo l’isola di Pianosa.In patria i Malaspina si ribellarono.Le galee al comando del Console Rubaldo Bisacia catturarono 3 galee pisane e liberarono 1 nave genovese di ritorno da Bugea. 8 galee a capo del Console Lanfranco Alberico andarono a rinsaldare i rapporti con la Sardegna. Frattanto i cursori riferirono che due galee pisane dirigevano in Provenza e 4 galee, guidate da Ottone di Caffaro, le inseguirono. 5 galee Pisane tallonate da 7 galee al comando di Ingo di Flessa riuscirono ad entrare in Provenza.Nell’ottobre 1173 Papa Alessandro III fu costretto ad ammonire severamente la città di Genova per via delle "inaudite violenze" commesse ai danni di Guglielmo VII di Montpelier. Nell’agosto 1174 Raimondo Duca di Narbona, Conte di Tolosa e Marchese di Provenza in cambio dell’aiuto militare (16 galee) contro il Re d’Aragona concedette un fondaco a Saint-Gilles, una strada ad Arles, Marsiglia, il castello ed il borgo di Hyères, le saline di Bouc, metà Nizza, il poggio di Monaco (dove poter fondare un castello) e libertà di commercio.Il 25 gennaio 1174 il Marchese Guglielmo di Massa giurò di impegnarsi contro Pisa.
Nel 1175 il Console Rogerone con 6 galee combatté i Pisani e inseguì una loro nave da Portotorres fino a Portopisano dove l’arrembò e bruciò. Ugo Scoto, Clavigero del Comune, mentre con 1 galea vigilava le coste Provenzali ne catturò una pisana.
Barbarossa impose la pace a Firenze, Genova, Lucca e Pisa; e per imparzialità concedette metà della Sardegna a Pisa e metà a Genova.Ma per l’anno successivo Genova tenne per tutta la primavera e l’estate alcune galee armate a guardia della Provenza temendo i pirati pisani e una possibile riapertura del conflitto .Solo nel 1187 (alla caduta di Gerusalemme) i Pisani predarono alcuni mercanti genovesi a Cagliari; Genova armò un grosso esercito ma per l’intercessione di Enrico, Re d’Italia, inviò solo 10 galee al comando di Fulco di Castello per abbattere il castello che i Pisani avevano eretto a Bonifacio.
I rapporti con Pisa, dopo la pace del 1175, non si mantengono pacifici a lungo. Già nel 1187 la guerra si riaccende dopo la predazione di alcune imbarcazioni mercantili genovesi.
Nel 1187 Pisa occupò il giudicato di Cagliari ma si stava preparando la III crociata e nel 1188 due Cardinali inviati da Clemente III ottennero la pace tra le due città giurata da 1.000 Genovesi scelti da Pisa e 1.000 Pisani scelti da Genova.
La reazione genovese investe il castello pisano di Bonifacio. Papa Clemente III mediante due inviati riesce a concordare la pace e 1000 genovesi con 1000 pisani si incontrano per giurarla. Probabilmente a spingere i contendenti a deporre le armi è la comune minaccia saracena.
Viene indetta una nuova Crociata alla quale partecipa Federico Barbarossa che, attraversata l'Europa, trova la morte guadando un fiume. Filippo di Francia e Riccardo d'Inghilterra partecipano anch'essi alla Crociata ma attraversano il Mediterraneo sulle galee fornite dai genovesi. Genova partecipa attivamente con uomini e galee all'assedio di San Giovanni d'Acri. Purtroppo la Crociata si risolve in una sconfitta.
Nonostante i conflitti coinvolgano i luoghi di primario interesse economico genovese, Genova riesce ad ottenere nel 1177 alcuni privilegi dal "Saladino", nel 1186 dall'Imperatore d'oriente e una tregua ventennale con Maiorca.
Anche in Liguria non regna la calma. L'allargamento alle riviere dell'area d'influenza genovese ha portato in città alcune influenti famiglie rivierasche. I già precari rapporti cittadini vengono alterati creando nuove discordie. A Genova come nel resto della penisola nascono due fazioni contrapposte successivamente nominate: guelfi (pontifici) e ghibellini (imperiali). Scoppiano dei disordini in città, il Console Melchione della Volta viene ucciso. Per riportare la calma in seno alla Repubblica, l'Aricivescovo Ugone convoca le Compagne e infrangendo le regole (elezioni) nomina i consoli e convocati i cittadini in Duomo li fa giurare una tregua. Contemporaneamente decreta l'occupazione delle case di Amicone di Castello e Ingo della Volta fomentatori dei disordini. La tregua dura poco e la Repubblica precipita verso uno stato anarchia e di disordini continui. La grave situazione in cui versa lo stato necessita una risposta energica delle Autorità, a tale scopo i Consoli incaricano Anselmo Garrio e Ottone di Caffaro di riportare l'ordine nel levante ed analogo compito per il ponente e Polcevera viene assegnato a Nicola Rosa e Ruggiero di Malabotto.
La pace si mantiene per circa otto anni fino al 1178 quando scoppiano nuovi tumulti, nel 1183 è la Val Bisagno all'origine dei disordini. La situazione degenera ed il 16 febbraio 1187 viene ucciso il Console Angelerio de Mari, il 2 maggio 1189 nuovi disordini interessano il centro cittadino e la nuova Crociata del 1190 spinge i ghibellini rimasti a Genova ad aprofittare della partenza dei guelfi verso la Terra Santa compiendo un colpo si stato. Viene eletto un Podestà straniero nella persona di Manegoldo del Tetticcio da Brescia con poteri "politici". Il potere giudiziario viene invece assegnato ai neoeletti Consoli dei Placiti. Il nuovo Podestà riesce a soffocare i disordini.
Nel 1191 i progetti dell'Imperatore Enrico VI sulla Sicila e su Napoli, prevedono un ruolo anche per Genova. Riesce ad ottenre l'aiuto genovese con l'accordo di nuovi privilegi, la concessione di edificare un nuovo castello a Monaco, il permesso di comprare Gavi ed il governo su Siracusa e la Valle di Noto. La Repubblica mette a disposizione 30 galee che il 15 agosto partono per Castellamare per proseguire poi per: Ischia, Ponza e Palmarola. Non riuscendo a dare battaglia alla flotta pisana (72 galee), la flotta si dirige su Civitavecchia e per ordine imperiale torna a Genova. Giunto personalmente a Genova, Enrico VI conferma le promesse fatte.
La fine della Crociata (1192) comporta il ritorno degli esponenti guelfi a Genova con il conseguente ritorno "forzato" alle isitutuzioni consolari comunali e dei placiti.
Lo stato di agitazione non si placa. Viene eletto Podestà Oberto di Olevano (Pavia). Nel 1194 il Siniscalco Marcoaldo, su mandato dell'Imperatore, incita i genovesi ad intervenire con proprie forze in Sicilia. Il Podestà accoglie la richiesta ed organizza un contingente di terra ed una flotta. La spedizione inizia positivamente, Gaeta e Napoli oppongono una minima resistenza. Le forze genovesi incontrano una maggiore opposizione a Salerno e Messina. Nello stretto di messina si scontrano le flotte genovesi e pisane (alleati della Sicilia). Il Siniscalco impone la pace che però non viene osservata dalle forze pisane. Il Podestà muore, di morte naturale, a Messina ma per evitare le temute imboscate pisane, i funerali non vengono celebrati. La guerra continua e le truppe di Genova liberano Catania dai Saraceni e scacciano i pisani da Siracusa. Anche Palermo viene occupata.
Ai numerosi successi genovesi al fianco dell'Impero, segue il tradimento dell'Imperatore stesso che, prima non mantiene le promesse e successivamente incita Pisa a combattere contro Genova.
Nel 1195 viene eletto il nuovo Podestà Giacomo Mainero (Milano). Scoppia un nuovo incidente con Pisa, "corsari" con base a Bonifacio (nuovo castello pisano) depredano i mercantili genovesi. Le autorità pisane negano ogni responsabilità non riconoscendo Bonofacio come proprio territorio. In risposta, vengono armate 12 navi che occupano Bonifacio, liberano i mercantili trattenuti e fanno ritorno a Genova. Scoppia l'ennesima guerra con Pisa, il tentativo si sottrarre Bonifacio ai nuovi occupanti genovesi risulta vano. Molte navi pisane vengono catturate e portate a Genova. Una mediazione pontificia risulta vana. Truppe pisane tentano nuovamente l'occupazione di Bonifacio. Il Podestà Drudo Marcellino a capo della flotta, cerca inutilmente, fino a Cagliari, di dare battaglia ai pisani. Riesce però a cacciare il Marchese Guglielmo di Massa da S. Igia che viene distrutta. Nuovi rinforzi da Pisa assediano Bonifacio ma, Anselmo Guarco con 17 gallee e molte altre navi da Genova, rompono l'assedio e cacciano i pisani in alto mare dove si scontrano con la flotta genovese che riesce ad ottenere un'importante vittoria. Il conflito prosegue e si trasforma in "guerra corsara". Gli impegni bellici contro Pisa distolgono l'attenzione dagli analoghi problemi interni. Ventimiglia e Tortona insorgono, nei territori di Gavi e Parodi dilagno i predoni mentre Beccaria e Vezzana addirittura cercano un'intesa con Pisa per occupare Portovenere. Una rapida repressione condotta per mezzo di una numerosa flotta porta alla sottomissione di Ventimiglia. Seguono le repressioni delle rivolte di Noli, Savona e Gavi con l'imposizione dei pesi e delle misure genovesi. Vengono imposti anche l'invio di alcuni contingenti armati a Bonifacio. La situazione non si stabilizza e si rende necessario una nuova repressione.

Antiche mappe della Liguria e Genova
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Genovesi abili diplomatici...
Nel 1160 furono inviati come legati, a Costantinopoli, il Console Enrico Guercio e, presso il Re Spagnolo Abu Abd Allah Mohammed ibn Said Mardanisch, Oberto Spinola. Nel 1164 il Console Corso di Sigismondo, Ansaldo Mallone e Nicola di Rodolfo con una galea andarono ambasciatori a Costantinopoli su richiesta dell’Imperatore d’Oriente ma la missione portò poco frutto.Nell’ottobre 1165 vi fu una convenzione con Raimondo Berengario II Conte di Provenza e di Melguell e lo stesso mese si stipulò un trattato di pace ed alleanza con Roma.Nel 1166 vi furono l’accordo con Arles e, a novembre, il trattato con Narbona.Nel 1167 persero l’alleanza con Raimondo V, Conte di Tolosa e Duca di Narbona, ma strinsero alleanza con il popolo di Narbona; il 7 maggio il Console Rolando stipulò un trattato con Re Alfonso d’Aragona, Conte di Barcellona e Duca di Provenza mentre nel 1171 con un trattato riacquistarono i favori del Conte Raimondo V.Nel 1168, su richiesta del Re di Sicilia, partirono con una galea il Console Bellamuto, Rogerone di Castello e Amico Grillo ma non stipularono alcun accordo. Quello stesso anno Amico di Murta andò ambasciatore a Costantinopoli ed ottenne, in ottobre, una convenzione con l’Impero d’Oriente per il riconoscimento dei danni subiti nel 1162 ad opera dei Pisani: 30.000 ipèrperi. Lo stesso mese Boemondo III Principe d’Antiochia confermò i privilegi concessi da Boemondo I in Antiochia, Laodicea e Solino.Tra l’aprile e il maggio 1170 Genova ottenne un embolo entro le mura di Costantinopoli: il Koparion ("il corno d’oro"). In giugno gli ambasciatori dell’Impero d’Oriente Andronico Costastefano, Teodoro Kastamouni e Giorgio Disipato da Nicea giunsero a Genova con 56.000 ipèrperi per il Comune. Si attese il ritorno di Amico di Murta da Costantinopoli, ma poi, per via delle discrepanze tra ciò che promettevano gli ambasciatori e ciò che era scritto nei loro documenti, fu rifiutato il denaro e venne inviato nuovamente a Costantinopoli Amico di Murta per chiarire la situazione.Nel gennaio del 1171 venne stipulata una convenzione con gli uomini di Grasse. Lo stesso anno i Veneziani aggredirono al colonia genovese al Koparion causando danni per 5.674 ipèrperi. Alla morte di Emanuele Comneno (1182) scoppiò una tale reazione all’influenza straniera a Costantinopoli che tutti i latini dovettero lasciare la città per salvarsi la vita. I Genovesi persero 228.000 ipèrperi che, 10 anni dopo, chiesero come indennizzo al nuovo Imperatore Isacco.Il Console Ottobono degli Alberici andò due volte ambasciatore in Sicilia e nel novembre 1174 riuscì a concludere la pace con Re Guglielmo II che riconfermò totalmente il trattato del 1156.Nel 1177 Guglielmo Vento raggiunse a Ravenna l’Imperatore e definì alcuni accordi mentre in Terrasanta Rosso di Volta, ambasciatore presso Salàh ad din Yusuf, firmò con lui una pace.Due anni dopo l’Arcivescovo Ugo partecipò al Sinodo Lateranense in cui furono confermati i privilegi di Genova e autenticate le ceneri del Battista.A Genova nel 1177 Giovanna, figlia di Enrico II d’Inghilterra venne ricevuta a Genova dalle navi del futuro sposo Guglielmo di Sicilia mentre nel 1179 Agnese, figlia di Luigi VII Re di Francia, passò per Genova diretta a Costantinopoli, promessa sposa di Alessio, figlio di Emanuele Comneno.Nel 1181 l’Ammiraglio del Regno di Sicilia Gualtiero di Moach, diretto contro Maiorca, passò con una grande armata e si fermò a svernare a Vado.Nel 1186 Guglielmo Tornello fu inviato in Sardegna come legato e Nicola Mallono e Lanfranco Pevere all’Imperatore Isacco. Nel 1188 Nicola, figlio di Filippo di Lamberto fu inviato da Ishak ibn Mohammed, Re delle Baleari (Formentera, Ivisa, Maiorca e Minorca) con cui si stipulò una pace ventennale.


GENOVA E LA TERZA CROCIATA


Nel 1187 Salàh ad din Yusuf Ibn Ayyùb espugnò S. Giovanni d’Acri (a luglio) e Gerusalemme (a ottobre), imprigionando il Re Guido e il Marchese Guglielmo di Monferrato con la battaglia di Hattin. Il Marchese Corrado di Monferrato era a Costantinopoli ma alla notizia diresse con una nave Genovese su Acri e vi giunse 2 giorni dopo la sua caduta. Riparò a Tiro, unica città ancora in mano cristiana, e diresse la difesa della città fino all’arrivo dei rinforzi Pisani e Veneziani.
Per primo partì la flotta siciliana, guidata dall’Ammiraglio Margherito, che giunse in tempo per impedire la conquista di Tripoli; Federico Barbarossa, Imperatore e Re di Germania, partì per via terra e morì annegato nell’aprile 1190 ad Antiochia, attraversando il fiume Ferro. La crociata proseguì ma con scarsi esiti.
Genova tra il 1177 ed il 1188 Genova aveva ottenuto benefici commerciali dal Sultano d’Egitto Salàh ad din, dal Re di Maiorca Ishak ibn Mohammed e dall’Impero Greco. Con la crociata fornì un aiuto militare al fine di mantenere i suoi privilegi.
Nel 1188 Rosso Della Volta saggiò le intenzioni inglesi verso la Siria. L’anno seguente (1189) gli ambasciatori Ansaldo Bufferio ed Enrico Deitesalve andarono a trattare con Filippo II Augusto, Re di Francia, e Riccardo Cuor di Leone, Re d’Inghilterra, il trasporto fino in Terrasanta. Entrambi furono rapiti durante il tragitto dalla Marchesa Donexella dell’Incisa per ottenere un riscatto. Genova, Asti ed Alessandria armarono gli eserciti e gli ambasciatori vennero prontamente restituiti alla loro missione.
Si organizzò il trasporto integrale dei crociati francesi a vantaggiosissime condizioni: il prezzo era 5 volte maggiore rispetto a quello di mercato ed il contratto venne firmato il 16 febbraio 1190 da Ugo III, Duca di Borgogna.
I francesi si sarebbero imbarcati a Genova, invece gli inglesi a Marsiglia. La flotta genovese per trasportare 650 cavalieri, 1.300 cavalli e scudieri ed il vitto per 8 mesi avrebbe avuto un incasso di 5.850 marchi d’argento (che dovettero essere anticipate al Re francese da alcuni cittadini privati), il recupero delle proprietà perdute e un quartiere in ognuna delle città conquistate.
Genova organizzò personalmente due spedizioni militari nel 1189 e nel 1190 partecipando all’assedio di S. Giovanni d’Acri che, dal 27 ottobre 1189 fino al 12 luglio 1191 (quando venne espugnata) fu l’unica impresa militare della crociata. Nel 1189 partì una nutrita spedizione, guidata dal Console Guido Spinola, a cui però non partecipò nessuno degli Avvocati.
Il 1 agosto 1190 Filippo II di Francia entrò a Genova; il 13 agosto Riccardo d’Inghilterra passò da Genova con 15 galee e, dopo un colloquio con il Re di Francia, diresse in Terrasanta seguito il 24 agosto da Filippo II.
Nello stesso periodo partì la seconda operazione militare genovese: 80 navi guidate dai Consoli Simone Vento e Marino Rodoano.
A causa delle polemiche se insediare sul trono Re Guido o sostituirgli Corrado di Monferrato (appoggiato anche dai Genovesi) risultò impossibile proseguire l’impresa che terminò lasciando i mano cristiana le sole città della costa (S. Giovanni d’Acri Tiro, Antiochia, Beirut e Tripoli).
Genova e Pisa riottennero i loro quartieri e privilegi ma da ora in poi le colonie genovesi in Oriente vennero gestite non più da privati (ad eccezione di Gibelletto, dominio degli Embriaci) ma direttamente dal Comune per mezzo di due "Consoli e Visconti dei Genovesi in Siria" che risiedevano a S. Giovanni d’Acri.


GENOVA TRA L’ANNO 1200 ED IL 1300: LE GUERRE CON PISA
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Genova nel XIII secolo tratta da Antiche mappe della Liguria e Genova


Con la successione (1200) di Ottone VI, Genova vede finalmente mantenere le promesse mancate dell'Imperatore Enrico VI. Siracusa passa da Pisa a Genova. Pisa non accetta la nuova situazione ed occupa la città contesa. La risposta genovese giunge nel 1204 con la liberazione di Siracusa e la cessione in feudo a Alamanno della Costa. I pisani ritornano all'offensiva assediando la città nel 1205. Le forza congiunte genovesi e del Pescatore sconfiggono i pisani e ne catturano le navi. I tentativi di mediazione tra le parti risultano inconcludenti. La guerra dilaga e Genova si trova a dover affrontare un notevole numero di avversari su più fronti contemporaneamente. La lista dei nemici è lunga: Nizza, Marsiglia, Pisa, città Provenzali e Venezia. Nonostante la sproporzione di forze, la Repubblica riesce ad avere la meglio su tutte le forze ostili. 1211 pace di 21 anni con Marsiglia, 1212 e 1215 pace con Venezia, 1212 tregua di 5 anni con Pisa, sottomissione di Nizza, sottomissione di Gavi, imprigionamento decennale per i Marchesi Malaspina, richiesta di pace da Tortona, donazione di propria volontà di Capriata d'Orba.
Tra il 1212 ed il 1217 si registra il temporaneo ritorno all'istituzione consolare.
Nel 1217 scoppiano nuovi disordini interni, viene ripristinato il Podestà e sostituiti i Consoli Placiti con 5 Dottoti in Legge forestieri.
Nel 1218 Guglielmo Embriaco "il Negro" e Lanfranco Rosso concordano in Francia le condizioni di imbarco per una nuova Crociata. Ad agosto dello stesso anno la spedizione parte da Genova. 200.000 uomini sbarcano sulla riva orientale del Nilo. La strategia prevede di colpire il Sultano d'Egitto iniziando un assedio congiunto con i Crociati provenienti dalla Terra Santa. L'operazione però non sortisce i risultati sperati e Genova si vede costretta ad inviare in rinforzo 10 galee al comando di Giovanni Rosso della Volta e Pietro Doria più 4 galee di Alemanno della Costa e Monleone. I rinforzi partiti il 23/07/1219 giungono a destinazione ad agosto. Gli aiuti ridanno forza ai Crociati costretti a difendersi dalle sortite saracene. La voce dell'imminente arrivo dell'Imperatore, porta il Sultano a chieder la pace offrendo insperate concessioni (liberazione dei prigionieri e territori vari). Il Legato Pontificio, probabilmente non comprendendo pienamente la gravità della situazione, respinge l'offerta. Il 05/12/1220 cade Damiata e molti tesori vengono prelevati. Dopo questa vittoria nascono delle divisioni tra i Crociati dettate dalla scelta degli obiettivi. Le due strategie contrappongono l'obiettivo finale di Gerusalemme al Cairo. Il Sultano torna ad offrire una tregua trentennale che viene nuovamente rifiutata. La controffensiva saracena aiutata dall'allagamento artificiale del Nilo porta alla ritirata dei Crociati e allo scambio di prigionieri con condizioni molto meno favorevoli delle precedenti proposte.
La pace sul piano internazionale viene però sconvolta dalle sommosse della Riviera di Ponente. Vengono inviate truppe a sedare le rivolte di: Ventimiglia, San Remo, Noli, Diano, Albenga e Savona. Riportato l'ordine a ponente, le truppe vengono inviate a contrapporsi alle forze di Alessandria, Tortona, Vercelli e Milano che minacciano i traffici commerciali. Le forze ostili alla Repubblica, nel tentativo di occupare Capriata, vengono sconfitte e messe in fuga. Il Podestà Brancaleone di Ansaldo (bolognese) raduna a Gavi l'esercito e muove contro il castello di Montaldo (Alessandria) riuscendo a distruggerlo. Nuovamente il Podestà raduna a Gavi un nuovo esercito di 1200 uomini al quale se ne aggiungono 200 del Conte di Savoia (convenzione di Asti 13/06/1225). La morte prematura per malattia del Podestà causa lo sbando delle truppe e l'impossibilità di risolvere la questione. Subito ne aprofittano Savona e Albenga coalizzate con altre città minori per insorgere.
Il 1228 vede una nuova espansione genovese nel ponente fino a Marsiglia con la quale viene stipulata una convenzione. Purtroppo lo stesso anno viene definitivamente persa Nizza per mano del Conte di Provenza.
Segue un periodo di guerre contro i Mori di Spagna e del Marocco.
L'arrivo di Federico II porta pessime novità, l'Imperatore riceve gli ambasciatori di Savona e Albenga e li reindirizza alla corte del Conte di Savoia intenzionato a sottrarre le città a Genova. Le ribelli non giurano più fedeltà alla Repubblica. Noli rimane invece fedele al giuramento e offre rifugio agli ambasciatori genovesi scacciati da Savona ed Albenga. Scatta la risposta armata, Belmustino Visconte e poi Amico Straleria con la flotta bloccano i porti ribelli mentre 50 uomini di Nicolò Croce si appostano a Noli in difesa della città alleata. Il nuovo Podestà Lazzaro di Gherardino Giandone impone la pace cittadina, raduna il popolo ed un nutrito esercito di elementi tosco-lombardi, distribuisce le bandiere delle Compagne ed incita a punire gli insorti. Nonostante la forte resistenza, viene espugnata Stella, cade Albisola e dopo sette giorni di assedio viene presa Savona. La punizione per la città non è lieve. Il Podestà distrugge le mura, riempe i fossi difensivi, distrugge le infrastrutture portuali molo compreso, cattura 150 ostaggi e erige una fortezza a guardia della città. Il giorno stesso, nell'impossibilità di resistere alle truppe genovesi, Albenga capitola. Vengono anche nominati i Podestà di Savona e Albenga rispettivamente nelle persone di: Giovanni Spinola e Guglielmo Rosso della Volta. Viene anche imposto che le due città non possano mai più eleggere un proprio magistrato per governarsi.
Milano riesce a mediare la pace tra Genova e Alessandria, Tortona, Vercelli. La pace viene brevemente interrotta nel 1228 da una breve guerra con Alessandria.
Nel 1232, il nuovo imperatore Federico II ritira le concessioni riconosciute precedentemente nel 1200. Genova perde i privilegi in Sicilia, a Napoli ed in Palestina. Il motivo dello scontro diplomatico-economico è l'elezione a Genova del Podestà di origine milanese, fatto proibito a tutte le città della penisola. Ad aggravare la situazione giunge l'ordine imperiale di imprigionare tutti genovesi e sequestrarne i beni. Genova allestisce una flotta agli ordini di Guglielmo Mallone, Ansaldo Bolero, Bonifazio Panzano e la invia proteggere i genovesi ed i loro beni.
La scomunica e la Lega Lombarda costringono l'imperatore sulla "difensiva" e per alleggerire la propria situazione ritira gli ordini di sequestro e carcerazione verso i genovesi.
L'Imperatore riesce però a capovolgere la situazione e allestito un esercito, sconfigge le città alleate. I ghibellini risollevati dalla notizia della vittoria, si riorganizzano e a Genova colgono l'occasione dell'elezione di un nuovo Podestà milanese per scatenare la guerra civile. Le sommosse cittadine e le rivolte delle riviere come già successo in passato vengono sedate con la forza.
Nell'intento di coprirsi le spalle, per proseguire la campagna italiana, Federico II propone la pace ed ottiene la fedeltà di Genova. Le pretese imperiali però aumentano giungendo fino alla richiesta di "dominazione". Le minacce spingono i ghibellini a proporre la sottomissione ma il parlamento radunato in Duomo rifiuta categoricamente.
Nel 1239 il Pontefice scomunica l'Imperatore e organizza con Genova e Venezia una lega difensiva per nove anni.
Subdolamente l'Imperatore inizia una campagna "sommersa" di rivolte, promesse e aiuti per far sollevare le Riviere. Genova in risposta alla minaccia affida a Rosso della Turca e Fulcone Guercio le otto Compagne. La minaccia si concretizza con Guglielmo Spinola che con le sue forze marcia sulla città. Lo scontro si accende sui monti e prosegue nel centro abitato. Il Parlamento convocato sulla questione condanna alcuni nobili accusati di aver organizzato le sommosse, tra di essi spiccano alcuni esponenti delle famiglie Spinola e della Volta. Alcuni palazzi di proprietà dei condannati vengono saccheggiati. Il giuramento di obbedienza e l'intercessione Vescovile permettono il ritiro delle condanne.
Per opporsi efficacemente all'Imperatore, Genova con Milano e Piacenza si uniscono in una lega difensiva. Il vicario imperiale viene cacciato e le forze congiunte tedesco-alessandrine vengono sconfitte.
Viene indetto un concilio papale contro Federico II. Viene costituita una scorta di 20 galee per i prelati radunati a Nizza e diretti a Roma. La rotta prevede scali intermedi a Genova e Civitavecchia. L'Imperatore fomenta i pisani a intercettare il convoglio. Alcune congiure ghibelline vengono scoperte e i responsabili vengono condannati a morte. Le pene capitali vengono poi tramutate in: detenzione, esilio, distruzione dei palazzi. La flotta genovese viene sorpresa il 13/05/1241 presso l'isola del Giglio, la sproporzione 40 pisane più 20 imperiali contro le sole 20 genovesi si tramuta in una cocente quanto scontata sconfitta. A rendere più pesante la sconfitta è il fatto che al comando della flotta nemica sono due genovesi Ansaldo de Mari ed il figlio Andreolo. Vengono armate due flotte di 53 e 70 galee e subito inviate ad intercettare gli imperiali ed i traditori. L'intercettazione è vana a causa della fuga dei nemici non disposti a dare battaglia.
Mentre Genova affronta l'incandescente scenario internazionale che coinvolge tutta la penisola, anche la situazione interna e lungo i confini liguri si accende.
Nel 1233 l'esercito genovese viene sconfitto dai rivoltosi della Riviera di Ponente, già nel 1234 l'esercito vendica l'affronto dell'anno precedente.
Nel 1237 i Tortonesi intenzionati a costruire un castello ad Arquata vengono battuti dalle forze guidate dal Podestà.
Il 05 aprile 1236 una nuova rivolta di Savona, Albenga e Ventimiglia porta alla cacciata dei genovesi. 14 galee vengono inviate a sottomettere con successo le città ribelli. Il capo della rivolta savonese viene impiccato a Capo Faro. Una nuova rivolta delle solite città ponentine e degli imperiali costringe Genova ad inviare 12 galee a capo di Fulcone Guercio. La spedizione alterna vittorie e sconfitte (Porto Maurizio) fino all'occupazione di Ventimiglia. Noli viene ripagata per la fedeltà con l'elevazione al rango di Città e sede Vescovile autonoma da Savona.
Il dono (1240) del castello di Albenga da parte del Vescovo della città a Genova, scatena una violenta battaglia per terra e per mare. Lantelmo de Medici e Giacomo Gattilusio guidano il contingente terrestre. Rosso della Turca e Marino de Marini comandano la flotta.
Una nuova guerra contrappone Genova ai Marchesi del Carretto. Il Vicario Imperiale mette al bando Genova e Noli.
A dicembre del 1240 il Podestà parte guida una spedizione, per terra e per mare, contro Savona divenuta sede dei ghibellini genovesi fuoriusciti. Installa la propria base a Varazze e il 16 attacca Monticello dovendo però ritirarsi. Anche la seconda spedizione del 2/1241 si tramuta in una sconfitta.
Dopo il fallimento del Concilio anti-imperiale, conseguenza della disfatta navale genovese all'isola del Giglio, Federico II decide di affrontare definitaivamente Genova. La strategia prevede un accerchiamento di Genova. Levante: il Vicario Oberto Pallavicino con un esercito composito. Ovada: il Vicario Marino d'Eboli con un esercito composito (Pavia, Acqui, Alba, Alessandria, Monferrato, Novara, Tortona, Vercelli, ). Ponente: esercito composito (Albenga, Finale, Marchesato del Carretto, Savona). Mare: Ansaldo de Mari con flotta composita (Imperiali, Pisa, Savona) danneggia il commercio marittimo senza però affrontare la flotta genovese e tenta lo sbarco ad Arenzano. La situazione degenera, viene perso il Castello di Segno, ed il Castello di Portovenere, Levanto viene assediata e la Val Polcevera messa al sacco. Le forze genovesi impegnate ad assediare Savona ripiegano su Genova per prevenire lo sbarco di Ansaldo de Mari.
Nel 1243 Sinibaldo Fieschi diviene Papa Innocenzo IV e tenta la mediazione con l'Imperatore. Federico II promette senza mantenere le promesse e assedia il Pontefice a Sutri dove ha trovato rifugio. Il Podestà Filippo Vicedomini parte con 22 galee per Civitavecchia dove imbarca il Pontefice fuggito da Sutri il 27/6/1244. Il 7/7/1244 Innocenzo IV viene trionfalmente accolto a Genova. Giunto a Lione via terra sempre scortato dai genovesi scomunica l'Imperatore lo dichiara decaduto e scioglie i giuramenti di fedeltà. L'Imperatore incita nuovamente Pisa ed i ghibellini alla guerra contro Genova. Il Podestà Alberto di Mondello arruola un grosso esercito, una nutrita flotta ed affronta i ghibellini. Vengono anche inviati 500 balestrieri a difendere Parma dalla quale una controffensiva distrugge il campo degli assedianti. A Bologna viene catturato Re Enzo. A risolvere positivamente la situazione arriva la notizia del decesso di Federico II il 13/12/1250.
Per festeggiare gli eventi, viene rielaborato lo stemma cittadino inserendo tra gli artigli del Grifo l'aquila imperiale e la volpe pisana:”GRYPHUS UT HAS ANGIT, SIC HOSTES JANUA FRANGIT “.I ghibellini accusano il colpo.
Il Podestà Menabò di Torricello raduna un nuovo esercito e marcia su Savona. Il giorno 12/12/1250 presso la spiaggia di Varazze, i rappresentanti di Albenga, del Carretto e Savona capitolano e giurano i nuovi patti.
Il Pontefice scomunica il nuovo Imperatore e perdona i ribelli. Volendo prolungare la pace/alleanza con Genova, Venezia invia due ambasciatori. Dopo lo scambio diplomatico, due ambasciatori a Venezia, vengono firmati i trattati decennali a Portovenere 1251.
Raggiunta la pace con quasi tutte le nazioni ostili, rimane aperta il solo conflitto latente con Pisa (guerra corsara). Viene riportato il danneggiamento di una flotta pisana a causa del maltempo al largo di Genova. Alla proposta di pace pisana viene viene controfferta la restituzione di Lerici. La richiesta viene rifiutata da Pisa.
Contro Pisa si coalizzano Genova, Lucca, Firenze e San Miniato. La coalizione ottiene subito delle importanti vittorie. Truppe lucchesi battono i pisani, forze fiorentine saccheggiano i territori pisani. Una mediazione fiorentina del 10/8/1254 confermata 11/12/1254 pone Lerici sotto Genova ma il rifiuto pisano vanifica lo sforzo diplomatico. Firenze e Lucca attaccano e vincono a Serchio, Genova con l'esercito e 80 galee prendono Lerici. Anche in Sardegna la situazione volta al peggio per Pisa, nel 1256 il Giudice di Cagliari dona castello Castro a Genova. La spedizione pisana viene contrastata efficacemente dalle galee genovesi che portano le navi catturate a Genova. 24 galee genovesi puntano su Porto Pisano e poi fanno rotta per la Sardegna. La morte del Giudice di Cagliari porta forzatamente il suo giudicato sotto quello di Arborea filo pisana. Una nuova mediazione fiorentina assegna Lerici e Cagliari (come da volontà testamentali) a Genova. Come già dimostrato negli anni precedenti, Pisa non rispetta la mediazione e il conflitto prosegue.
Nel 1257 ha inizio la seconda grande riforma dello stato genovese dopo la nascita delle compagne.
Il processo riformatore ha come causa scatenante la fine del mandato del Podestà Filippo della Torre. Accusato di corruzione ed altri gravi reati, rischia il linciaggio da parte della folla inferocita.
Succede alla massima carica cittadina il nuovo Podestà Alberto Malavolta. Il tentativo di linciaggio del predecessore degenera in rivolta, non sembra irrazionale pensare che la rivoluzione popolare sia invece orchestrata da importanti esponenti dell'oligarchia genovese.
I rivoltosi radunatisi in San Siro eleggono Guglielmo Boccanegra Capitano del Popolo. Il giorno seguente l'elezione, non ufficiale, viene confermata in Duomo.
G. Boccanegra era ricco ma non apparteneva alla nobiltà e cosa più importante era ben visto dal popolo. L'investitura ufficiale a Capitano del Popolo non è l'unico atto compiuto in Duomo. Viene decisa la conferma del Podestà subordinato al Capitano del Popolo. La riduzione di autorità non viene accettata dall'interessato e si dimiette. La carica viene sdoppiata e le competenze mutate in campo giudiziario civile e criminale. Dopo un anno vengono nuovamente riunificate. Il potere legislativo e riformativo viene assegnato a 32 Anziani eletti in ragione di 4 per compagna.
La riforma definitiva porta all'istituzione di un Maggior Consiglio costituito da: 200 eletti tra i consoli dei mestieri, 30 anziani, 8 nobili, il Podestà ed il Capitano del Popolo. Questa assemblea privata dei 200 rappresentanti dei mestieri prende il nome di Minor Consiglio.
G. Boccanegra ricompone le vertenze con Ventimiglia e un anno dopo ripiana le divergenze con Dolceacqua.
Lo stile del Capitano del Popolo nel gestire la "cosa pubblica" ne aliena le simpatie popolari. In data 1/3/1258 viene sventato un colpo di stato, seguono numerose condanne e fughe dei cospiratori. Dopo il complotto G. Boccanegra cerca di consolidare la propria posizione accrescendo i propri poteri. Trasferisce la propria sede nel Palazzo di Opizzo Fieschi in Piazza S. Lorenzo.
Innocenzo IV intenzionato ad organizzare una nuova crociata basata sulle forze di Genova, Pisa e Venezia, ne convoca i rappresentanti per riappacificare le divergenze. I progetti pontifici vengono vanificati da alcuni tumulti scoppiati nelle colonie tra genovesi e veneziani.
Scoppia la guerra tra Genova e Venezia. Lorenzo Tiepolo per i veneziani "accende le polveri" attaccando e devastando la colonia genovese di Acri. Tra le perdite vengono registrate molte navi e anche la chiesa. Pisa già in conflitto con Genova si allea con Venezia. Rosso della Torre partito per Acri con 29 navi, il 23/6/1258 viene sconfitto da 80 galee veneziane. Il quartiere genovese viene selvaggiamente saccheggiato dai veneziani. Lucca fedele alleata di Genova, dona alla Repubblica una notevole somma di denaro. Genova ringrazia per il generoso gesto ma restituisce la somma.
Mentre la situazione sembra diventare critica per Genova, il legittimo pretendente al trono di Costantinopoli Michele Paleologo chiede aiuto alla Repubblica per poter liberare il proprio impero dagli occupanti "latini". Genova vede nell'alleanza la possibilità di limitare notevolmente l'influenza veneziana nell'area orientale e quindi danneggiare considerevolmente gli interessi economici vitali per Venezia. Guglielmo Visconte e Guarnieri Giudice ambasciatori per la Repubblica, vengono celermente inviati a Ninfeo per prendere accordi. Il 31/3/1261 viene firmata la Convenzione di Ninfeo ratificata a Genova il 28/4. Genova contribuisce all'alleanza con denaro ed una flotta composta da 6 navi e 10 galee guidata da Martino Boccanegra. In cambio vengono riconosciuti diritti su vari territori e privilegi economici. Particolare molto importante è che ai notevoli guadagni genovesi corrispondono ingenti perdite veneziane.
La notte del 25/7/1261 Alessio Strategopulo occupa con un colpo di mano Costantinopoli per conto dell'Alleanza, costringendo l'imperatore illegittimo Baldovino II a fuggire scortato dalla flotta veneta.
Venezia organizza subito una spedizione via mare per cacciare Paleologo da Costantinopoli. Martino Boccanegra riesce a sconfiggere la flotta veneziana. La Repubblica di San Marco perde i possedimenti nell'area e i privilegi commerciali a tutto vantaggio di Genova. Ad ulteriore danno Venezia si vede negato il diritto a commerciare sul territorio imperiale. Insediatisi nella capitale, i genovesi si vendicano delle distruzioni subite nelle colonie. Il 28/5/1263 circa 40 galee agli ordini di Pierino Grimaldi, Paschetto Mallone e Ottone Vento danno battaglia a circa 30 galee venete in rotta verso Negroponte. Mentre la battaglia volge al meglio per i genovesi, l'inaspettata defezione di 25 galee di Mallone pone i genovesi in minoranza numerica. Nonostante l'esemplare condotta di P. Grimaldi (caduto in battaglia) la flotta è costretta a riaparare in porto e poi a Costantinopoli con le ritrovate navi di Mallone.
I rapporti tra Genova e l'imperatore si raffreddano anche a causa di una presunta congiura personale del Podestà genovese a Costantinopoli. Espulsi dalla capitale tutti gli europei, l'imperatore raggiunge un accordo con i veneziani riammettendoli sul territorio nazionale.
La Repubblica affida a Simone Grillo una flotta. Mentre una piccola avanguardia punta su Costantinopoli, il resto intercetta i veneziani nel porto di Durazzo e li sconfigge.
Solo la mediazione pontificia e francese riesce, dopo alcuni anni, a comporre una tregua tra gli avversari. Franceschino de Camilla, nel 1267, ottiene anche il ritorno dei genovesi a Costantinopoli.
Di fondamentale interesse nella storia di Genova è la battaglia della Meloria che sancisce la definitiva sconfitta di Pisa e il conseguente predominio marittimo della città ligure. Come sappiamo i rapporti tra genovesi e pisani non erano mai stati idilliaci e non c'era occasione per provocare piccoli scontri che spesso si tramutavano in violente battaglie. Nel 1282, il pretesto arrivò da un certo Simoncello Giudice di Cinarca, un corso battuto dai genovesi nelle acque antistanti l'isola, che dopo la sconfitta si rifugiò a Pisa sostenendo di essere stato attaccato impunemente e senza motivo dalle galee di Genova.
I pisani si prepararono alla battaglia con un odio feroce verso i genovesi, dicendo che "in mare li aveano come femmine e in ogni parte li soperchiavano".
Anche i genovesi si prepararono alla guerra. A Sampierdarena furono allestite cinquanta galee, tutte le navi in navigazione furono allertate per lo stato di guerra e a tutti gli uomini fu ordinato di non lasciare la città. Le battaglie navali cominciarono a susseguirsi a ritmo frenetico: un po' l'una, un po' l'altra fazione riusciva a vincere lo scontro, ma nessuna delle due aveva mai il sopravvento.
Ma nel 1284 i pisani cominciarono a subire sonore sconfitte. Le galee genovesi affondavano inesorabilmente quelle avversarie e facevano prigionieri a migliaia. Si dice addirittura che ad un certo punto del conflitto Genova offrisse i prigionieri pisani in cambio di cipolle!
Il 6 Agosto 1284, avvenne lo scontro fatale, ecco come lo racconta Michelangelo Dolcino, nel suo libro "Storia di Genova nei secoli":
"I combattimenti furono subito convulsi, sanguinosissimi. I Pisani si batterono con eccezionale accanimento, confidando nella superiorità numerica; ma quando il vigore cominciò ad essere offuscato dalla fatica, emersero dalla Meloria, dal riparo della punta di Montenero, i legni sin'allora risparmiati dello Zaccaria. I Pisani raddoppiarono a quella vista gli sforzi disperati, tuttavia la loro sorte era segnata. Con vero eroismo difesero la galea ammiraglia, ma alla fine l'insegna del Morosini veniva strappata. Dovunque cadaveri, feriti urlanti, vinti dibattentisi nei flutti; e quanti tentavano di inerpicarsi sulle fiancate delle galee, venivano finiti a colpi di remo. Cinquemila persone, fu calcolato, complessivamente persero la vita. Soltanto venti unità pisane si salvarono: quelle che il Conte Ugolino, cogliendo l'ultima possibilità, fece riparare a Pisa. La sconfiffa non poteva essere più completa. Morosini stesso, «turpemente ferito nel volto» - come narrano gli «Annali» - finì prigioniero di Oberto Doria: uno dei novemila che verranno condotti a Genova, assieme a ventinove galee. «E nella battaglia fu anco preso il detto Conte Loto, figlio del Conte Ugolino e tutta la nobiltà di Pisa e i giudici in numero di diciassette (. . . ) così che chi volesse cercare o vedere Pisa l'avrebbe trovata in Genova e non nella città Pisana, come da tutti in Toscana e anco dagli altri si andava dicendo». La battaglia s'era svolta il 6 agosto: il giorno di San Sisto, protettore di Pisa. Quel giorno non si svolse laggiù la celebrazione dell'anniversario di Mehdia; a Genova, in compenso - leggiamo nel Giustiniani - fu ordinato «che si portasse ogni anno ai sei agosto per li rettori della città e per il popolo un pallio di broccato d'oro con l'offerta di cera alla chiesa di San Sisto». Fu quello lo scontro navale più importante del Medio Evo; ma anche, come scrisse Gavotti, il «modello di battaglia differente da ogni altro precedente (. . .) il cui esito era dovuto non piu' alla sola esplicazione di maggior resistenza o alla superiorità del numero e delle armi, ma anche e più ancora al genio tattico del capitano».
Dunque fu la battaglia della Meloria il punto decisivo a favore dei genovesi nella guerra con Pisa, anche se ancora per molti anni si continuò a guerreggiare nelle acque del Mediterraneo. La pace venne firmata nel 1288, con condizioni durissime per Pisa. La città toscana doveva rinunciare alla Corsica, ai possedimenti in Sardegna, alla colonia di San Giovanni d'Acri e inoltre dovevano versare un'indennità enorme per la quale venne ceduta in garanzia l'isola d'Elba. I pisani però non tennero fede agli impegni presi e decretarono la loro fine obbligando i genovesi ad attaccare la loro città nel 1290. I genovesi via mare arrivarono a Porto Pisano, mentre i loro alleati lucchesi arrivavano via terra: per Pisa fu una tragedia. L'ultimo capitolo della storia di una gloriosa repubblica marinara.
Dopo la schiacciante vittoria contro Pisa, rimaneva solo Venezia a contrastare la potenza genovese nel Mediterraneo. Per il mondo occidentale erano molto importanti i traffici verso il Mar Nero, la Persia, il Turkestan, la Cina: il leggendario Catai.
Tra Genova e Venezia esisteva una vecchia tregua stipulata nel 1270, ma a partire dal 1291 i rapporti tra le due città marinare cominciarono a non essere più molto buoni. Le ostilità cominciarono comunque due anni dopo, quando sette navi di mercanti genovesi si scontrarono con quattro galee veneziane. Immediatamente da Genova partirono degli ambasciatori per risolvere per vie diplomatiche la questione, ma non fu possibile trovare un accordo e, di conseguenza, cominciò il conflitto.
Iniziarono così le corse agli armamenti e le battaglie navali continuarono a ritmo frenetico. Come già era accaduto con Pisa, le vittorie e le ripicche tra l'una e l'altra fazione, vedevano vincitori e vinti divisi equamente.
Una tappa fondamentale nella guerra contro Venezia è sicuramente la battaglia di Curzola. Questo è il racconto di Michelangelo Dolcino:
"L'urto decisivo si ebbe nel settembre del '98. Nuovo Ammiraglio genovese era Lamba Doria, che sostituiva come Capitano del Popolo il nipote Corrado, andato in Sicilia a guidare la flotta di Federico contro quella di Ruggero di Lauria. Settantotto galee lasciarono il porto nella seconda metà di agosto. Costeggiarono dapprima l'Epiro, poi risalirono l'Adriatico, infestando le coste dalmate: presso Curzola incontrarono le novantotto galee di Andrea Dandolo. Il Doria temporeggiò, per studiare lo schieramento del nemico e il gioco dei venti, tanto che da parte avversaria si pensò a paura, ma alla fine affrontò la battaglia. Era l'alba dell'8 settembre 1298. Lamba si portò dapprima molto vicino alla costa: in tal modo non doveva temere d'essere circondato, ma anche - profittando del vento spirante da terra - potè piombare sui Veneziani. La linea arcuata di questi fu infranta e le navi nostre che avevano operato lo sfondamento, invertita prontamente la rotta, presero in mezzo la parte centrale dello schieramento già scompaginato. Infine l'Ammiraglio genovese scagliò nella lotta quindici galee tenute in disparte sino a quel momento - e ciò ricorda lo stratagemma della Meloria - forse allontanate sin dalla sera precedente. La sconfitta dei Veneziani era disastrosa, per quanto avessero combattuto ai limiti del sublime, come del resto i nostri. «Un figlio dell'ammiraglio genovese venne ucciso mentre valorosamente pugnava, e il padre, quale un romano antico, baciato il cadavere della sua creatura, lo lanciava in mare: perchè quel corpo ingombrava il ponte, e peraltro nessun'altra sepoltura poteva essere più degna. Tra i prigionieri fatti dai Genovesi era lo stesso Ammiraglio vinto: «Andrea Dandolo, non potendo reggere alla vergogna di tale disfatta, battendo del capo contro l'albero della galera che lo conduceva prigioniero, si uccise». I due brani citati sono del Donaver, incline a riprendere tutto ciò che è drammatico ed edificante. In realtà, il primo episodio è definito «affatto insussistente» dal Vitale, mentre per la morte del Dandolo numerose sono le versioni: più probabile che cadesse nella battaglia stessa. Il rovescio veneziano fu veramente di proporzioni maiuscole; ottantaquattro navi perdute, delle quali diciotto condotte a Genova; settemila i caduti - per altri novemila - cui si devono aggiungere i settemilacinquecento prigionieri. «Dei Genovesi non si danno cifre - scrive De Negri - ma si parla di un numero anche maggiore di vittime in una battaglia che ebbe alterne vicende e fu combattuta fino allo stremo». . . La vittoria permetteva comunque a Genova di raggiungere l'apogeo della potenza: «la più ricca e ridottata città - affermava il fiorentino Giovanni Villani- che fosse nelle terre sì dei cristiani che dei saraceni». Tra i prigionieri che avevano raggiunto quelli pisani ancora presenti, uno ve n'era di particolare importanza: messer Marco Polo, autore del celebre "Il Milione", prima diffusa descrizione dell'Asia e delle civiltà dell'Estremo Oriente."
Dopo la vittoria di Curzola a Lamba Doria venne donato un palazzo in San Matteo, mentre Venezia, a differenza di quello che aveva fatto Pisa, riprese ad armarsi diventando ancora più agguerrita, visto che era riuscita anche ad allearsi con i guelfi genovesi insediatisi a Monaco. Ci volle l'intervento di Bonifacio VIII per imporre la pace, che venne firmata a Milano nel Maggio del 1299.
La pace con Venezia non servì molto ai genovesi, visto che le lotte interne divennero sempre più accese.
Come tutte le grandi città europee dell'epoca, anche Genova aveva le sue belle gatte da pelare a causa delle continue lotte tra le celebri fazioni politiche di quel tempo: i Guelfi e i Ghibellini.
Ma chi erano i Guelfi e chi i Ghibellini? Ecco come ce li descrive Vittorio Giunciuglio nel suo libro "Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo": "Generalmente, abbiamo una idea vaga su questa tremenda lotta, durata secoli tra papato ed impero, che portò tante guerre e tanti lutti in Europa, senza che ce ne siamo resi del tutto conto. Per capire come veramente si svolsero i fatti, cominciamo dall'inizio. I due termini nacquero in Germania, dopo la morte di Enrico V, imperatore del Sacro Romano Impero, avvenuta nell 1125. Scoppiò una furibonda lotta per la successione, tra il legittimo Corrado II Duca di Svevia (attuale Baviera) con castello a Wibelingen (Ghibellino) ed Enrico, Duca di Sassonia, con castello a Welf (Guelfo), il quale era appoggiato dalla Chiesa. Si formarono così due partiti politici, trasferitisi poi anche in Italia: il partito guelfo favorevole al papato e quello ghibellino all'imperatore, con i due duchi come primi leader. In seguito, a ordire le trame occulte nei secoli furono: il cancelliere della Chiesa (oggi Segretario di Stato) per il papato e l'arcivescovo di Magonza o di Colonia per l'imperatore."
Quindi ci è facile capire che i Guelfi erano vicini al Papato, cioè favorevoli al potere della Chiesa nel governo delle città stato, mentre i Ghibellini erano sostenitori della causa imperiale. A Genova le maggiori famiglie erano ghibelline (Doria, Spinola, De Mari, Centurione, ecc.), mentre quelle guelfe, pur in numero minore, non erano meno combattive (Fieschi, Grimaldi, Fregoso, ecc.).
Durante uno dei vari attacchi compiuti in San Matteo dai Guelfi, il palazzo ritratto qui a fianco, donato a Lamba Doria dopo la vittoria di Curzola, fu preso a sassate e fortemente danneggiato.
Ma questo fu solo uno degli innumerevoli episodi accaduti in quegli anni. Più celebre è quello avvenuto il 18 Giugno 1318, che rischiò di distruggere quello che ancor oggi è il simbolo della città di Genova: la Lanterna.
Alcuni guelfi si erano asseragliati all'interno dell'alto faro e da lì colpivano i nemici ghibellini che li assediavano. Erano già due mesi che la situazione non si sbloccava, allora i ghibellini presero una drastica decisione: «fecero sotto di lei, dalla parte di occidente e infrangendo la roccia, certe escavazioni e fosse mirabili». Erano risoluti, insomma, a far crollare tutto quanto. I difensori capirono che la resistenza diventava impossibile: era il 18 giugno quando, avuta garanzia d'incolumità, lasciarono la Lanterna e raggiunsero la città; ma i loro guai maggiori cominciarono proprio allora. «Essi, ch 'erano stati i custodi della Torre, furono presi e, condotti di poi ai capitani, al podestà e all'abate del popolo, furono messi al più duro ed aspro tormento, e da molte voci si gridava: «Muoiano! Muoiano!», che li credevano traditori. Onde per giudizio del medesimo podestà sette in numero, com 'erano, morirono (forse per aver confessato il contrario del vero nella massima tortura del cavalletto) della seguente morte. Quattro di loro furono gittati come pietre dalla macchina che in lingua volgare dicesi il trabocco, e ch 'era postata in San Tommaso; i tre altri parimente scagliati dall'altra macchina che si teneva in Santo Stefano»
Come possiamo vedere, in quel tempo, le lotte politiche erano ancora più aspre di quelle attuali e, invece di fare tanti discorsi, si preferivano i fatti. Purtroppo il fatto più abituale e scontato era la morte degli avversari.
Una delle famiglie guelfe più fortunate fu quella dei Grimaldi che per sfuggire all'ira dei ghibellini si rifugiò sulla rocca di Monaco. Da lì nacque uno dei principati più ricchi del mondo, ancor oggi feudo della famiglia Grimaldi. Quindi oltre alla morte e alla distruzione c'era anche chi trovava la buona sorte.


GENOVA TRA L’ANNO 1300 ED IL 1400: LE GUERRE CON VENEZIA


Dopo Curzola, le scaramucce in mare tra genovesi e veneziani non erano mai cessate, anche perchè gli interessi economici che le due Repubbliche avevano nel Mediterraneo erano enormi e nessuna delle due voleva cedere lo scettro del potere all'altra.
Iniziamo la storia dell'ultimo conflitto nel periodo del dogato di Nicolò Guarco, succeduto ad Antoniotto Adorno (uno dei celebri Dogi durati un solo giorno). Il Guarco nominò Luciano Doria Ammiraglio e questi con una flotta composta da ventidue galee fece rotta verso l'Adriatico. Dopo aver passato l'inverno ad osservare il nemico, rischiando di far morire di fame gli equipaggi, con l'arrivo della buona stagione il Doria dispose la sua flotta di fronte a Pola, come ad invitare gli avversari ad uscire in mare aperto. Poi, con la solita tecnica già usata alla Meloria e a Curzola, nascose alcune navi dietro il promontorio della città istriana, mentre le altre prendevano il largo come per sfuggire all'avversario. Il comandante veneziano, Vettor Pisani, cadde nel tranello mandando le sue galee all'inseguimento di quelle genovesi. Quando i legni veneziani si trovarono in mare aperto le navi genovesi fecero dietro-front e quelle nascoste si posero dietro alla flotta veneziana. Fu uno scontro terrificante con perdite da entrambe le parti, ma la vittoria fu degli astuti genovesi.
«E' la vittoria di Luciano Doria. - scrisse Pescio - L'ammiraglio, all'arrembaggio, vibra con la scure rossa gli ultimi colpi tremendi. Delle navi veneziane, unica, resiste ancora quella di Donato Zeno, che ha per anima il dolore e il valore di Vettor Pisani. E' questa superba, che vuole vinta, il Genovese! Con la sua nave l'abborda, l'investe, la tempesta di colpi, rovinandola, insanguinandola tutta. Oramai non potra più resistere. Con trepida mano, l'eroe alza la visiera e mostra alla sua gente il maschio viso trasfigurato. - San Zorzo! Vittoria! Vittoria!. . . - Un nuovo grido si spegne gorgogliando nel sangue. Luciano Doria cade colla bocca squarciata. Una spada brilla di gioia e va sollecita a cercargli il cuore: la spada di Donato Zeno!"
L'eco della vittoria giunse a Genova pochi giorni dopo; purtroppo la gioia fu affievolita dalla notizia della morte del valoroso ammiraglio.
La flotta fu affidata a Pietro Doria che riuscì a vincere altre battaglie contro i veneziani, ma la fase favorevole ai genovesi stava per concludersi. Il naviglio genovese era ormai da tempo stabile nelle acque prospicienti Venezia, avendo conquistato Chioggia, ma questo a lungo andare invece di essere un vantaggio si dimostrò uno svantaggio, tanto da far divenire i genovesi da assedianti ad assediati. Infatti a Chioggia le navi liguri si videro strette nella morsa della flotta veneziana. Lo stesso Ammiraglio Pietro Doria vi trovò la morte colpito da una palla lanciata da una bocca da fuoco, una delle prime utilizzate in Italia. L'assedio durò più di sei mesi e provoco altissime perdite: i genovesi nascosti a Chioggia chiesero di scendere a patti con i veneziani, che accettarono esigendo però la resa incondizionata dei quattromila genovesi, che finirono prigionieri.
I veneziani cacciarono tutte le navi liguri dall'Adriatico, spingendosi anche nel Mar Tirreno per far capire la loro forza. Dopo tanti anni la pace fu firmata il 23 Agosto 1380.
Ecco cosa dice il Vitale: "Genova esce dalla grande prova senza danno immediato, ma agisce contro il suo stesso interesse. La minacciosa avanzata dei Turchi, infatti, mette in pericolo non soltanto l'Impero Bizantino, ridotto a ben poca cosa, ma anche le colonie: invano qualche spirito piu' accorto avverte che è pericolosa illusione fidarsi dei momentanei accordi con l'invasore, e che il vero interesse della Genova d'oltre mare è nell'esistenza e nella prosperità dell'Impero di Costantinopoli"
E questa è invece la testimonianza di De Negri: "Comunque, la lotta per la supremazia mediterranea tra Genova e Venezia non doveva più rinnovarsi: non perchè le due contendenti siano capaci di una generosa rinuncia, ma perchè verrà meno l'oggetto stesso della contesa (. . .) Col che non saranno peraltro finite le due Repubbliche rimaste sulla breccia; perchè Venezia avrà allora già incominciato la sua nuova missione di potenza territoriale italiana (. . .); mentre Genova cui, per ragioni geo-topografiche che già conosciamo, è preclusa la possibilità di costituirsi un dominio di terra ferma più profondo e più solido, (. . .) guarderà l'Occidente con le sue tradizionali e solide energie mercantili e marinare, non meno intensificando e rinnovando la sua penetrazione economica-finanziaria nel cuore stesso delle grandi potenze dell'Occidente europeo".

UN GIUSTINIANI CONTRO GENOVA DURANTE LA GUERRA DI CHIOGGIA TRA LE DUE REPUBBLICHE (1378-1381) ((Quando sei galee veneziane affondarono nel Golfo di Manfredonia di Maria Teresa Valente

La posizione strategica di Manfredonia ha reso il nostro golfo per millenni un importante punto di arrivo e di partenza. Qui giunsero i Dauni per poi colonizzare la Capitanata, qui approdò Diomede, qui arrivarono i romani e nei secoli fu un approdo di fondamentale importanza per re, regine, principi, duchi, contesse, imperatori e persino papi. Ma il golfo di Manfredonia fu anche teatro di innumerevoli battaglie.
Nel Trecento la nostra città, importante scalo per il commercio del frumento, divenne protagonista (suo malgrado) della guerra di Chioggia tra le repubbliche marinare di Genova e di Venezia che ebbe luogo tra il 1378 ed il 1381. I genovesi nel 1380 avevano conquistato numerose isole della laguna veneziana, oltre a Chioggia, e minacciavano la stessa Venezia. Il valoroso ammiraglio Vettor Pisani era stato fatto arrestare per ‘incuria’ dallo stesso doge, e il governo veneziano, che si trovava in una fase disperata e delicata, nominò Taddeo Giustiniani a capo della flotta.
Ecco dunque, per una serie di vicissitudini, mosse tattiche, tempeste e fughe, che il Giustiniani giunse a Manfredonia con sei galee. Qui scoprì di avere alle ‘calcagna’ ben venti galee genovesi. L’ammiraglio veneziano “non potendo tentare un combattimento tanto dispari, affondò le sue galee, fece scaricare i bastimenti da trasporto, mise gli equipaggi a terra dietro a ripari costrutti all’infretta. Ma il nemico gli espugnò: Giustiniani fu preso, e i veneziani avanzati alla pugna dovevano attraversare per terra tutta l’Italia per riguadagnare il loro paese”.
Dunque, scaricata la merce (il frumento) e messo al riparo l’equipaggio, pur di non far cadere le navi in mano ai nemici, Taddeo Giustiniani decise di affondare le sei navi proprio dinanzi a Manfredonia. E poi da qui con la sua ‘ciurma’ tornò via terra a Venezia. Una curiosità: liberato dal carcere a furor di popolo (cosa mai successa prima), l’ammiraglio Vettor Pisani si rimise a capo della flotta veneziana e conseguì importantissime vittorie, ma giunto a Manfredonia fu colpito dalla malaria e qui morì il 13 agosto del 1380.
Intanto, le sei galee veneziane del Trecento si adagiarono sul fondale di Manfredonia. Probabilmente oggi ne sarà rimasto ben poco, ma scoprire cosa nasconde il nostro golfo potrebbe riservare sorprese. E chissà che la Soprintendenza non decida prima o poi di ‘sfogliare’ anche le pagine di storia conservate tra le nostre spumeggianti onde…

Dopo la morte di Vittor Pisani a Manfredonia il 13 agosto del 1380, la guerra tra Genova e Venezia sarebbe continuata ancora per alcuni mesi. Certo, dopo la straordinaria riconquista di Chioggia da parte dei veneziani, il conflitto aveva preso tutt’altra piega. Genova era stata inaspettatamente scon­fitta dopo aver avuto fra le mani la possibilità di attaccare e sicuramente conquistare Venezia.
La sensazione di essersi fatti scappare una vittoria tanto facile quanto cla­morosa, doveva aver reso ancor più umiliante e frustran­te la sconfitta con la resa incondizionata al nemico. E così i genovesi arrivarono sì a Venezia, ma non certo per met­tere le briglie ai cavalli bronzei di S.Marco! Caricati su ciò che restava delle loro galee, i 4.500 genovesi poteva­no infatti ammirare la favolosa magnificenza di Venezia come prigionieri esibiti quali trofei lungo il Canal Grande.
Ad attenderli, terminata l’umiliante sfilata, c’erano le car­ceri veneziane dove alla fine vennero infatti rinchiusi. Fu in occasione di quella circostanza che si verificò, a detta di molti storici per lo più veneziani, un fatto riguardevole e degno di nota. Ancora una volta le protagoniste furono le donne veneziane che vedendo sfilare i malconci ed abbat­tuti prigionieri genovesi – i sei mesi di duro assedio dove­vano aver segnato drammaticamente i corpi di quegli uomini –, accorsero ad aiutarli e ad assisterli durante tutta la prigionia malgrado la dura guerra che li aveva visti contrapporsi ferocemente alla loro patria. Una guer­ra che dopo la presa di Chioggia si trascinava sempre più stancamente fra le due repubbliche ormai stremate, in una serie di isolati ed insignificanti scontri.
Carlo Zeno, rimasto solo al comando generale della flotta veneziana, continuava imperterrito le sue ope­razioni militari contro le navi genovesi dall’Adriatico fino giù nel Peloponneso e da qui fino allo stesso golfo di Genova senza tuttavia ottenere particolari o considerevoli vittorie. Dopo quasi due anni di guerra, effettivamente, tanto Genova quanto Venezia avevano un estremo biso­gno di pace per potersi dedicare nuovamente alle normali attività e risollevare le rispettive città dal baratro econo­mico e finanziario in cui la lunga guerra le aveva inevita­bilmente sospinte.
E così l’intermediazione fra le due repubbliche rivali del principe Amedeo di Savoia, detto il Conte Verde, venne prontamente accettata dai due governi. La pace venne presto conclusa a Torino nel 1381 e vi parteciparono non solo i rappresentanti di Genova e Venezia, ma anche quelli di tutti gli altri Stati che in qualche modo nel conflitto vi erano entrati: l’Ungheria, Padova, Aquileia.
Le condizioni sancite dal trattato, tut­tavia, non si dimostrarono affatto particolarmente favo­revoli per Venezia. La Serenissima, del resto, malgrado la vittoria di Chioggia era con Genova una della due parti in causa che aveva mantenuto vivo il conflitto, sep­pur per difesa il governo veneziano con una decisione assai astuta cercò di prevenire gli avvenimenti mettendo le mani avanti cedendo Treviso ed il suo territorio al duca Leopoldo d’Austria e questo per non correre il rischio in occasione delle trattative di pace di vedere quei territori affidati all’odiatissimo Francesco da Carrara. In fondo, in quel momento, i dominii sulla terraferma erano per i veneziani più un peso che un vantaggio.
Venezia infatti, tornava a guardare con maggior interesse al mare da dove in fondo era venuto ancora una volta il pericolo maggiore. E così il governo veneziano preferì spendersi per recuperare tutti i punti strategici della laguna, anche se si vide costretto a cedere la Dalmazia e l’isola di Tenedo, la remota causa della guerra con Genova, che venne ceduta ad Amedeo di Savoia.
La Dalmazia invece, veniva assegnata inaspettatamente al re d’Ungheria. Quest’ultimo, con il duca d’Austria, si stava rivelando il vero vincitore della situazione, per lo meno dal punto di vista delle acquisizioni territoriali, dal momento che entrambi ottenevano i territori per i quali avevano accet­tato di combattere contro Venezia. Quanto a Genova e a Venezia, per l’appunto, il trattato di Torino non conferiva loro un bel niente, confermandole sostanzialmente nella medesima situazione in cui si trovavano prima della guerra e forse, almeno per Venezia, con qualcosa di meno. Come se non bastasse si stabilì che le due repub­bliche avrebbero continuato l’attività commerciale nel Mediterraneo fianco a fianco.
Tutto dunque, doveva rientrare. Conclusa così la pace anche i prigionieri genovesi potevano finalmente fare ritorno a casa. A tornare erano uomini stanchi e provati dalla durezza del carcere, appena alleggerita dalla generosa assistenza delle donne veneziane che provvidero ora, al momento del rilascio, a fornire ai genovesi il denaro indi­spensabile per comprarsi dei vestiti e per potersi pagare il viaggio di ritorno. La guerra era veramente finita.
Per Venezia si apriva, malgrado le sfavorevoli condizioni del trattato di pace, un periodo di rapida e straordinaria ripresa economica che nel giro di pochi anni si sarebbe tradotto in conquiste territoriali in quel momento ancora inimmagina­bili. Per Genova, al contrario, la guerra di Chioggia rappre­sentò l’ultima possibilità per affermarsi come unica potenza marittima italiana al posto dell’eterna rivale. E così, per la repubblica ligure, che non riuscì a risollevarsi dalla pesante crisi economica provocata dalla guerra, iniziava un lento, triste declino che l’avrebbe portata ad essere facile preda di diverse bandiere, da quella francese a quella dei Visconti. Genova, dopo due secoli, aveva veramente cessato di rap­presentare per Venezia un pericoloso, temibile avversario.


Come abbiamo già avuto modo di vedere, i "capellazzi", cioè i nuovi signori della città, borghesi che avevano preso il posto delle famiglie aristocratiche nella conduzione del dogato, erano continuamente in lotta tra loro per prendere il potere. Tutto questo, naturalmente, andava a discapito di una stabilità politica che permettesse a Genova di mantenere quella indipendenza dagli stati sovrani che aveva conquistato fino dai tempi di Federico I di Svevia e delle prime Crociate.
Accadde, quindi, che, nel 1395, a causa delle diatribe tra le famiglie Montaldo e Adorno ci fu la prima vera interferenza straniera su Genova, che aveva sempre avuto uno stato sovrano alle spalle, senza mai diventarne succube. Dicevamo, comunque, che queste due famiglie si rivolsero agli stranieri per risolvere i loro giochi di potere: i Montaldo chiesero aiuto ai Signori di Milano, mentre gli Adorno si rivolsero alla Francia. "Sarebbe però errato - come ha scritto De Negri - voler ridurre il fatto del primo reale asservimento di Genova a una potenza straniera al gesto inconsulto di un infido «tiranno» (. .) L'accidens del dominio francese, anzichè sabaudo o visconteo o di chicchessia, come vedremo, è il frutto delle circostanze contingenti (. . .) A lui spetta il merito, o il demerito, di una scelta tra i pretendenti - che sono già alle porte al «protettorato» della Repubblica". Comunque se la colpa dell'avvento francese non fu dell'Adorno che li chiamò in aiuto, si sa, di certo, che il 4 Novembre 1396 veniva firmato un trattato nel quale veniva garantita a Genova l'integrità territoriale, il precedente ordine costituzionale, la libertà religiosa ed altri piccoli diritti, ma, di fatto, accadeva una cosa terribile per il popolo genovese: lo stendardo di Francia veniva issato su Palazzo Ducale.
Il 18 Marzo 1397 arrivava il prima vero Governatore francese: Vallerano di Lussemburgo, Conte di Saint Pol (nell'immagine qui a fianco), che rinunciò ben presto alla carica per paura della peste. Gli successero i suoi luogotenenti che, però, non riuscirono a riportare l'ordine tra i genovesi. Le lotte tra guelfi e ghibellini e tra nobili e "capellazzi" non volevano acquietarsi ed ogni giorno i ciotoli dei vicoli erano insudiciati dal sangue dei duellanti. Ma sul finire del 1401, giunse in città il nuovo Governatore Jean Le Mangre Boucicault, chiamato subito dai genovesi "Bucicaldo". Si dimostrò subito capace ed energico, ma vediamo come racconta la sua storia Michelangelo Dolcino: "Maresciallo di Francia, gran Conestabile dell'Impero d'Oriente, fu detto l'ultimo dei grandi paladini medievali. S'era distinto nella difesa di Costantinopoli dai Turchi, ma prima ancora combattendo nella Prussia Orientale i Tartari di Russia, e da protagonista aveva vissuto il dramma di Nicopoli, dove con tanti altri signori era finito prigioniero degli Infedeli. Riscattato, interpretò in buona misura la successiva spedizione in difesa di Costantinopoli - otto galee genovesi, in nome del trattato coi Francesi, e altrettante veneziane, a fianco della flotta d'Oltralpe - come una vendetta personale alle vicissitudini patite. Per una serie di circostanze non si ebbero i grandiosi effetti sperati, ma egli considerò soltanto rimandata la partita, mai rinunciando al sogno suggestivo. «Il governo di Genova - leggiamo nel Vitale - non doveva essere fine a se stesso, ma strumento per fornirgli le navi e i mezzi nella vagheggiata impresa orientale. Ma questo non era possibile finchè durasse il turbolento disordine interno. Di qui la ferma severità del suo governo». .
Giunto con mille uomini - contro i venti del suo predecessore - presto condannò a morte Battista Boccanegra e Battista Luxardo De Franchi, accusati d'usurpazione di potere. Il primo non ebbe questa volta fortuna, e venne pubblicamente decapitato all'una di notte: non meno esterrefatto della moltitudine presente, lui che all'arrivo del Governatore gli si era fatto incontro deferentemente. Gli spettatori urlarono, ondeggiarono, e ciò fu provvidenziale pel De Franchi, che profittando del momentaneo smarrimento si diede alla fuga; un po' meno, invece, pel responsabile della sorveglianza, ucciso per ordine dell'irritato Bucicaldo. Le esecuzioni, del resto, dovevano farsi frequenti. Come per incanto le fazioni si ridussero al silenzio, e il Governatore proseguì la sua opera. I parlamenti vennero proibiti, nè consentita la scelta di Vicari, Gonfalonieri Conestabili fra i Popolari; le Arti dovevano fare a meno dei loro Consoli, e giacchè li elessero egualmente, questi ultimi finirono in gattabuia. Ad amministrare la giustizia era chiamato un Podestà dalla Francia, mentre ai cittadini veniva vietato il possesso di armi e la celebrazione di feste intese a ricordare le passate affermazioni della Repubblica. Si provvedeva intanto alla costruzione di due torri in Darsena e al rafforzamento del Castelletto; e tutto questo, e altro ancora, Le Maingre deliberò in nome del Re e non del popolo genovese, mentre i figli di Francia soppiantavano ovunque le insegne rossocrociate. Eppure sembra che ad un anno dal suo arrivo inviati genovesi in Francia chiedessero la sua riconferma, e che allo stipendio dei precedenti Governatori, di lire 8.625, volontariamente se ne aggiungessero altre 10.000. Lati positivi, senza dubbio, possiamo riconoscergli. Così, oltre alla pace interna ottenuta con tanto vigore, vanno ricordate le leggi che portano il suo nome: non provvedimenti personali - già nel marzo dell'anno 1400 una commissione era stata incaricata della raccolta - «ma resi possibili - notò ancora il Vitale - dal periodo di relativa tranquillità che egli aveva rappresentato». In vigore dal 7 ottobre 1404, «costituirono la piu' ampia raccolta che Genova abbia avuto, comprendente in sette libri tutta la materia civile, criminale, economica, di polizia, nonchè la legislazione sulle arti».
Quindi si può, senza dubbio, affermare che il "Bucicaldo" fu un buon Governatore (tra l'altro portò a Genova Papa Benedetto XIII) consolidando anche l'economia genovese, ma le trame di potere non volevano concludersi e, nel 1409, dopo lo scontro con Teodoro del Monferrato, fu costretto a ritirarsi nel castello di Gavi e da lì raggiungere la Francia. Ma il Bucicaldo non era uomo da vivere una comoda pensione. Riprese a guerreggiare, finendo catturato nel 1415 ad Agincourt, morì in prigionia sei anni dopo.


l'isola di Chios
Veduta dell'isola di Chios del XIV - XV secolo


LE PRIME COLONIE GENOVESI D’OLTREMARE


Come già accennato nei precedenti paragrafi, la strategia coloniale genovese non prevede l'occupazione militare di ampi territori ma mira ad ottenere in concessione alcuni quartieri delle città commercialmente e strategicamente più importanti. La dottrina genovese del colonialismo di basso impatto viene dettata dalle mire strettamente economiche delle famiglie genovesi e dall'impossibilità di proteggere costantemente ampie aree con le ridotte risorse militari.
Le prime colonie derivano dall'impegno in appoggio alle crociate. Le prime concessioni vengono ottenute nelle città di: Gerusalemme, Giaffa, Arsuf, Cesarea, Beyrouth, Loadicea, Acri (1/3 dei proventi del porto), Tripoli (1/3 della città) e Gibelletto ("feudo" degli Embriaci dal 1109 al 1291).
Le crociate mutano i rapporti internazionali tra Costantinopoli e le nazioni cristiane. Naturalmente le spedizioni volte a liberare la Terra Santa vengono viste di buon occhio allontanando la minaccia islamica ma, la nascita di nuovi Regni Crociati ai confini dell'impero porta a privilegiare i rapporti con le Repubbliche Marinare.
Nel 1155 Emanuele Comneno concede un fondaco in Costantinopoli ed alcuni privilegi economici ai genovesi. I privilegi già nel 1156 non vengono mantenuti, Genova nel 1157 e nel 1160 sollecita il rispetto dei patti. Finalmente nel 1162 i privilegi vengono ripristinati e 300 genovesi possono insediarsi nel quartiere di S. Croce. La colonia continua a crescere e nel 1170 incorpora uno scalo ed un fondaco a "Coparia". Nel 1186 il tentativo di riprendere i rapporti interrotti tra Costantinopoli e Genova fallisce.
Solo nell'aprile del 1192 si riesce a raggiungere un accordo con la conferma dei fondaci concessi. Mentre la comunità genovese "marcia" verso la supremazia commerciale a Costantinopoli, le attività corsare di alcuni elementi genovesi causano a tutti il ritiro dei privilegi. Le concessioni vengono nuovamente ottenute probabilmente dopo il pagamento dei danni causati dai pirati.
Nel 1201 il Regno d'Armenia concede alcuni privilegi e molti quartieri ai mercanti genovesi. Già nel 1215 le concessioni vengono notevolmente incrementate.
Nel 1202 Innocenzo III organizza una crociata ma, i veneziani ne distorcono lo spirito e gli obiettivi per motivi esclusivamente politico-economici (interessi economici veneziani e politici di Isacco Angelo). La crociata parte da Venezia sotto la guida del Doge Enrico Dandolo, in otto giorni viene occupata Costantinopoli ed insediato come imperatore Baldovino di Fiandra. Venezia ottiene 1/4 dei territori di tutto l'impero.
L'isola di Candia (Creta) rientra tra i territori assegnati a Venezia nonostante dal 1208 fosse del Conte di Malta Enrico Pescatore di origine genovese. Genova non nega l'appoggio ad Enrico Pescatore e decide la fornitura di uomini, navi e denari. La risposta veneziana consiste nell'invio di una flotta comandata da Ranieri Dandolo. La spedizione si risolve in un insuccesso, la sconfitta viene aggravata dalla cattura del comandante che muore prigioniero.
Nel 1210 Enrico Pescatore giunto a Genova chiede nuovamente aiuto alla Repubblica che si propone come mediatrice con Venezia. La via diplomatica viene scartata dai veneziani costringendo Genova ad appoggiare nuovamente e militarmente il "Conte". Viene approntato un contingente di 8 galee, 1 galeazza (?), 3 navi, 100 cavalli, denaro, armi varie e rifornimenti alimentari.
Venezia considera l'iniziativa come un atto di guerra diretto e questa volta riesce a catturare presso Corfù Leone Vetrano al comando della flottiglia genovese presso Candia. Alla cattura segue l'impiccagione. Solo nel 1212 Lanfranco Rosso e Oberto Spinola, recatisi a Venezia, riescono a ricomporre i dissidi tra le due repubbliche pattuendo una pace triennale.

LINEE GUIDA DELLA STORIA GENOVESE 1339-1528



cicladi
La tavola dedicata alle Cicladi, nell' Atlas Maior di Jan Blaeu


GENOVA TRA L’ANNO 1400 ED IL 1500: ANDREA DORIA


Riprendiamo le vicende della città dal ‘400, che vide l’avvicendarsi di numerosi governi, più o meno efficacemente solleciti della quiete interna, e protetti vicendevolmente dai Francesi o dagli Spagnoli.
Si arriva con questo scenario, alla crisi del 1506-7 provocata dalle fazioni popolari cresciute nell’ultimo secolo decisa a trasformare nelle istituzioni il maggior peso che era venuta acquistando nella società. All’interno del popolo si era consolidata l’antica distinzione tra il corpo dei mercanti e quello degli artigiani, il primo costituito dalle maggiori famiglie della fazione: i Giustiniani, i Fornari, i Sauli, i Franchi e gli Adorno. Contro l’uso tradizionale, che attribuiva metà delle magistrature e degli uffici pubblici alla nobiltà e metà al popolo, i popolari rivendicarono un’uguale distribuzione delle cariche tra nobili, mercanti e artigiani.

Il Mediterraneo nel XV secolo

Come abbiamo accennato nel capitolo precedente, Genova aveva alla fine del XVI secolo molti pretendenti. Le potenze, sia italiane che straniere, avevano capito quanto fosse importante quel porto posto nella zona centrale del Mediterraneo e già pronto per i commerci verso l'Atlantico e con navi e ammiragli abili nelle battaglie.
Dopo un iniziale successo dell’iniziativa e la fuori uscita delle autorità Francesi di Luigi XII fiancheggiatrici dell’attuale governo di Gian Luigi Fieschi, si giunse ad un compromesso pacificatore.
Il colpo definitivo lo diede Luigi XII, nel 1502, accolto in città in maniera solenne. Ma, i genovesi non riuscivano a subire passivamente l'invadente dominio francese e l'elezione a Doge del tintore Paolo da Novi il 10 Aprile 1507, diede la scintilla alla rivolta. Purtroppo le cose non andarono troppo bene e a farne le spese fu proprio il "Doge plebeo". Ecco gli avvenimenti raccontati da Michelangelo Dolcino:
"Le forche e le mannaie tornarono a mostrare la loro macabra ombra, numerosissimi furono gli arresti, le violenze. Quanto al Doge, riparò in tempo a Pisa, dove contava numerose amicizie. Di qui sperava di portarsi a Roma presso Giulio II, il Pontefice ligure tanto ostile ai Francesi, e per questo s'imbarcò sul brigantino del camogliese Corsetto - o Corzetto - che aveva militato sotto di lui; ma questi per gli 800 ducati della taglia lo consegnò al Pregent. L'11 giugno Paolo ritornava quindi a Genova, in catene, e dopo quindici giorni di detenzione in Castelletto fu condotto in vesti cenciose sulla Piazza di Palazzo Ducale, per l'esecuzione. Il suo corpo sarebbe stato diviso in quattro parti, da esporre nei diversi quartieri cittadini; la testa doveva finire a sommo della Torre di Palazzo. Chiese perdono a chi avesse offeso e invitò a pregare per lui; incitò i popolani a non disunirsi, e anche a non fidarsi troppo dei nobili e dei "Cappellazzi". Le ultime parole furono però per il Mastro di Giustizia: un invito a sbrigarsi. Poi s'inginocchiò, mise il capo sul ceppo e tutto finì. Era il 15 giugno 1507. Le aspirazioni delle Cappette s'erano veramente dissolte, e definitivamente chiusa la loro rivoluzione."
Dopo l'esecuzione di Paolo da Novi, i francesi pensarono bene di rivolgere le loro attenzioni alla sicurezza del loro dominio, rafforzando il Castelletto e il Castellaccio, ma, soprattutto, costruendo la celebre "Briglia", che nelle intenzioni dei transalpini doveva servire ad imbrigliare le velleità genovesi. Invece la voglia di libertà era più forte della prepotenza francese e la vita degli invasori non era di certo più piacevole di quella dei sottomessi. Ogni occasione era buona per una scaramuccia o per una vera e propria battaglia. Il resoconto, sempre del Dolcino, che leggeremo adesso ci fa conoscere una delle tante dispute e, inoltre, introduce il personaggio del "Principe" Andrea D'Oria.
"Un altro notevole fatto si verificò in quei giorni: il decidere la creazione di una forza navale propriamente della Repubblica, mentre sin allora - e numerosissimi esempi abbiamo incontrato - si aveva fatto appello agli armatori privati. Si diede quindi ordine di impostare due galee sotto la direzione di Andrea D'Oria, rientrato in Genova con Giano; nel relativo atto, in data 6 ottobre 1512, si precisava che Andrea doveva successivamente assumere il comando delle nuove unità: aveva così inizio la sua carriera marinara, e anche il suo interessarsi, non più interrotto, alle vicende cittadine. Intanto un congiunto, Nicolò D'Oria, era posto alla guida della flotta "esterna", allestita secondo i sistemi tradizionali. Arresosi pure il Castellaccio, rimaneva il grosso problema della Briglia, ma invano innumerevoli attacchi vennero portati dalla terra e dal mare. Un'unica speranza rimase agli assedianti: prendere per fame, con un rigidissimo blocco, i francesi e il loro abile comandante, il normanno Guglielmo di Houdetot. Nella seconda decade del marzo 1513, in una notte di mare agitato, un legno si avvicinò alla città, con l'insegna genovese sul picco di maestro.


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Gianandrea Giustiniani Longo Doge dal 4-01-1539/4-01-1541


Si seppe poi che la nave - una "barchia" normanna - era partita da Marsiglia, aveva doppiato Genova al largo, per poi tornare da Levante, a scanso d'ogni sospetto. Lo scafo si diresse al porto, e le unità del blocco gli diedero il passo, ritenendolo connazionale; ma con improvvisa manovra si portò presso la scogliera della Briglia affidandosi alla protezione delle sue bocche da fuoco. Le veglie, l'interminabile guardia potevano d'un tratto essere completamente compromesse. I marinai, gli armati genovesi erano smarriti, e così le autorità, radunate d'urgenza per una decisione, mentre la "barchia" poteva iniziare da un momento all'altro lo scarico dei rifornimenti. A queste si presentò tuttavia un oscuro cittadino, e fortunatamente venne ascoltato. Disse di chiamarsi Emanuele Cavallo, figlio di Pietro Valente - un "cappellazzo", dunque - e d'essere in grado di neutralizzare lo sleale stratagemma francese: occorreva accostare la nave, svellerla dall'approdo e trascinarla lontano dalla Briglia, a impedire i rifornimenti. Il piano non offriva certo garanzie di riuscita, ma in mancanza d'altre proposte si aderì alle richieste del Cavallo: una nave e un pugno d'uomini. Non fu difficile trovare trecento volontari, e tra questi era Andrea D'Oria. Alle prime luci dell'alba una galea si dirigeva a voga serrata contro i Francesi, costretti intanto. per difendersi, a interrompere l'iniziato sbarco di viveri e munizioni. "Si accende un curioso combattimento tra le due navi. - scrisse De Simoni - Ai colpi delle artiglierie scagliati dalle navi nemiche, si aggiunge una fitta pioggia di sassi e di moschettate che partono dalla Briglia. Cadono da una parte e dall'altra morti e feriti. Tra questi ultimi vi è Andrea D'Oria che, colpito violentemente da una scheggia di legno, giace sulla tolda inanimato. Egli non è morto come fu ritenuto a tutta prima, ma come tale giacque a lungo sulla tolda finchè durò il combattimento". In quell'inferno i genovesi riuscirono ad accostare e balzarono all'arrembaggio, in una lotta ancor più sanguinosa. Finalmente Cavallo raggiunse la prua e recise la gomena che teneva fermo lo scafo alla scogliera. Molti francesi lasciarono la nave per trovare salvezza alla Briglia. e con la loro presenza annullarono il beneficio dei pochi viveri sbarcati. Altri rimasero a bordo, ormai passivi nei confronti dei genovesi, che agganciata la preda con certi rampini disperatamente avevano preso a trascinarla. Ad un certo momento il comandante Esclavon si gettò in acqua, col proposito di raggiungere anch'egli la fortezza, ma fu scorto da Benedetto Giustiniani: si tuffò a sua volta, raggiunse l'avversario, l'afferrò saldamente lo portò sino alla nave dei nostri, che conclusero l'azione rimorchiando la "barchia" sino alla spiaggia di Sampierdarena o - secondo altri - alla marina di Sarzano. Trentadue, complessivamente, furono i prigionieri: ventisei vennero condannati al remo, gli altri - certo ricordando il supplizio di Paolo da Novi - impiccati alle finestre di Palazzo Ducale. Nel tempo alcuni autori sottrassero al Cavallo il merito dell'impresa, per attribuirlo principalmente ad Andrea D'Oria; ma a lui fu incontestabilmente restituito. Al proposito va sottolineato, se mai, il comune prodigarsi di nobili e no, come già osservò il Guerrazzi: "giustizia vuole che il Cavallo, popolano, e il D'Oria, patrizio, debbansi giudicare in virtù di questo tutto, egualmente gloriosi".
Come dire che l'aristocrazia e la povera gente lottavano per un unico ideale: la libertà. L'unica ragione che univa qualsiasi essere di qualsiasi estrazione per riportare Genova ad un'indipendenza totale.



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Veduta del porto di Chios


L'unico uomo dell'epoca che poteva realizzare quel sogno era Andrea D'Oria, anche perchè aveva capito che le potenze straniere erano un mezzo utile per raggiungere la libertà. Questa è infatti l'osservazione degli storici Gori e Martini: "Molti esponenti delle famiglie liguri avevano sacrificato Genova allo straniero pur di non perdere il loro potere. Andrea offrì se stesso ad uno straniero purchè fosse restituita a Genova la libertà".
"Se Machiavelli lo avesse conosciuto, forse si sarebbe ispirato ad Andrea Doria quale modello per il suo "Principe"; ma non ebbe il tempo ne il modo, se non una volta sola, e di sfuggita. Più stretti invece i legami del Doria con Guicciardini, anche se fra i due non corse mai buon sangue. Andrea Doria aveva la tempra del corsaro, il fascino del principe, la lucidità dell'uomo di Stato. Nato povero, cadetto di un ramo minore della più illustre famiglia ligure, fu prima capitano di ventura al soldo di padroni diversi, poi - a quarantasei anni - s'improvvisò ammiraglio, per la Francia, per il Papa, per Genova. Conquistò il potere assoluto a sessantun anni e la tenne saldamente fino a novantaquattro, sopravvivendo a guerre, assalti, congiure; la più sanguinosa, quella del Fiesco, ispirò drammaturghi come Schiller e filosofi come Rousseau. La sua alleanza con la Spagna di Carlo V ribaltò gli equilibri politici del Mediterraneo e inserì la Repubblica di Genova nella politica internazionale del tempo, facendo dei banchieri genovesi gli arbitri della finanza europea per quasi due secoli. Soprattutto, deve la sua popolarità alle battaglie ingaggiate contro il pirata Barbarossa, il grande rivale che rispettò sempre, perché gli somigliava. Severo con se stesso e con gli altri, condusse vita austera. Mai gli venne meno il coraggio della ragione: fosse solo per questo, merita d'essere ricordato."
Questa è l'introduzione del bellissimo libro di Paolo Lingua "Andrea Doria - Principe e pirata nell'Italia del '500", che ci fanno capire, in poche parole, quale sia l'importanza storica del personaggio che è riuscito nella sua lunga vita a fare da ago della bilancia nei conflitti delle super potenze nel Mediterraneo, portando (o meglio riportando) Genova alla sua funzione di mediatrice marittima ed economica nell'Europa di quel tempo, garantendo alla sua città quella libertà che aveva perso nel corso dei secoli.
Come forse qualcuno avrà notato, il cognome Doria, viene riportato in alcuni casi come D'Oria. Il cognome con l'apostrofo è quello giusto, cioè si dovrebbe scrivere Andrea D'Oria, ma molti storici, per comodità hanno cominciato a scriverlo senza, creando una discreta confusione.
Andrea D'Oria, nacque ad Oneglia nel 1466, da un ramo debole della grande famiglia aristocratica genovese e, proprio per questo motivo, da giovinetto fu inviato a Roma per diventare "cadetto", agli ordini dello Stato Pontificio. Lì iniziò ad apprendere i primi rudimenti dell'arte bellica che gli sarebbero stati di notevole aiuto nel proseguio degli anni, riuscendo anche a trasferire tecniche di guerra terrestri nelle sue numerosissime battaglie navali.
Ma la svolta nella vita di Andrea arrivava dopo i quarant'anni ed è questo il periodo storico che ci interessa maggiormente. In quegli anni le potenze in lotta erano la Francia e la Spagna. Andrea, grazie alle grandi capacità che aveva dimostrato, era stato assunto dal Re di Francia come Ammiraglio della flotta navale, ma, da abile uomo di guerra, presto cambiò idea, per passare sotto l'ala protettrice di Carlo V, l'Imperatore spagnolo. Questo suo passaggio da uno schieramento all'altro fu da molti considerato un atto di tradimento, ma Andrea sapeva che era l'unico modo per riportare a Genova la ricchezza e l'indipendenza. Ecco un brano tratto da "Storia di Genova nei secoli" di Michelangelo Dolcino, che narra questo avvenimento:
"La guerra continuava, nella sua tragica furia. Nel '24 il Re di Francia era sceso in Italia dal Moncenisio, e rioccupata Milano affrontò presso Pavia gli Imperiali; subì una disastrosa sconfitta - il 24 febbraio 1525 - e addirittura finì prigioniero. Condotto a Madrid, passò per Genova e sostò al monastero della Cervara, presso Portofino; ma tornato libero, riprese la lotta, in cui Genova ancora visse angosciosi episodi. Così, nel '25 Andrea Doria tentò la conquista di Genova dal mare, appoggiato a terra dal Marchese di Saluzzo; respinto, divenne "Assentista" del Pontefice e poi della Francia. Un altro tentativo fu operato nel '27 dall'Ammiraglio, coadiuvato questa volta all'interno dai Francesi di Lautrec. Il 19 agosto la città cedeva, e presto aveva un Governatore - arresosi Antoniotto Adorno, ultimo Doge perpetuo, a Cesare Fregoso - nella persona di Teodoro Trivulzio. Una nuova struttura costituzionale veniva delineata, prevedente tra l'altro l'esclusione perpetua dai pubblici uffici di Adorno e Fregoso, quando accadde un evento determinante: il 13 settembre 1528 Andrea Doria, passato allo schieramento imperiale, sbarcava a Genova e vi era accolto come un liberatore. Il 28 ottobre veniva occupata Savona. Presto le sue mura dovevano essere abbattute, e il porto colmato di sassi; la popolazione più non avrebbe potuto riunirsi a parlamento senza il benestare della Dominante. Il Doria era passato a Carlo V con una convenzione firmata a Madrid il 10 agosto. Per volere del Genovese il documento si apriva con tali parole:"Piena indipendenza di Genova e piena sovranità su Savona. Libera facoltà ai genovesi di commerciare in assoluta parità con i sudditi di Carlo V in tutti gli Stati dell'Imperatore". Non mancarono naturalmente gli autori che accusarono il grande "Assentista" di tradimento. Occorre al proposito osservare che al momento dell'ingaggio da parte di Carlo V, il contratto che lo legava alla Francia era scaduto; secondo poi la versione ufficiale del Servizio Storico dello Stato Maggiore Generale della Marina Francese, Andrea Doria era stato privato del suo grado prima di trasferirsi al campo opposto. Manifestazione d'avidità? Rimase la sua volontà, prima di affrontare le clausole che lo riguardavano direttamente, di occuparsi di Genova. "
In questo brano è riportata alcune volte la parola "assentista", questo termine veniva usato per i comandanti navali che si comportavano come i "condottieri" di terraferma, cioè firmando contratti per l'uno o l'altro padrone, portando a chi li assoldava tutti i benefici e tutti i difetti di questi accordi. Tutti gli stati di quell'epoca utilizzavano questi capitani di ventura, tranne Venezia che non volle mai farvi ricorso.
Tornando alla nostra storia, avidità o grande capacità di capire il momento portarono Andrea in una posizione di grande potere, questo fu un vantaggio per lui e per la città, ma anche di estremo pericolo per la sua vita.
In un'età tenacemente formalista le distinzioni e le apparenze esteriori del potere assumevano un'importanza preminente ed erano gelosamente difese. Nel 1536 Carlo V concedeva un amplissimo privilegio che equiparava il Doge nel grado e nelle insegne a tutti i duchi d'Italia e del Romano Impero. In conseguenza, la Signoria stabiliva, il 27 dicembre 1538, che il berretto del Doge venisse ornato di cerchio d'oro, e che questo e la spada non mancassero nelle cerimonie ufficiali.
Come le insegne del potere, così anche i titoli, il cerimoniale e il punto d'onore assumevano una funzione sostanziale come elemento di valutazione per gli individui e per gli Stati, perché ogni deroga poteva significare proposito di recare offesa o di dimostrare minore considerazione; perciò premessa di ogni azione diplomatica era di ottenere tutti i titoli e i segni di rispetto che si ritenevano dovuti all'ambasciatore e allo Stato rappresentato.
Nel 1580 l'ambasciatore Giorgio Doria aveva ottenuto dall'Imperatore, Rodolfo II, (e nella richiesta era il riconoscimento del principio medievale che poneva nell'Impero la suprema fonte del diritto) la concessione del titolo di Serenissimo per il Doge, per il Senato e per tutta la Repubblica; e nel 1587 fu confermato, contro il parere di Gian Andrea Doria, che fosse attribuito al Doge (era allora Ambrogio Negrone) e ai Supremi Collegi il titolo già assunto da altri capi di Stato, ma con l'aggiunta che a questi non fosse dato se essi non lo attribuivano al Doge e alla Repubblica. Gli ambasciatori ebbero allora l'ordine di essere inflessibili nel pretendere l'uso di quella denominazione.
Fiere le opposizioni, specialmente del Duca di Savoia, che alla fine fu costretto ad arrendersi: su ben altro terreno doveva portarsi tra non molto il conflitto. Anche più ostinato il Duca di Toscana. Interminabili vertenze in materia anche con l'Impero, che nei propri riguardi negava la reciprocità soltanto per mercanteggiarla con compensi in denaro, e con la Spagna per caparbia ostentazione di superiorità.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, Andrea D'Oria divenne un grande Ammiraglio agli ordini, se così si può dire visto il suo spirito indipendente, dell'Imperatore Carlo V. Per lui fece numerose conquiste nel Mediterraneo, traendone notevoli vantaggi, e, soprattutto, intraprese molte battaglie contro il temibilissimo Kaireddin-Barbarossa, un rinnegato greco/albanese che nel '16 aveva preso Algeri con altri centri nord africani.
Nel '32 Andrea D'Oria, a capo di ventotto galee spagnole conquistava Corone, in Morea; ma la grande azione contro il Barbarossa avveniva nel '35, quando la Spagna e la Chiesa mettevano a disposizione di Andrea settantaquattro galee e navi minori, con ventimila uomini. Tunisi fu presa, ma Kaireddin riuscì a sfuggire,qualcuno insinuò che alla fuga del nemico non fosse estraneo il nostro Ammiraglio, il quale in cambio avrebbe avuto la promessa formale che i centri liguri non avrebbero più subito l'imperversare dei turchi. Ancora di accordi si parlò nel '38, quando nelle acque di Prevesa, il 27 settembre, i turchi - manifestamente inferiori - si sottrassero alla battaglia contro una grande flotta ispano-veneto-pontificia, guidata dal D'Oria. Quando, dal '42 al '45, i turchi portarono un'infinità d'incursioni sulla costa italiana, la Liguria fu sempre risparmiata: perchè gli Ottomani erano alleati coi Francesi, e questi ancora non disperavano di portare Genova dalla loro parte. Altre perplessità sul comportamento dell'Ammiraglio ci furono quando, nel 1540, Giannettino D'Oria, nipote di Andrea, catturò un altro famosissimo pirata, Dragut. Il mondo cristiano tirò un sospiro di sollievo, ma poco dopo Andrea lo rimetteva in libertà. Si seppe poi che aveva avuto in cambio 3.500 ducati e il territorio di Tabarca in Tunisia, dove in seguito si stabilì una colonia genovese, fiorentissima in primo luogo per la pesca del corallo. Le grandi capacità navali del D'Oria, comunque, si manifestarono appieno in quegli anni. La maggior prova, forse, la diede in una occasione sfortunata: quando, nel '41, una flotta di settantatre galee e trecento navi grosse, al comando dell'Imperatore in persona, incappò davanti ad Algeri in una terribile tempesta. Soltanto l'esperienza e l'audacia dell'Ammiraglio riuscirono scongiurare un disastro di enormi proporzioni, e la massima parte dell'esercito e lo stesso Carlo V poterono salvarsi sulle navi superstiti.
La fine del governo francese significò il passaggio di Genova in campo Spagnolo con capacità di autonomia molto limitate, mentre la vocazione repubblicana del nuovo regime ebbe non pochi correttivi nell’egemonia Signorile di Andrea Doria.
In questo nuovo assetto i nobili, che da quasi due secoli erano esclusi dalla carica dogale, recuperano una piena capacità politica, mentre i popolari erano fondamentalmente equiparati intermini di prestigio ai loro tradizionali antagonisti. La riforma del 1528 recepì questa tradizione con una sola variante di rilievo: il tentativo di sostituire quali canali d’accesso al governo nuovi istituti, gli “alberghi”, alle vecchie fazioni, ufficialmente bandite. Gli alberghi del 1528 si costituirono attorno alle famiglie più numerose, quelle che avevano almeno sei case aperte a Genova, delle quali 23 erano nobili e cinque popolari, raggruppavano per via d’imperio e senza distinzione di parte i restanti membri della nobiltà. La comunione del solo nome era assai povero surrogato del cemento che aveva in passato consentito la formazione e il consolidamento degli alberghi. Alla vecchia definizione di “nobili” e “popolari”, si sostituì la dizione “nobili nuovi” (tra cui i Giustiniani) e “nobili vecchi”. Il gruppo dei nuovi aveva consolidato la propria prevalenza numerica in forza delle nuove iscrizioni e di un incremento naturale più accentuato, mentre il carattere chiuso ed esclusivista dei vecchi lo destinava ad una posizione di minoranza.

Armorial de las antiguas familias patricias de la ciudad de Genova hasta la reforma de 1528 parte in italiano e parte in spagnolo a cura di D. Hernán Carlos LUX-WURM y CENTURIÓN. Un dettagliato elenco di tutte le famiglie genovesi secondo la suddivisione del 1528

Cacciati i Francesi e recuperata la libertà, la Repubblica di Genova aveva preteso di essere considerata ufficialmente neutrale, anche se tale aspirazione appariva contraddetta dall’accettazione del protettorato Spagnolo, inoltre il Re di Francia continuava a considerarsi loro Signore e accoglieva e proteggeva i fuoriusciti Genovesi fomentando in città intrighi e congiure. L’imperatore dal canto suo parlava di Genova come città imperiale. In ogni modo era preponderante il peso Spagnolo, tanto che controllava anche la difesa della città. Il grosso delle forze navali spagnole nel mediterraneo era costituito dalle galee degli “assentisti”, i “privati” Genovesi al soldo del Re. Il prezzo più alto della Repubblica dovette pagare per il protettorato Spagnolo fu la guerra di Corsica, che già da qualche tempo più che l’indipendenza agognava alla cacciata dei Genovesi. Nel 1553 Turchi e Francesi occuparono l’isola, ma mentre i Turchi mediante riscatto lasciarono l’isola, i francesi conservarono il controllo della maggior parte dell’isola.
Ma la prova più impegnativa fu quella sopportata a terra: la cosidetta congiura dei Fieschi, nel '47. Questo il racconto di Michelangelo Dolcino: "Animatori ne furono Gian Luigi Fieschi, i fratelli Cornelio e Gerolamo Ottobuono, Giambattista Verrina. Andrea, col nipote Giannettino e Adamo Centurione, banchiere di Carlo V, dovevano morire; Barnaba Adorno sarebbe stato Doge, la Repubblica stessa sottratta all'orbita spagnola per inserirsi in quella francese. Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio, dunque, i nobili congiurati e gli uomini scesi dai feudi fliscani occuparono le porte cittadine; le successive mosse prevedevano la cattura delle galee dei Doria e l'insurrezione dei galeotti musulmani. Giannettino Doria, uscito dal palazzo di Fassolo alle prime avvisaglie, fu ucciso presso la porta di San Tommaso. Lo stesso Andrea, già avanti cogli anni, fu colto di sorpresa. Amico di Sinibaldo, il padre di Gian Luigi, non poteva capacitarsi del tradimento di quest'ultimo, che la sera stessa s'era recato ad un convito presso Giannettino, giocando coi suoi figli. . . Tuttavia, quando l'azione sembrava coronata da successo fallì nel modo più banale: nell'attraversare in Darsena una passerella per salire su una nave dei Doria, Gian Luigi cadde in acqua e gravato dall'armatura annegò miseramente. Il suo corpo doveva essere ritrovato soltanto quattro giorni dopo, trattenuto dalla fanghiglia. La maggior parte dei congiurati, conosciuta la sorte del loro capo, non rispose agli appelli di Gerolamo Fieschi, che ostinatamente, mosso dalla disperazione si rifaceva al grido «Gatti! Gatti!», legato all'emblema di famiglia, e alla parola "libertà". La morte di Giannettino rese più spietata la repressione voluta dal vecchio Ammiraglio. Gerolamo, assediato nel castello di Montoggio, vi venne catturato e ucciso; i grandi feudi fliscani dell'Appennino e della Lunigiana furono confiscati e ripartiti tra la Repubblica, il Doria e i Farnese. Il castello di Montoggio venne nell'agosto raso al suolo con mine, e nel giugno precedente eguale sorte aveva avuto il sontuoso Palazzo Fieschi di Via Lata. Giambattista Verrina, infine, ebbe il capo mozzato. E quando l'anno seguente, un cognato di Gian Luigi, Giulio Cybo, ebbe parte in un'altra congiura tessuta da Scipione Fieschi, ancora d'ispirazione francese, la collera di Andrea tornò ad esplodere: il Cybo fu ucciso e con lui gran parte dei congiurati. Un Bruto, a modo suo, un eroe di stampo plutarchiano, Gian Luigi Fieschi? Il Cardinale di Retz in una sua opera mise a fuoco soprattutto l'ambizione del congiurato, ed eguale giudizio, in fondo, diede anche Schiller nella tragedia ispirata al fatto. Sgombrato il campo da sciocche interpretazioni romantiche - gelosia nei confronti di Giannettino, preteso corteggiatore di sua moglie Eleonora, o risentimento perchè lo stesso Giannettino era stato preferito come sposo da Ginetta Centurione - validissimo rimane il giudizio del Vitale: «Nessun Bruto o maschera di Bruto nella storia di Genova, neanche Gian Luigi Fieschi, che molti storici del secolo scorso hanno rappresentato come vendicatore della libertà interna e dell'esterna indipendenza della Repubblica. Basta considerare che, riuscendo, egli avrebbe bensì sostituito il proprio predominio personale sotto il governo francese alla larvata signoria doriana protetta dalla Spagna, ma non avrebbe potuto, come il Doria e Carlo V imporre condizioni alla Francia chiamata in aiuto: e la libertà di Genova sarebbe stata più che mai parola vuota di senso."
Questi avvenimenti turbarono la Spagna: il Figueroa, Ambasciatore a Genova, e Ferrante Gonzaga, Governatore di Milano, decisero di costruire una fortezza a Pietraminuta, con un contingente fisso di soldati affidato al Capitano Generale Agostino Spinola, ma la presenza di soldati straneri avrebbe in sostanza segnato l'inizio di un nuovo assoggettamento, e l'Ammiraglio «Padre della Patria», com'era stato chiamato nell'offrirgli il dono di un edificio a San Matteo nuscì a far cambiare idea ai due potenti. Si doveva però intervenire sulle strutture della Repubblica e così si fece. Il Maggior Consiglio avrebbe avuto soltanto trecento membri sorteggiati dal "Liber civitatis"; gli altri cento sarebbero stati designati invece per votazione, e allo stesso modo si sarebbero scelti i componenti del Minor Consiglio. "Con questa riforma - osservarono Gori e Martini - i nobili del portico di San Luca (i "vecchi" tra i quali si annoverano i migliori amici della Spagna) vennero a trovarsi in condizioni di favore rispetto ai nobili del portico di San Pietro (i "nuovi" meno legati alle sorti dell'impero, in quanto non partecipanti alla fornitura di galee o di prestiti iberici)".
Nel '48 giungeva a Genova Filippo II, erede al trono. L'ospite chiese di essere alloggiato a Palazzo Ducale, ma il D'Oria lo volle a Fassolo, suo ospite privato, a ribadire l'indipendenza della Repubblica; episodio che costava la destituzione al Figueroa. Ma fu quella l'ultima vera affermazione dell'Ammiraglio. Nel '50, superati gli ottant'anni, guidò un'azione a Mehedia, contro Dragut, però questi gli sfuggì; due anni dopo un'altra spedizione, contro la Corsica sollevata da Sampiero di Bastelica coadiuvato dai Turchi e Francesi, non potè impedire che gran parte dell'isola passasse ai nemici: quelle terre sarebbero ritornate genovesi soltanto nel 1559, col trattato di Cateau-Cambrésis. Nell'impresa di Corsica era con Andrea il pronipote Gianandrea, figlio di Giannettino, investito di comandi navali appena sedicenne. Nel '60 lo stesso giovane partecipò, in subordine al Duca Medina Celi, Vice Re di Sicilia alla spedizione contro Tripoli di Libia, voluta da Filippo II nel quadro del conflitto ispano-turco. Presso le Gerbe la flotta subiva però un pesante scacco da Dragut e Ulug-Alì, e la notizia risultò fatale per Andrea novantaquattrenne: "Il colpo recatogli dalla sconfitta, - scrisse Vitale - che finiva di distruggere la sua opera intesa ad assicurare alla Spagna il predominio navale nel Mediterraneo, passato ora alla Turchia, era stato troppo forte per il vecchio marinaio. Volle attendere in piedi i messi che gli recavano notizie del nipote; udito che era salvo, si coricò per non alzarsi più: era il 25 novembre 1560". Moriva quando la pace di Cateau-Cambrésis sanciva l'assoluto predominio della Spagna nella penisola: "Per opera sua Genova, necessariamente legata alla grande potenza, conservava quel tanto di libertà che era ancora possibile in un'Italia tutta dominata dagli spagnuoli e poteva, con maggiore o minore fortuna, sostenere la neutralità che egli aveva inaugurato, mentre, per effetto degli accordi da lui stipulati, i suoi concittadini si impadronivano economicamente della nazione dominatrice".
Alla morte di Andrea Doria si apre a Genova una nuova fase di instabilità politica.



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Paolo Giustiniani Moneglia Doge dal 6-10-1569/6-10-1571


Nel 1570 l’azione dei nuovi modifica i rapporti di forza esistenti nello Stato fino allora a vantaggio dei vecchi, notoriamente legati alla Spagna, anche grazie all’intercessione del Cardinal Morone, mediatore di Papa Gregorio XIII, che riuscì a pacificare i gruppi nel 1576.
All’interno dei nuovi, più forti delle rivalità con i vecchi apparivano gli antagonisti tra i diversi elementi dei gruppi: i “mercanti” (i Giustiniani, i Sauli, i De Fornari, i Franchi, ecc., vicini per interessi ed aspirazioni ai vecchi) e gli “artefici”, ossia gli esponenti delle arti maggiori ed i “dottori” (giuristi e medici). I nuovi pur cercando solidarietà diverse, il Papa, la Toscana e persino la Francia, si erano preoccupati tempestivamente di non alienarsi del tutto la Spagna.


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Aree di influenza della Repubblica Veneziana e Genovese nel medio evo



GENOVA DALL’ANNO 1500 ALL’ARRIVO DI NAPOLEONE BONAPARTE

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Giovanni Agostino Giustiniani Campi Doge dal 27-11-1591/26-11-1593


Agli inizi del ‘500, Genova era una delle maggiori potenze navali del mediterraneo, ma sia la peste del 1579-80 che dimezza la popolazione di Genova, sia la cattiva annata dei raccolti del 1590, fa inesorabilmente declinare la potenza marinara di Genova e del suo porto. Nel frattempo l’alleanza Spagnola si fa sempre più onerosa e scomoda per Genova, nel 1572 la Spagna con il pretesto di prevedere una possibile cessione di Finale alla Francia lo occupa militarmente, nel 1598 se ne assicura formalmente il possesso.

Nel 1611 è nominato doge Alessandro Giustiniani fino al 1623. Ci resta del suo governo preziosi estratti dal giorno della sua incoronazione.


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Alessandro Giustiniani in veste di senatore. Genova, Vandick 1622-23, olio su tela, 200 cm x 116 cm. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemaldegalerie Doge dal 6-04-1611/6-04-1613

Nel 1625 ebbe inizio l’invasione Franco-Piemontese. La Spagna d’imperio assume l’onere delle trattative di pace per conto di Genova, che culmina nel 1627 con la pace di Monçon.
La neutralità Genovese si fa sempre più difficile, anche perché spagnoli e francesi eleggono il Mar Ligure come uno dei loro terreni di confronto preferiti, innestando una spirale di ritorsioni di cui i Genovesi erano le vittime principali. Dopo un iniziale supremazia Spagnola nel 1638 con la battaglia di Genova, la Francia prende il sopravvento.
Nello stesso anno un gruppo di cittadini decise di dar vita ad un armamento privato di galee di libertà (La compagnia di Nostra Signora di libertà), tra i principali promotori i principali esponenti del partito degli “innovatori”: Raffaele della Torre e Galeazzo Giustiniani, il comandante delle galee della Repubblica nella guerra del 1625. L’esperimento che permetteva una certa emancipazione di Genova, fu ostacolato dagli “assentisti” Spagnoli. Contro tutte le previsioni la galea della libertà al comando di Galeazzo Giustiniani concluse trionfalmente il suo primo viaggio. Ma nel 1639 l’opposizione si fece più dura ed il successivo viaggio fu un fallimento. Sulla strada del ritorno la frustrazione produsse tra i due capi una pericolosa rottura, un Gian Bernardo Veneroso fece ritorno a Genova, l’altro Galeazzo Giustiniani si fermava a Napoli con una galea meditando di allearsi con gli Spagnoli contro i Francesi.


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Luca Giustiniani Doge dal 21-07-1644/21-07-1646


Nel 1654, con il sequestro dei beni Genovesi di Finale dagli Spagnoli, si formalizza il distacco di Genova dalla Spagna. Ciò permise alla Francia di cimentare un alleanza che oltre a Genova comprendesse il Papa e Venezia, formalmente contro i Turchi, ma, in effetti, in funzione anti-spagnola. La morte del Cardinal Mazarino, promotore dell’alleanza chiude la parentesi delle pacifiche relazioni tra Genova e la Francia. Nel 1672 Carlo Emanuele II ritentò l’impresa di Genova, ma questa volta la repubblica seppe difendersi anche senza gli Spagnoli.
Il 17 maggio 1684, la Francia si presenta davanti al porto di Genova chiedendo il disarmo delle galee al servizio degli Spagnoli. Il governo Genovese ripose a cannonate e subì cinque giorni di bombardamento della città. La Repubblica contava sull’appoggio del Papa e degli Spagnoli; si trovò invece abbandonata a se stessa e dovette accettare le condizioni dettate dai Francesi.
Nel 1656-57 l’epidemia di peste investiva tutta l’Italia.
Ormai, la Repubblica Genovese aveva preso coscienza, come del resto tutti gli altri Staterelli Europei di essere alla mercé delle grandi potenze e che i titoli di sovranità, di cui si era con tanta fatica strappato il riconoscimento internazionale nei decenni precedenti, avrebbe costituito fragile difesa contro eventuali gesti di forza.
Nel 1716, 6.000 tedeschi invadono la Repubblica ed il governo Genovese dovette accettare le pretese austriache. Stretta tra le mire egemoniche dei Borboni e degli Asburgo e la persistenze aggressività Sabauda, l’identità della Repubblica non era stata mai altrettanto in pericolo. Ma l’abile diplomazia Genovese riuscì ugualmente a barcamenarsi in questo incerto quadro politico tanto che nell’agosto del 1713 riuscì a riacquistare Finale.



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Giovanni Antonio Giustiniani Doge dal 22-09-1713/22-09-1715


Nel 1729 aveva inizio una nuova insurrezione in Corsica, la Francia inizialmente come garante Genovese la occupò, concedendo la garanzia di difesa della terraferma dai Sabaudi. L’impegno Francese in Corsica, pur con fasi alterne, andò progressivamente allargandosi, sino alla definitiva (ma formalmente temporanea) cessione dell’isola nel 1768. Il trattato di Versailles del 1768 non aveva comunque sancito una formale rinuncia di Genova alla Corsica. Al contrario lo scopo dichiarato era propria la conservazione di tale diritto. Nel 1789 però la Francia unilateralmente si annette l’isola e non rinnova la garanzia territoriale della Repubblica.
La situazione internazionale era in quel momento favorevole alla Francia, in quanto la Prussia era impegnata, assieme alla Russia, a spartirsi il territorio polacco e quindi il piano strategico francese prevedeva l' invasione della Germania con un attacco su Vienna su due linee fondamentali: il medio ed il basso Reno; inoltre considerava un attacco da Sud che doveva purtroppo passare dalla Liguria, base tattica che avrebbe fatto da trampolino di lancio verso la Padana. Il pretesto dell'invasione della Repubblica di Genova fu duplice: la rivendicazione da parte francese di Nizza e della Savoia in mano ai Piemontesi e la falsa attestazione che gli avversari dei Francesi volevano passare dalla Liguria per invadere la Francia . Il piccolo esercito ligure dovette subire l'intervento francese, impotente a difendersi contro un nemico enormemente potente. Per sottolineare il doppiogiochismo dei francesi bisogna ricordare un episodio molto significativo: Robespierre arrivò ad offrire ai piemontesi, nemici, Genova in cambio della Sardegna., i Francesi sapevano bene che il loro punto debole era nei mari, di cui i padroni incontrastati erano gli Inglesi e cercavano vanamente di creare un loro controllo sul Mediterraneo.
La Liguria era dichiaratamente neutrale. Così come Venezia e la Toscana; d'altro lato il Papa, Napoli e il Regno Sardo (comprendente appunto Piemonte e Sardegna) facevano parte della lega contro la Francia.
La situazione nel mar Ligure è caotica; i corsari inglesi attaccano con le veloci navi dapprima il Gran Duca di toscana e poi minacciano Genova, depredando le navi ad esse dirette.
Gli Inglesi quindi assalgono e prendono dentro il porto di Genova una fregata francese. Difficilissimo a questo punto per i liguri mantenere la neutralità; i Francesi fanno affiggere un manifesto a Genova dove indicano che i Genovesi, mantenendo una posizione neutrale, non hanno ostacolato l'attacco britannico alla loro nave e quindi minacciano castighi tremendi a meno che Genova non avesse abbandonato la neutralità e si fosse unita alla Francia contro i Coalizzati.
La sorte della Repubblica di Genova fu quella ormai di trovarsi tra l'incudine ed il martello, il piccolo Stato era schiacciato tra le azioni militari dei Francesi ed Inglesi da una parte, Prussiani, Austriaci e Russi dall'altra.
I Genovesi, loro malgrado decisero di mantenere la loro neutralità e rimborsarono alla Francia la cospicua somma di quattro milioni di tornesi; accadrà che i Francesi, che molti vollero come apportatori di ideali di libertà, non solo entrarono nel territorio ligure con sedicimila uomini comandati dal generale Dumorbion, passando da Monaco e Ventimiglia, ma minacciarono ritorsioni ad una Nazione neutrale e senza alcuna capacità di difesa militare.
In realtà se i Genovesi avessero attaccato la fregata inglese, questo avrebbe significato mettersi in guerra contro la potenza britannica. E' risibile il manifesto a cui accennavo prima, affisso dai Francesi dove affermarono la loro intenzione di rispettare la neutralità della Liguria (invadendola) ma siccome i tiranni d'Europa volevano conquistarla occorreva difenderla. L'obiettivo dei loro piani era quello di farne bottino per barattarla al momento favorevole con qualche altro territorio a loro ambito.
L'esercito francese attaccò Oneglia, che era possedimento Piemontese ed anche suo unico sbocco marittimo, in altre e più indicative parole, il trait - d'union tra l'Inghilterra ed il Regno Sardo.
Gli Inglesi tramite il loro astuto ministro Drake avanzarono allora una assurda richiesta ai Liguri, "ordinando loro" di rompere ogni comunicazione con la Francia; in questo modo i britannici, se non esauditi, ebbero il pretesto di potere considerare la Repubblica di Genova come un nemico, facendo in modo di farla uscire dalla neutralità. La Repubblica, rispose che nulla poteva contro l'esercito francese, ben più numeroso ed armato di quello ligure; l'Inghilterra raggiunse così il suo scopo ed ordinò il blocco dei porti liguri, con conseguenze terribilmente negative sulla nostra economia.
Frattanto la Corsica, dopo epici sollevamenti questa volta contro la Francia che la sottomise con un esercito di trentamila uomini, trovò nei Paoli, famiglia corsa il cui capo fu il simbolo dell'indipendenza contro i francesi, il polo d'attrazione per ricominciare le ostilità contro questi . Infatti i Paoli si proclamarono signori di Corsica alleandosi con gli Inglesi ed affissero un violentissimo manifesto di dichiarazione di guerra alla Repubblica di Genova, in cui si affermò che i corsari dell'isola dovevano sequestrare e rapinare le navi dirette o provenienti da Genova e che i Genovesi presi sarebbero stati condannati a grandi e terribili pene. Iniziò così legalizzata dagli Inglesi, la fase della pirateria corsa, tenendo anche conto della debole forza navale francese si creò una situazione che non è poco definire drammatica per i commerci liguri. La rivalità marittima tra la Francia ed Inghilterra, aveva indotto quella ad acquistare con il trattato di Versaglia, la Corsica dai genovesi, in quanto ritenevano che l'isola fosse un buon punto strategico per il controllo del Mediterraneo; il trattato di Versaglia tra l'altro conteneva delle clausole per cui i Francesi si impegnavano che i Genovesi potessero liberamente navigare nei loro mari e che l'isola di Capraia rimanesse possesso dei Genovesi punto di forza dei traffici marittimi liguri. Possiamo bene capire che tutto questo sistema cadeva alla mercé dei pirati ed infatti gli Inglesi, con beffardo stile tolsero il blocco ai porti liguri al fine di far incappare le navi della Repubblica di Genova in braccia ai Corsari per dividersi poi i bottini.
Arriviamo ora al 1796, anno importante perché Napoleone Bonaparte venne eletto capo supremo dell'esercito francese: uomo pragmatico al massimo si rese subito conto che l'erario militare era estremamente povero ed occorreva porre rimedio per potere proseguire la guerra. Il "casus belli" scaturì in seguito alla rapina ed uccisione da parte di banditi, tra Novi ed Alessandria , di cittadini francesi; Bonaparte incolpò ingiustamente il Senato Ligure e chiese un fortissimo risarcimento di denaro oltre alla fortezza di Gavi e la strada della Bocchetta tra Genova e Tortona.
Se la Repubblica di Genova non avesse acconsentito alle sue richieste la vendetta sarebbe stata immediata. Infatti i Francesi proseguirono per il territorio ligure approssimandosi a Savona al fine di irrompere in Piemonte; alla stessa città si avvicinarono anche le truppe piemontesi ed austriache, al punto che il governatore di Savona, Spinola, si fortificò nella città bombardando i luoghi circostanti e mettendo in fuga entrambi gli eserciti.
In questa caotica situazione, l'ambasciatore francese a Genova chiedeva continuamente soldi ed ordinò inoltre che seimila soldati francesi presidiassero il golfo di La Spezia, che alla Lanterna vi rimanesse stabile a controllarla un drappello di soldati e che fossero disarmati gli abitanti del Polcevera, i quali avevano indubbi sentimenti antifrancesi, in quanto le cronache del tempo ci raccontano che in quella zona come si trovavano dei Francesi, qesti venivano senza complimenti picchiati ed insultati.
Le richieste di denari da parte francese aumentarono arrivando a venti milioni, una cifra enorme per i tempi, ed il Senato Ligure decise di mandare a Parigi un rappresentante, Vincenzo Spinola, al fine di ottenere dai Francesi richieste meno esose.
Intanto a San Pier D'Arena riusciva ad arrivare di nascosto una nave francese con armi ed oggetti d'uso militare per i suoi soldati; il vice ammiraglio d'Inghilterra Nelson ebbe una spiata e con azione rapida usando una grossa fregata riuscì a sequestrare la nave.
Il Direttorio in Francia incolpò, come ci si può aspettate i Liguri e la loro neutralità, ed ordinò che questi sequestrassero tutti i mercantili inglesi nel porto di Genova. Questa richiesta mise in una gravissima situazione i Padri del Senato Ligure. Le minacce francesi di saccheggio della città furono esplicite ed alla fine il Gran Consiglio ed il Piccolo furono costretti a decretare che le navi inglesi fossero prese fra tutte quelle stanzianti nei porti liguri. Purtroppo la trappola francese era scattata e Genova si trovava ad avere incrinata la sua neutralità, accerchiata dal mare dagli Inglesi e dai loro pirati e sulla terra dalle truppe dell'esercito francese.
A Parigi , l'ambasciatore Spinola, era costretto ad accettare le richieste dei francesi i quali richiedevano per la "loro protezione " due milioni di franchi ed inoltre un "prestito " di indubbia restituzione, di altri due milioni. Cosí il Banco di S. Giorgio pagò la prima cifra ed i ricchi genovesi fornirono i soldi del prestito.
Nei giorni che precedettero la sorprendente vittoria di Arcole (15-17 novembre 1796), la situazione dell’armata francese in Italia appariva molto difficile. Bonaparte vedeva crescere, di giorno in giorno, la superiorità numerica del nemico e inoltre l’avvicinarsi dell’inverno poneva gravi problemi per il rifornimento di viveri e di vestiario, agendo negativamente sul morale delle truppe. Scrivendo alla moglie a Milano, dal quartier generale di Verona, non le nascondeva le sue preoccupazioni. In seguito Giuseppina confiderà al conte de Ségur che Napoleone non escludeva la possibilità di una sconfitta che lo avrebbe costretto ad abbandonare Milano agli austriaci. In tale evenienza, come soluzione estrema, il generale pensava ad una ritirata sino a Genova, dove la vicinanza con la Francia e le molteplici possibilità difensive gli avrebbero consentito di resistere in attesa di rinforzi. Nel quadro di queste previsioni Bonaparte avrebbe suggerito a Giuseppina un viaggio a Genova per prendere contatto con quella città che gli premeva avere amica. Gli avvenimenti successivi tolsero ogni interesse alla parte «diplomatica» del viaggio, che si ridusse pertanto ad una semplice vacanza, resa più gradita, se mai, dal momento particolare che Giuseppina stava attraversando.
Con l'armistizio di Cherasco, dopo le sconfitte dei Piemontesi, Nizza e la Savoia vengono annesse alla Francia il 28 Aprile 1797, fatto importante perché sarà sedici anni dopo un falso ed assurdo pretesto per "scambiare " questi territori con la Liguria.
Tra maggio e giugno del 1797, Genova vide la fine della Repubblica aristocratica (instaurata da Andrea Doria nel 1528) e la nascita della Repubblica Ligure democratica. A determinare questo cambiamento, una delle pagine più drammatiche della storia della Superba, concorsero fattori esterni e fattori interni espressione, gli uni e gli altri, delle condizioni politiche, economiche e sociali dell'Europa nell'ultimo scorcio del Settecento. I fattori esterni furono, tra gli altri, la presa di coscienza della borghesia, conseguenza delle ideologie diffuse dalla Rivoluzione francese dell'89, i nuovi equilibri di potere e le nuove correnti di traffici commerciali stabilitesi a seguito dell'urto tra la democrazia francese e gli Stati autoritari del vecchio continente.
La Repubblica di Genova, con poche risorse territoriali e una declinante potenza economica, si trovò compressa tra la Francia (principale partner nei commerci nell'Alto Tirreno) e gli Stati continentali interessati a contrastare l'espansione sovversiva della Grande Nazione. Tra i fattori interni che spinsero i liguri a cercare cambiamenti istituzionali va collocato in primo piano il movimento dei cosidetti "nobili poveri". A Genova, per poter aspirare a posti di governo, era necessario "un certo censo", vale a dire una data disponibilità di denaro, il che spingeva le famiglie nobili a concentrare tutte le ricchezze nelle mani del primogenito. Questa norma faceva dei figli cadetti dei diseredati, riducendoli, in qualche caso, in condizioni economiche molto modeste. Di pari passo era decaduto il ruolo del Maggior Consiglio, assemblea di cui questi patrizi (ben 400) facevano parte. Il potere era andato così interamente ai duecento membri del Minor Consiglio, formato da ricchi eredi delle grandi casate che lo gestivano con criteri privatistici, attenti unicamente a tener buono il popolo, convinti com'erano che i restanti genovesi, anche se poveri, mai si sarebbero schierati contro il governo.
Fu quindi una sorpresa quando, nel 1749, venne alla luce una cospirazione antioligarchica: un movimento d'opposizione, compreso ancora entro l'ambito parlamentare, con cui un gruppo di "nobili poveri" intendeva imporre una riforma degli organismi di governo, ridistribuendo il potere secondo i dettami della Costituzione del 1576. La cospirazione fu repressa dalla autorità, i principali esponenti arrestati o costretti all'esilio e tutto rimase come prima, anche se le riforme sollecitate avrebbero potuto forse salvare l'aristocrazia dalla imminente rovina. Fallita la cospirazione, l'attività degli oppositori, sostenuti dalla Francia, continuò nella clandestinità. II ministro Faipoult, incaricato d'affari a Genova, uomo d'azione, grande amico di Bonaparte, fece della Legazione il centro motore di una attiva propaganda giacobina e antioligarchia. Protetto dai privilegi diplomatici, giungeva in porto, indirizzato al rappresentante francese, abbondante materiale propagandistico che attraverso la farmacia Morando e altri intermediari veniva distribuito in città per alimentare cellule sovversive di cui gli Inquisitori di Stato erano al corrente, ma che non osavano stroncare temendo guai peggiori. Mentre era chiaro che si preparava una insurrezione, i gendarmi si limitavano a controllare e a riferire al governo, il quale si illudeva di tenere in pugno la situazione in virtù del proprio paternalismo nei confronti del popolo. Paternalismo che era in sostanza un misto di meditato calcolo e di caritatevole generosità. Rincorrendo queste illusioni, i Magnifici non diedero il dovuto peso neppure alla grande parata del partito filofrancese, alla fine di novembre del 1796, in occasione della visita a Genova di Giuseppina Bonaparte.
Tra "complimenti" ufficiali, udienze riservate e ricevimenti, l'ospite ebbe onori e attenzioni più di quanto non fosse doveroso con la moglie di un semplice generale. Tali riguardi suscitarono infatti qualche polemica, ma il governo lasciò correre: era quella una cortesia interessata dato che Bonaparte teneva in mano, in quel momento, le sorti di Genova come di altri Stati italiani. L'insurrezione preparata dai giacobini genovesi sotto la guida di Faipoult, scoppiò alla fine di maggio, il 21, domenica. I sudditi francesi, civili e militari, avevano indetto diverse manifestazioni per celebrare le vittorie di Bonaparte sull'armata austriaca, coronate, il 18 aprile, dall'armistizio di Leoben. A Sampierdarena, dove era un vasto deposito militare, erano in programma banchetti e danze. Sulla facciata del palazzo della Legazione, Faipoult aveva fatto scrivere, con centinaia di luci, la parola Paix. Cortei di manifestanti, con bandiere e coccarde tricolori, percorsero la città sino a tarda ora, ma sino all'alba misteriosi via vai animarono la buia quiete dei vicoli. A dare il segnale di inizio di quella che fu chiamata la Rivoluzione di Genova fu, la mattina del 22, la fanfara del reggimento dei Cadetti. Mentre questo reparto d'élite si avviava a rilevare la guardia a Ponte Reale (la stazione marittima d'allora) a un cenno del comandante Falco, trombe e tamburi intonarono le note del Ca ira, inno proibito a Genova per i suoi accesi significati antlaristocratici. A quelle note sbucarono, dalle strade circostanti, squadre di giacobini armati che subito si unirono ai cadetti nell'occupazione del varco portuale e quindi si sparsero per la città. Mentre i nobili si rifugiavano nei loro palazzi e le botteghe chiudevano i battenti, gli insorti presidiarono le Porte delle Mura, saccheggiarono i depositi di armi, liberarono i detenuti della Malapaga e i galeotti. Un comitato rivoluzionario, destinato a guidare l'insurrezione, si installò nella Loggia di Banchi: ne facevano parte Felice Morando, Filippo Doria, l'abate Cuneo, Valentino Lodi, Andrea Vitaliani, il monaco Alessandro Ricolfi detto Bernardone. Furono subito avviati contatti con il governo cui gli insorti chiesero le dimissioni immediate. I Magnifici chiamarono quale mediatore il ministro francese che, scortato da alcuni senatori, si recò a Banchi e, consultatosi con gli esponenti degli insorti, tornò a Palazzo per dire - come era nel suo interesse - che al governo non restava che dimettersi. Il Doge Giacomo Maria Brignole e i pochi senatori che erano riusciti ad arrivare a Palazzo stavano per accettare quando, sobillati da qualche patrizio, da Portoria, l'inquieto quartiere di Balilla, mosse una folla di popolani che gridando "viva il nostro Principe", "viva Maria" penetrò nella pubblica armeria asportandone 14 mila fucili. Questi uomini, coraggiosi e decisi, cominciarono a dare la caccia ai giacobini e ai francesi: le strade della città divennero in breve un campo di battaglia. Due giorni durarono gli scontri con morti e feriti. Lo stesso Filippo Doria cadde colpito a morte sugli scalini di Ponte Reale. Le celle di Palazzo Ducale si riempirono di democratici arrestati dai "viva Maria" e, non bastando queste, fu adattata a prigione anche la vicina chiesa di S. Ambrogio. L'intervento del popolo in difesa del "vecchio principe", se aveva dato al governo un buon motivo per rifiutare di dimettersi, con le sue violenze, specie nei confronti dei cittadini francesi, diede anche a Faipoult l'occasione per ricorrere a Bonaparte.
Questi inviò a Genova l'aiutante di campo La Vallette con una lettera per il ministro e una per il Doge, durissime entrambe. Nella prima il generale accusava Faipoult di aver impedito l'ingresso delle navi francesi nel porto e di aver agito con eccessiva debolezza.
Lo invitava quindi a lasciare la città nel caso che il governo genovese non avesse ottemperato a quanto richiesto nella lettera al Doge. In questa ultima, che l'aiutante lesse, con tono arrogante davanti al senato genovese, Bonaparte chiedeva che fossero messi in libertà tutti i francesi detenuti, che fossero arrestati i nobili che avevano sobillato i "viva Maria" e disarmato il popolo. «Se entro 24 ore dopo ricevuta la presente lettera non avrete ottemperato a quanto richiesto - intimava il generale - il ministro della Repubblica Francese sortirà da Genova e l'aristocrazia avrà esistito». I Magnifici compresero che non restava loro altra scelta che accettare il diktat di Bonaparte.

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Una lista dei nobili arrestati dopo la caduta della repubblica aristocratica di Genova, nel 1797, tra cui figurano alcuni Giustiniani (tratto dal volume "Lettere nella bufera" di Pompeo Sertori, Ed Tigullio, 2004).

Solo qualcuno, nello sconforto del momento, osò protestare: "ebbene ci batteremo", ma era uno slancio suicida. Si affrettarono i tempi. Partì per Milano Faipoult, partì una delegazione genovese composta dall'ex Doge Michelangelo Cambiaso, dal giurista Luigi Carbonara e da Girolamo Serra per concordare con Bonaparte, in quei giorni "in vacanza" nella villa di Mombello, il cambio di governo.
Lo stesso Bonaparte, tra il 5 e il 6 giugno, con l'aiuto di Faipoult, stese il testo di una Convenzione che prese il nome di "Convenzione di Mombello", con cui si sanciva la fine della Repubblica di Genova, oligarchica e aristocratica, e la nascita della Repubblica Ligure democratica. Al testo dell'accordo, che fu poi approvato a Genova il 9 giugno, Bonaparte unì una lista di 22 persone designate a formare il nuovo governo, tra cui figuravano alcuni nobili, compreso il marchese Giacomo Maria Brignole. Questo governo, detto provvisorio fu insediato il 13 giugno con a capo lo stesso Giacomo Brignole che, in tal modo, cambiava soltanto carica: da Doge diventava Presidente.
La Repubblica di Genova finì il 14 giugno 1797 dopo trecento anni di indipendenza, al suo posto nacque la Repubblica Ligure, voluta dai francesi ma, ancora per poco, indipendente. Napoleone annesse anche alla neo repubblica i feudi di Arquata, Ronco e Torriglia con una popolazione complessiva di centoventimila abitanti.
Immaginiamo adesso le vendette dei Giacobini con quali forme si potessero esprimere; Napoleone fu chiamato " benefattore ' della Liguria e cominciarono gli atti di odio verso i nobili e quanti rimpiangevano la persa vera indipendenza, non certo quella ibrida dei giacobini.
Fu dato fuoco al Libro d'Oro, con indicati i nomi dei patrizi, alla Bussola, alle insegne ed agli stemmi Dogali; insomma a tutto quello che poteva ricordare l'antica forma di governo.
Un triste fatto seguì poco tempo dopo: a Palazzo Ducale vi erano, all'ingresso, due statue del 500 dei Doria, una delle quali rappresentava Andrea; i Giacobini, pochi di numero, ma forti della presenza di numerosi soldati francesi prossimi alla città, non contenti di avere già distrutto molti stemmi gentilizi sulle travi dei portoni delle case dei nobili, fecero scempio delle due statue, decapitandole.
Dopodiché si recarono alle carceri del Palazzetto ed a quelle della Torre e liberarono tutti i malfattori che erano lí rinchiusi per reati comuni, azione che i "rivoluzionari", avevano già compiuto nella precedente sommossa. Gli eccessi e le violenze dei filo-francesi durarono fino al sedici giugno.
Il primo di luglio il nuovo governo assunse, con grande pompa il possesso del Ducale; si ordinò di togliere dalla sala del Gran Consiglio le statue dei nobili benemeriti e di cancellare con gli scalpelli le insegne dei patrizi che per le loro beneficenze del passato si trovavano nell'albergo dei Poveri e nei due ospedali genovesi. Non dobbiamo dimenticare che l'assistenza sanitaria era un fiore all'occhiello di Genova, in quanto, completamente gratuita, funzionava in modo egregio grazie ai cospicui lasciti dell'aristocrazia genovese.
Il titolo di Doge fu abrogato e sostituito con quello più giacobino di " presidente ".
Si crearono in seguito cinque comitati municipali; quello degli Edili (di cui conserviamo un monumento da questi dedicato alla Repubblica Ligure, si tratta di un tempietto con all'interno dei lavatoi, che per chi lo volesse vedere si trova dentro dei giardini ''Baltimora") il quale soprassedeva alla sussistenza ed ai bisogni generali della città; il secondo comitato era quello dei Pubblici Stabilimenti suddiviso negli uffici delle Consegne, della Giunta, del Contrabbando, della Moneta, della Seta e della Lana; fu poi rinnovato il comitato dei Conservatori del Mare; tutti questi organismi costituirono il Tribunale Provvisorio del Commercio. Furono inoltre istituiti gli Ispettori di Pace (due per ogni quartiere della città) i quali dovevano provvedere alla pubblica quiete.
Il primo grosso passo falso del nuovo governo fu di creare delle norme per cui i vescovi non avrebbero potuto, senza il permesso governativo, ordinare i sacramenti e tanto meno ordinare frati o monaci.
Questa ingerenza giacobina nella vita della Chiesa, si accompagnò simultaneamente ad un'altra novità: veniva formato un altro gruppo di " missionari " (o apostoli) giacobini, i quali dovevano predicare al popolo, sia nelle città ma principalmente nelle campagne, le nuove teorie sociali della Rivoluzione Francese al fine pratico di far ben accettare la nuova forma di governo. Questi personaggi portavano appeso al collo un nastro bicolore, bianco e rosso, assieme ad un piccolo crocifisso, a voler simboleggiare l'unione della fede con i principi giacobini.
I nuovi " apostoli " certamente si attirarono subito l'avversità dei preti e cominciarono anche le reazioni del popolo, che mal li vedeva; infatti parecchi di loro furono minacciati e cacciati dai luoghi di predicazione.
Il 14 luglio fu decretata la Festa della Libertà, in ricordo della presa della Bastiglia ed il 22 nella chiesa di S. Ambrogio, furono celebrate le esequie dei giacobini uccisi durante i precedenti scontri. Accenniamo ora a quello cui i francesi ambivano in sommo grado: le continue ed incessanti richieste di denaro, malgrado che l'erario ligure fosse praticamente vuoto: il ministro genovese a Parigi, Stefano Rivarola, fu sostituito dall'avvocato Boccardi ed il precedente accordo fatto da Vincenzo Spinola, per cui la Repubblica di Genova si obbligava a pagare quattro milioni di tornesi ai francesi ,venne modificato in modo che il risultato fu che le famiglie genovesi dei Doria, Pallavicini, Durazzo, Fieschi, Carrega, Spinola, Lomellini, Grimaldi, Cattaneo, avrebbero dovuto pagare l'ingiusta tassazione.
Il Governo oltre ad ordinare queste misure, decretò che tutti i possessori di beni franchi li avrebbero dovuti denunciare minacciando pene per chi non ottemperasse alle norme e premi ai delatori di chi non pagava le imposte.
La politica giacobina e le incessanti richieste finanziarie francesi, portò ad odi e sospetti e si creò una situazione per cui gran parte del popolo cominciò a dare segni d'insofferenza perché la persecuzione dei nobili si ripercuoteva sull'economia tutta dello Stato Ligure.
Non si deve dimenticare che il Mar Ligure essendo infestato dai Barbareschi, di fatto fermava tutti i traffici marittimi; i Francesi avevano promesso, nella convenzione di Montebello, di combattere i pirati per aiutare il commercio ligure, ma in realtà non fecero nulla. A questo si aggiunse l'ordine di Napoleone di spedire nuove milizie a Genova, comandate dai generali Casabianca e Duphot, chiara dimostrazione questa, di forza e di perduta libertà per le belle terre di Liguria; l'esercito con la sua presenza massiccia era poi il mezzo sicuramente più efficace per convincere i Genovesi a pagare le nuove tasse ed evitare eventuali ribellioni.
Però a questa azione, già di per sé lesiva dello spirito di indipendenza genovese, ne seguí un altra ben grave: fu dato ordine di rimuovere le artiglierie poste a difesa delle porte della città, simbolo queste della libertà e della sovranità genovese.
La reazione a questi gravi fatti non tarderà a farsi sentire. Lo stesso governo si divise in due fazioni: una presieduta da Serra, voleva mantenersi, il più possibile, lontano dalle pretese francesi, inoltre desiderava il rispetto dei preti e dell'aristocrazia ; l'altra posizione era invece più consona alle richieste degli stranieri. Si avvicinava intanto l'approvazione della nuova costituzione; il governo decise che dopo la sua discussione si sarebbe svolto un plebiscito per il 14 settembre. I malumori non avrebbero però tardato a farsi sentire, infatti sarebbe presto cominciata una sanguinosa rivolta antifrancese ed antigiacobina che verrà poi repressa duramente.
Dapprima, come già ho accennato prima, vi furono nel governo provvisorio stesso delle profonde diversità d'opinione in merito alla costituzione e furono poi nominati dodici commissari; loro compito sarebbe stato di spiegare ai Liguri, le nuove leggi e la nuova forma di governo; però, particolarmente tra le campagne il comportamento del popolo fu di avversione alle nuove idee. Non possiamo certo negare il ruolo che ebbero nobili e preti nel cercare di contrastare la ventata giacobina, perché con la nuova costituzione quelli vedevano diminuire il loro potere, ma dobbiamo capire che i beni dell'aristocrazia sarebbero finiti nelle casse francesi e non di certo nelle mani del popolo; sarebbe un errore affermare che i cittadini liguri furono sobillati, tout court, dal clero e dai patrizi; tanto meno rifiuto di pensare ad un "plagio" del popolo delle campagne contro la nuova repubblica: credo piuttosto che tutti gli abitanti liguri che si sollevarono contro di essa avessero a cuore la propria indipendenza e libertà dal giogo straniero e capirono che ingiuste tasse ai nobili, cuore finanziario dei commerci, avrebbero significato fame per tutti.
I Giacobini poi, erano la " lunga mano " del potere fortemente centralista napoleonico, un potere che veniva da lontano e certamente tutti i Liguri, fedeli al proprio passato, capivano che la realtà, sostanzialmente, sarebbe stata di vedere, ed i fatti lo dimostreranno, i Francesi come padroni assoluti dei loro territori. Un governo giacobino, non era certamente democratico, quando rimetteva la sovranità, non certo nelle mani del Popolo, ma del francese invasore.
Le genti liguri che primi presero le armi per la grande ribellione, furono quelle che vivevano nelle valli del Bisagno, che riunitasi in massa si avviarono verso Genova per liberarla dagli stranieri e dai loro alleati. Il governo provvisorio, spaventato, ordinò che per il momento si soprassedesse alle già avviate riforme costituzionali, ma emanò anche un decreto che dichiarava rei di lesa nazione, condannandoli a morte, quanti agissero o "parlassero" contro il nuovo governo e la sua costituzione.
Furono quindi arrestati alcuni nobili ingiustamente e tutta la zona di Albaro insorse; il generale francese Duphot, noto per la sua durezza in guerra, attaccò con violenza il popolo alla cui testa vi erano i valorosi frate Pezzuolo ed il giovane Marcantonio da Sori.
L'esercito francese vinse a Sori, anche se i difensori ebbero per poco tempo un breve successo ed inseguirono gli attaccanti, ma arrivati sotto Carignano furono dispersi e falcidiati dalle batterie là disposte. Il popolo fu costretto a ritornare in Albaro, qui i Francesi ed i loro compari Giacobini vi entrarono e trattandola alla stregua di una città nemica misero il quartiere a sacco e bruciarono il teatro e la bella villa Defornari, ove dicevano si riunivano i capi della rivolta.
La feroce repressione dei Bisagnini e di Albaro, non bastò a calmare gli indomiti animi del popolo, infatti, con grande spirito unitario ligure, i Polceveraschi accorsero in aiuto dei fratelli e presero il Forte Sperone, centro del sistema difensivo delle mura di Genova, e Forte Tanaglia; inoltre occuparono tutto il secondo cinto delle mura e le batterie di S. Benigno. Era la rivolta di tutto il popolo.
I Giacobini, essendo poco numerosi e non avendo forze sufficienti per contrapporsi alla furia popolare, si dispersero, l'esercito francese non si aspettava la sollevazione generale; così il governo filo francese cercò, vista la malaparata, di iniziare trattative con i rivoltosi, anche per prendere tempo e permettere all'esercito invasore di organizzarsi meglio.
Fu promessa, così, l'impunità ai Patrioti Liguri, per i loro atti di ribellione, ma questi non erano intenzionati a restituire le fortezze occupate; fu allora che il comandante Daphot, con truppe fresche, attaccò in modo violentissimo Forte San Benigno e dopo quattro ore di furiosi combattimenti il popolo, poco armato, fu costretto a soccombere allo straniero. I francesi misero in catene cinquecento genovesi: fu subito formato un tribunale speciale militare, che condannò a morte otto patrioti e molti altri ebbero la dura condanna "del remo" nelle galee . La rivolta repressa, portò come conseguenza immediata assurde richieste di denaro dai Francesi, che però l'erario ligure non poteva soddisfare; il governo cominciò così a gravare il popolo di nuove tasse e si inventò un nuovo modo di riempire le casse francesi: si arrestavano nobili, sebbene innocenti e si rilasciavano solo quando pagavano forti somme di denaro; una sorta di sequestro legalizzato.
Napoleone mandò a Genova il generale Lannes, che aveva una personalità caratterizzata da modi rudi ed autorevoli, egli prese la città con la forza e se ne impadronì con presidi militari atti a prevenire eventuali nuove rivolte. Frattanto Corvetto, Bertuccioni, Lupi, Sommariva e Rossi erano quasi arrivati al termine del loro lavoro di formazione della nuova costituzione. Il Governo Francese, sicuro che la situazione era ormai in mano sua, pretese imposte per cinquantaquattro milioni e ottocentoventicinque mila lire, somma astronomica per quei tempi. La costituzione prevedeva tre codici: civile, criminale e commerciale; il Senato sarebbe stato formato da trenta senatori di cui era presidente il Doge; i magistrati erano sei: Supremo, di Giustizia, di Legislazione, dell'Interno, di Guerra e del Mare, delle Finanze. Il Doge sarebbe durato in carica sei anni, il Senato due; gli ordini Civili erano formati dai Possidenti (duecento membri), dai Commercianti (duecento membri), dai Dotti (cento membri) . La Repubblica Ligure si obbligava a mantenere una flotta formata almeno da due vascelli, due fregate e quattro corvette; Napoleone comandò che fosse eletto Doge (o meglio dire presidente) Francesco Cattaneo, ma questi rifiutò e vi surrogò Giacomo Maria Brignole, che già ricopriva la carica.
Tra folte schiere armate di soldati francesi si tennero i comizi popolari. La costituzione fu approvata da centomila voti contro diciassettemila. La Liguria cedeva oppressa da irresistibile violenza, anche se, almeno sulla carta l'indipendenza rimaneva.

Alla fine del Settecento, Genova, con circa 89 mila abitanti, era la capitale di uno Stato che, nel complesso, ne contava poco più di 600 mila. La popolazione urbana era divisa sostanzialmente in due classi. L’aristocrazia e il popolo, tra le quali si andava affermando una borghesia benestante, se non ricca, formata da mercanti, professionisti, intellettuali, molti dei quali discendenti delle grandi casate nobiliari, decaduti nella scala sociale semplicemente per via del loro censo modesto. E questo perché, attraverso i tempi, leggi e consuetudini avevano cucito a filo doppio ricchezza e potere, rendendo le due cose interdipendenti. Il governo della Repubblica di Genova, fondata da Andrea Doria, era in mano ad un ristretto numero di famiglie che da anni se lo passavano dall’una all’altra, arroccate in una tenace difesa dei loro privilegi ma anche dell’indipendenza e neutralità dello Stato. Per garantirsi libertà e sicurezza, il governo oligarchico aveva munito la città di una formidabile cerchia di mura, e di una catena di forti che ne facevano una delle piazze meglio difese d’Europa. Entro la cerchia delle nuove mura, che si spingevano sino alla sommità delle colline, disposte come un verde fondale alle spalle della città, l’abitato era andato espandendosi in superficie e in altezza, con case altissime addossate le une alle altre per conservare gelosamente all’intorno orti e giardini dove, per non guastare il paesaggio, era persino vietato innalzare muri divisori. Il panorama di Genova, scrive un anonimo del primo Ottocento, offriva «le più pittoresche vedute» sia per la quantità dei palazzi e delle ville situate su ridenti colline, sia per i campanili e le cupole delle chiese che l’adornavano, tanto da offrire a chi l’osservava dal mare, uno spettacolo paragonabile a quello di Napoli e di Costantinopoli, città decantate dai viaggiatori. Non esagerava certamente, l’anonimo ottocentesco, ponendo come nota dominante del paesaggio genovese le cupole e i campanili. In quell’epoca infatti si contavano, entro la cerchia delle mura secentesche 119 tra chiese e conventi, alcuni dei quali imponenti, 35 oratori e alcune cappelle. Il vanto dell’urbanistica genovese erano però i palazzi privati che, a decine, sorgevano nei vari quartieri della città e in particolare in quella Strada Nuova, straordinario esempio di lottizzazione cinquecentesca, dove si allineava una serie di edifici che Pietro Paolo Rubens, durante il suo lungo soggiorno genovese, volle disegnare e i disegni raccogliere in volume quale esempio magistrale ai futuri architetti. In queste splendide dimore abitava la nobiltà genovese: principi, marchesi, conti, ma contemporaneamente banchieri, diplomatici, navigatori, soldati di ventura, latifondisti, che in secoli di vantaggiosi affari, di ardite speculazioni, di sagge economie, avevano accumulato enormi fortune, che custodivano gelosamente ma non di rado allegramente sperperavano. Da questi palazzi uscivano i dogi biennali, i membri dei Serenissimi Collegi, che detenevano il potere esecutivo, i deputati al Minor e Maggior Consiglio, organi legislativi della Repubblica. La vita culturale della città era piuttosto limitata. Esistevano un paio di biblioteche pubbliche, e altre private, ricche di preziosi volumi, rimaste però quasi segrete sino ai nostri giorni. Molte famiglie patrizie avevano collezioni d’arte, dove figuravano molti bei nomi dell’arte italiana e fiamminga, e vantavano tradizioni di un mecenatismo molto riservato. Le signore genovesi conducevano un’esistenza piuttosto libera quale consentiva loro la vita pure molto indaffarata e libera dei mariti. Nelle stemmate portantine le dame si trasferivano dalle «conversazioni» pomeridiane nei diversi salotti, agli spettacoli del teatro Sant’Agostino, o del Falcone, dove si alternavano drammi, commedie e accademie musicali, offrendo soprattutto l’occasione per uno sfoggio della ricchezza. I salotti cittadini avevano le loro sacerdotesse: signore assai ammirate per cultura e grazia, come Anna Pieri Brignole, fiorentina di nascita, Lilla Cambiaso Giustiniani, Luigia Pallavicini, ispiratrice dell’ode foscoliana, Antonietta Costa Galera, pittrice, che riunirà attorno a sé, durante la Repubblica Ligure, patrioti e poeti e sarà celebrata da Vincenzo Monti in una famosa ode. Il popolo abitava le alte case dei vicoli, con poco sole e poche comodità, ma sostanzialmente non in polemica con i ricchi. Il porto era la prima fonte di guadagno, seguito dall’artigianato, dall’agricoltura e dagli impieghi domestici nelle case patrizie. Allorché la rivoluzione costringerà molti nobili a chiudere i palazzi e le ville, si porrà drammaticamente il problema della disoccupazione per un buon numero di cittadini. Per questa dipendenza vitale il popolo rimase quasi sempre, tranne casi limitati, schierato a fianco del patriziato, spesso gloriandosene come di una propria creatura.

Il colpo di stato del 1799
Gli ultimi giorni di gennaio del 1798 fu eletto il direttorio esecutivo, formato da: Luigi Corvetto, Giorgio Ambrosio Molfino, Agostino Maglione, Nicolò Littardi, Paolo Costa; fu eletto segretario il medico Stefano Emanuele Sommariva, l'avvocatoDomenico Assereto diventò Ministro di Polizia, Ministro dell'Interno e della Finanza fu Giambattista Rossi, Ministro degli Affari Esteri e Giustizia Francesco Maria Ruzza e Ministro di Guerra e Mare Marco Federici. I Francesi non persero tempo a chiedere altre somme di denaro alla nata Repubblica, che consideravano ormai terra da cui depredare fiumi di soldi per mantenere il loro esercito e si inventò così una nuova tassa: quella delle finestre, ogni cittadino doveva pagare una imposta secondo la quantità di luce e di aria che riceveva nella sua casa, in altre parole più finestre aveva più pagava.
Il 7 dicembre 1799, l'autorità francese effettuò un "colpo di stato" mediante il quale le istituzioni, ancora formalmente indipendenti della Repubblica Ligure, vennero soppresse. Tutti i poteri furono concentrati nelle mani di una "Commissione di Governo" che era in pratica formata da personaggi sottomessi ai voleri francesi. La Liguria aveva ormai per la Francia un'importanza militare fondamentale ed occorreva il suo assoggettamento. I Francesi avevano bisogno di un governo fantoccio per i loro scopi bellici in modo da poter spogliare la Liguria dei suoi beni con imposte e requisizioni. Furono arrestate 36 persone e fucilati 9 controrivoluzionari (dal " Monitore Ligure " del 7, 11 e 28 dicembre 1799).
Napoleone requisì ai Liguri la loro flotta, al fine di poterla usare nella spedizione d'Egitto, ove peraltro, giocò male le sue carte, tanto che la Francia dopo la poco fortunata impresa africana rese l'Inghilterra padrona assoluta dei mari e questo sarà, a livello grande - strategico, forse la vera importante ragione, della caduta Napoleonica negli anni a venire. E' certo che gli Inglesi stessi, con loro spie all'interno del Direttorio francese, fecero in modo che i Francesi si gettassero nella assurda spedizione navale, proprio perché convinti di poter distruggere la flotta nemica e controllare tutte le vie di comunicazioni marittime.

Nel 1798 si ebbe una piccola guerra tra la Repubblica di Genova ed il Piemonte; si formò a Carrosio, terra situata in Liguria ma suddita del Piemonte, un movimento tra le genti del luogo, che aveva come obiettivo di fare una secessione dal Piemonte.
I Carrosiani svaligiarono i corrieri del re piemontese ed assaltarono Serravalle, ma qui furono respinti dalle truppe dei Savoia; frattanto Brune, comandante francese, che sostituiva in quel momento Bonaparte quale capo dell'esercito in Italia , formò a Pallanza sul Lago Maggiore un corpo di repubblicani piemontesi filofrancesi, i quali, secondo i piani si sarebbero dovuti lanciare nel Novarese e prendere Domodossola; l'impresa riuscì in un primo tempo ma Carlo Emanuele IIº riprese la cittadina dopo scontri molto sanguinosi. Gli abitanti di Carrosio continuarono nelle loro azioni contro i Savoia, il loro paese era però circondato completamente dal territorio della Repubblica Ligure e per il re piemontese attaccare i sudditi ribelli, significava passare con il suo esercito sotto la fortezza di Gavi, roccaforte dei Genovesi.
Da questi non venne il permesso di passare, così il Savoia, attaccò la stessa Carrosio violando il territorio Ligure; questo fu un vero affronto e si unì al disgusto che il re piemontese suscitò per i supplizi che inflisse ai ribelli Carrossiani, di idee repubblicane.
Questo portò a scontri tra Liguri e Savoia, finché la Francia intervenne ed impose a questi ultimi la cessione della cittadella (fortezza per la difesa della città) di Torino assieme ad un compenso per la Repubblica Genovese per i danni ricevuti in seguito all'invasione del loro territorio. Nel contempo la Coalizione fra Austria, Russia, Inghilterra contro Napoleone, mandò un poderoso esercito in Italia comandato da Melas, settantunenne generale austriaco e dal russo Suwarov. L'Inghilterra, con la flotta, batteva tutte le coste italiane tenendole sotto stretto controllo.
I Francesi inviarono allora nel nostro paese il generale Scherer, ma furono battuti due volte ed i loro avversari confederati passarono l'Adige; gli Astrorussi vinsero nuovamente a Cassano e conquistarono la Lombardia ed il Piemonte. Il comando francese fu ridato a Moreau, il quale si rifugiò con le truppe superstiti a Genova. La cittadella di Torino fu ripresa dai Coalizzati e un altro esercito francese partiva frattanto dal Sud, dal Regno di Napoli, guidato dal generale Mac Donald dirigendosi verso Nord, dove si scontrò con gli Austriaci sul Panaro ma sopraggiunsero i Russi presso Piacenza , i Francesi persero altre due battaglie, con grande bagno di sangue. Moreau si arroccò sui monti liguri con quello che gli restava del suo esercito, decidendo di non scendere sulla pianura a dare battaglia; conquistò Tortona ed attese la prossima mossa dei nemici. Questi frattanto presero Alessandria, Mantova e Serravalle.
Il Direttorio francese, data la rotta del suo esercito, decise il cambio del comando militare; a Moreau successero altri due generali: Championnet e Joubert, il primo doveva cacciare i nemici dal Piemonte attaccando da Nord, il secondo doveva invece attaccare da Sud, prendendo i nemici in una manovra a tenaglia. Joubert attaccò Acqui e la prese mettendola a sacco, poi scese la Bocchetta e cacciò gli Austriaci da Novi. Qui si diressero gli eserciti al completo degli Austrorussi ed il 15 agosto 1799 vi fu una sanguinosissima battaglia ove cadde valorosamente lo stesso Jobert ed i Francesi furono battuti. La città di Novi fu presa dai Russi e la popolazione civile dovette subire barbare uccisioni e violenze personali. Moreau subentrò nuovamente al comando dei francesi, raccolse quello che restava delle truppe e si arroccò nuovamente fra i monti liguri.
La Repubblica di Genova divenne così teatro strategico importante e il generale Klenan a capo dei Coalizzati attaccò la Riviera di Levante dirigendosi verso Genova, occupò Rapallo ed arrivò a Recco.
Fu qui respinto dal francese Miollis e si ritirò allora oltre Sarzana, avventandosi dopo La Spezia e se ne impadronì favorendo l'avvicinarsi degli Austriaci a Genova; vi furono altre piccole battaglie nei pressi di Novi; per l'ennesima volta Moreau fu sostituito, stavolta dal solo Championnet e il 9 novembre ci fu una scontro sulle rive dello Stura tra Fossano e Savigliano dove i Francesi vennero battuti ancora una volta. La disfatta della Francia in Piemonte: caddero Savigliano, Lavaldigi, Mondovì, Garessio, Irmea, Cuneo.
Napoleone abbandonò intanto l'Egitto sconfitto sul mare e mandò a Genova il generale Massena, il quale aveva ordine preciso di tenerla finché Bonaparte stesso non fosse riuscito a riunire un forte esercito per potere riprendere Piemonte e Lombardia. Massena, noto per la sua inflessibilità, divise l'esercito in due parti: una comandata da Soult, il quale doveva da Recco procedere per la Bocchetta verso Voltaggio e Campofreddo, coprendo così anche Savona; l'altra comandata da Souchet doveva distribuire le truppe fra Noli e Nizza.
Questa strategia avrebbe dovuto garantire, conservando le Riviere, il rifornimento di Genova e delle truppe francesi, dove vi era già penuria di vettovaglie. In quei tempi, la logistica cioè quella parte dell'arte militare che studia ed organizza i rifornimenti, trasporti di cibo e polveri da sparo era di complicata gestione. Per questo motivo se si spezzava una linea di rifornimento, qualunque esercito, anche se numeroso, poteva essere battuto; ecco perché gli Astrorussi cercarono di chiudere i francesi in una sacca a Genova. Napoleone calcolava con precisione millimetrica i suoi piani, era maestro nella velocità di spostare i suoi eserciti e nella rapidità di concludere le battaglie in modo da fare dipendere, al minimo, i suoi eserciti dai fattori logistici.
Melas, capo supremo austriaco, distribuì anch'egli il suo esercito lungo le Due Riviere, località per località, opponendosi ai Francesi in ogni luogo al fine di tagliare tutti i rifornimenti alla capitale della Liguria. Gli inglesi erano ben attenti intanto sui mari con la loro flotta. Il 6 aprile l'austriaco Ott assaltò il francese Miollis, nella Riviera di Levante e lo spinse fino al Bisagno; Hohenzollern, comandante Coalizzato, cacciò Gazan da Voltaggio ed il generalissimo Melas batté Gardanne tra S. Bernardo e Stella, occupando Savona. Elsnitz batté Suchet presso Finale e lo spinse oltre Loano.
Queste vittorie austriache tolsero tutte le vie di comunicazione all'esercito di Francia e gli Austriaci presero infine la Bocchetta, via d'accesso alla città di Genova. Qui i Francesi furono costretti a rinchiudersi e i Coalizzati si prepararono all'assedio. Le truppe napoleoniche erano formate da circa diciasettemila uomini ed i loro nemici da trentamila. Gli Inglesi, comandati dall'ammiraglio Keith erano pronti a bombardare Genova. Il 30 aprile, mentre i Britannici già sparavano con i cannoni dalle loro navi sulla città, gli Austriaci scendendo dal Monte Fasce, cacciarono i francesi dal Forte dei Ratti, occupandolo e cinsero d'assedio il Forte Richelieu.
L'obiettivo tattico era di attaccare la Porta Romana ed infatti riuscirono ad avvicinarsi a S.Martino d'Albaro. Dall'altra parte della città i Francesi perdevano le posizioni dei Due Fratelli e i Coalizzati si ponevano all'assedio delle fortezze dello Sperone e del Forte Diamante, dove per dovere di cronaca combatté anche Ugo Foscolo. Massena capì che doveva cercare di forzare l'assedio e tentare il tutto per tutto.
L'undici maggio assaltò il Monte Fasce e fece in modo che Soult penetrasse attraverso Olmo, Prati, Vignone e Travasco fino alle falde orientali del monte; gli Austriaci si ritirarono a Bogliasco ed i Francesi ne approfittarono per riprendere Nervi momentaneamente, al fine di rifornirsi di vettovaglie e fecero anche mille prigionieri austriaci. Massena sperò di spingere gli avversari oltre la Bocchetta e mandò all'attacco Soult e Gazan, i quali valorosamente combatterono, ma gli Austriaci resistettero e fecero retrocedere i Francesi, i quali furono poi battuti. Fu ferito ad un ginocchio da una palla di moschetto e fu preso prigioniero lo stesso Soult. Massena e Genova erano adesso alla mercé degli Austriaci .
L'assedio che i Genovesi dovranno subire sarà tremendo; ai cittadini si distribuì all'inizio un'oncia di pane a testa; Massena, privo di denaro per le paghe dei soldati, costrinse i genovesi a contribuire con cinquecentomila tornesi.
Da sottolineare che Massena, pagava circa quattromila facinorosi, che ricevevano giornalmente tre franchi oltre ad una razione di pane che veniva distribuita loro dai forni alle undici di notte, ora in cui vigeva il coprifuoco, che avevano il preciso compito di terrorizzare i cittadini che intendevano protestare per l'assedio. Il capo dei " bravi " era un certo Lanata.
Il quartier generale di Massena si trovava a Palazzo Ambrogio Doria, dove c'è l'attuale sede della Banca di Roma - in Piazza De Ferrari -, allora Piazza San Domenico.
Un certo Assereto, unitosi ad un certo numero di abitanti della Fontanabuona, si unì agli Austriaci e andò per le Riviere inneggiando alla ribellione contro i Francesi; gli Inglesi intanto bombardavano S. Pier d' Arena e Albaro, sperando di spaventare la popolazione e di farla rivoltare a Massena. Eroico fu il capitano di fregata Giuseppe Bavastro, nato a Genova S. Pier d' Arena, che al comando di una piccola galera genovese (la Prima) guidò un gruppo di imbarcazioni, il 20 e 21 maggio 1800, contro i due colossi del mare Audacious ed Aurora, della marina Britannica, opponendosi valorosamente al nemico. Nella città vi erano centoventimila persone destinate o meglio dire dannate a soffrire una terribile fame; Massena non si piegava né si spezzava e non voleva arrendersi;una libbra di riso si pagava sette lire, una di vitello quattro, una di cavallo 32 soldi, una di farina dieci lire o dodici, sei uova quattordici lire, la crusca trenta soldi alla libbra. Insomma, prezzi astronomici. Finì il grano e si sostituì con semi di lino, di paníco, di cacao, di mandorle, di gesso e si abbrustolivano e si cuocevano con il miele: anche con questo si impastava la crusca, in miscele stomachevoli. Finiti anche questi, il popolo andava raccogliendo tutte le erbe (ed erbacce) che si trovavano; donne nobili e plebee, ricchi, facchini, mendicanti e aristocratici, andavano vagando come fantasmi per gli orti del Bisagno e per le colline d'Albaro per prendere tutto quello che fosse commestibile.
Ci furono liti e risse per pochi ciuffi d'erba. I fanciulli orfani o abbandonati, cercavano per le fogne qualunque rifiuto o qualche bestia morta. Molti furono i suicidi; inoltre quattro o cinquemila austriaci prigionieri, erano tenuti sopra certe barcacce ferme in mezzo alla Darsena, mangiavano le loro scarpe e le pelli degli zaini e tentarono anche di forare le barche per affogarsi. Venne poi la terribile peste; i topi diventarono cibo prelibato e ci si picchiava per poterne mangiare uno. Però Massena non si piegava; aveva promesso a Napoleone di aspettarlo.
Finalmente la pazienza del popolo finì, per una guerra che in fondo non lo riguardava; il suo grido voleva finissero le sofferenze portate dagli stranieri; i Liguri non furono mai giacobini, non furono né filofrancesi, né filoaustriaci; moltissimi furono i morti per stenti e per malattie.
Il terrore della fame vinse, infine, la paura delle armi francesi e Massena pur rendendosi conto della situazione difficile rifiutò un'onorevole resa.
Gli Inglesi allora, rabbiosi, bombardarono furiosamente la città durante la notte e la rabbia dei cittadini verso i Francesi arrivò al limite; Massena riuní i suoi capitani e propose una sortita inaspettata contro il nemico, al fine di rompere l'assedio e dirigersi verso Nizza. L'idea fu considerata pazzesca fra i suoi ufficiali, tenendo conto che i Francesi erano ridotti a ottomila unità ed erano stremati dalla fame. Alla fine il comandante francese cedette e mandò una delegazione agli Austriaci a cui chiese una convenzione e non volle sentir nominare la parola "capitolazione ". Il quattro giugno, millecentodieci francesi lasciarono la città; il grosso delle truppe, fra cui lo stesso Massena fu portato via nave dagli Inglesi, verso Antibes ed il golfo di Juan, mentre un altro piccolo gruppo si avviò a piedi verso la Francia.
Gli Austriaci occuparono la lanterna ed il porto con l'armata di Keit, mentre il comandante Ott entrò trionfante in città. I Giacobini più compromessi, fra i quali l'anzianissimo Morando, l'abate Cuneo, l'avvocato Lombardi, i fratelli Boccardi dovettero partire con i Francesi onde evitare rappresaglie nei loro confronti. Il popolo, finalmente libero dalla fame cantava per le vie inni di ringraziamento, suonarono tutte le campane e furono accese luminarie.
A guardia della città fu posto Hohenzollern e gli Austriaci crearono una reggenza di cui fecero parte Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Giambernardo Pallavicino, Girolamo Durazzo, Francesco Spinola e Luigi Lambruschini.
Gli Austriaci si comportarono, né meglio né peggio dei Francesi.
Passò un po' di tempo ed intanto Napoleone raccolse il suo esercito e con circa sessantamila uomini entrò nella pianura italiana, occupò Aosta, Chatillon, Chivasso, Vercelli e cacciò gli austriaci da Milano ove entrò vittorioso il due giugno 1800, per ristabilire la Repubblica Cisalpina; il suo generale Lannes intanto riprese Pavia e Murat e Piacenza.
Dopo gli scontri di Caseggio e Montebello, ci fu la grande battaglia di Marengo ove Napoleone, perdente in un primo tempo riuscì a stento a vincere grazie all'intervento decisivo del comandante di cavalleria francese Kellerman che con circa seicento dragoni irruppe nel fianco delle truppe nemiche, sconvolgendole.
Di lui, Napoleone, nel futuro non parlerà mai, cercando di attribuire tutte le ragioni della vittoria a se stesso. Il comandante austriaco in capo Melas, chiese i patti ed alla convenzione di Alessandria si decise che i Coalizzati avrebbero tenuto la linea tra il Mincio, Fossa Mestra ed il Po, conservando Peschiera, Mantova e Borgoforte.
I Francesi si sarebbero invece stanziati presso le fortezze di Tortona, Alessandria, Milano, Torino, Pizzighettone, Arona, Cuneo, Ceva, Savona e Genova . Con una certa difficoltà i Francesi ripresero l'Italia ed in base al trattato sopra citato la Liguria, ritornò nelle mani della Francia.
Curioso fu il comportamento del comandante austriaco di Genova Hohenzollern, il quale dopo avere forzato i cittadini a pagare un milione di lire, " barattò " la città con i Francesi, dai quali prese altri soldi; le truppe napoleoniche vi entrarono, condotti dal Suchet, il 24 giugno. Napoleone mandò il suo consigliere Dejan a presidiare Genova, assieme ad una "Commissione di Governo" rivestita di tutti i poteri eccettuati quello giudiziario e legislativo.
I membri erano Giambattista Rossi, Agostino Maglione, Agostino Pareto, Girolamo Serra, Antonio Mongiardini, Luigi Carbonara e Luigi Lupi. Il potere legislativo fu affidato invece ad una consulta di cui facevano parte Luigi Corvetto, Emanuele Balbi, Girolamo Durazzo, Cesare Solari, Giuseppe Fravega, Nicola Littardi, Giuseppe Deambrosis, tutti presieduti dal francese Dejan. Questi lunghi elenchi di nomi, sono importanti perché la scelta cadeva, logicamente fra i simpatizzanti francesi, così come i nomi dei reggenti austriaci che li avevano preceduti, erano invece avversi alla Francia. Questo per dimostrare come l'ingerenza straniera negli affari politici dei Liguri era determinante di tutti gli avvenimenti.
Ben conosceva Bonaparte, lo spirito indipendistico dei Liguri, e capì che la sua strategia doveva essere improntata a mettere la Repubblica di Genova in una condizione tale per cui o accettava l'unione alla Francia o sarebbe perita, data la situazione internazionale, economicamente, smembrata fra gli stranieri.
La situazione per la Repubblica Ligure era pessima " i Francesi la spogliavano di denaro, gli Inglesi ne bloccavano i porti ed intanto anche la natura, per colpa delle guerre straniere, ci si mise contro. L'epidemia di peste si espandeva sempre più e la mortalità fu altissima nei mesi di giugno e luglio, conseguenza delle cattive condizioni igieniche relative all'assedio ed al caldo. Nel 1800 il numero di morti nella città fu di 12.492 cittadini contro i 3.700 dell'anno precedente, con un aumento del 300%.
Nel 1802, dopo la momentanea pace tra la Francia ed Austria, il 19 giugno, Napoleone deliberò una nuova costituzione per la Repubblica Ligure, con la forma meno " giacobina " ma più vicina agli interessi dell'aristocrazia (qui si dimostra come non esistevano " ideali " democratici, ma solamente interesse di potere politico da parte francese ).
Fu deciso, per l'appunto, che la Repubblica fosse retta da trenta Senatori, presieduti dal Doge e che il potere esecutivo fosse dato a cinque magistrati (Supremo, di Giustizia, di Legislazione, dell'Interno, della Guerra e del Mare e delle Finanze) . Il nuovo sistema tendeva a centralizzare il potere, in modo da poterlo controllare più agevolmente; inoltre Napoleone volle che a Genova si fondasse un arsenale di costruzione navale (militare) e che la Repubblica possedesse un armamento marittimo composto almeno da due fregate e quattro corvette e due vascelli da settantaquattro cannoni e che tre milioni di lire fossero assegnate per le spese della marina, inoltre nuove imposte avrebbero dovuto fruttare nove milioni di denari.
Il Bonaparte, creò tre collegi: quello dei Dotti, dei Possedenti e dei Negozianti, tutti con potestà politica civile amministrativa, che avevano il potere (e qui mi trovo d'accordo con questa norma) di rimuovere due Senatori o anche due Giudici per tribunale, due giureconsulti e due consultori. Cioè a dire che i rappresentanti diretti delle categorie sociali avevano il potere di censurare e mandare via gli amministratori incapaci.
Il 29 giugno 1802 entrò in carica il nuovo Governo, di cui supervisore era il famoso corso, amico di Napoleone, Saliceti, Ministro Plenipotenziario di Francia. Bonaparte elesse direttamente i Senatori ed il Doge nel nome di Girolamo Durazzo.
Si inaugurarono due statue di marmo nell'atrio del Palazzo Ducale, una di Napoleone e l'altra di Cristoforo Colombo al fine di creare un'unione ideale fra le due nazioni . I Sarzanesi fecero anche una petizione al Governo Ligure per poter erigere nella loro città un monumento dedicato alla famiglia Buonaparte, in quanto si affermava che questa aveva avuto origine tre secoli prima a Sarzana, ove si erano trovate scritture autentiche dell'epoca sul fatto.
Il 18 maggio 1804, Napoleone abrogò il consolato e si incoronò Imperatore di Francia. Saliceti fece il possibile per fare in modo che il Doge Durazzo, il cardinale di Genova Spinola ed i Senatori Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue e Scassi si presentassero tutti al cospetto dell'Imperatore a Milano per fargli omaggio e dare cosí segno di sottomissione. Il Doge stesso poi considerò che non rimanesse ai Liguri altra scelta, perchè la Francia, se avesse voluto, con il suo esercito vincitore avrebbe spianato Genova. Saliceti, al fine di prevenire un rifiuto del Doge e dei Senatori, dichiarò che la Repubblica Ligure si sarebbe trovata in una grave situazione politica, dal punto di vista internazionale se avesse continuato a rimanere indipendente in quanto l'Inghilterra aveva dichiarato al famoso congresso di Amiens che la Repubblica Ligure non sarebbe stata riconosciuta se non fosse tornata alle vecchie forme di governo.
Inoltre i mari erano infestati dai Barbareschi (pirati africani, ferocissimi) e che le comunicazioni terrestri della Liguria erano diventate impraticabili anche per il rigido sistema doganale francese: insomma Saliceti affermava, con tanti giri di parole, che i Liguri avrebbero ovviato a questi problemi solamente se avessero chiesto, badate bene l'artifizio diplomatico, l'annessione all 'Impero Francese dal quale avrebbe avuto allora totale protezione. In fondo non sarebbe stato un male riassumere le antiche forme di governo, ma restare però indipendenti ed in buoni rapporti con tutti. Il piano di Saliceti portò alla corruzione alcuni Senatori, per fare nascere la paura nel Governo Ligure che non ci si sarebbe potuti difendere contro gli Austriaci ed Inglesi.
Il cuore del problema era che non esisteva un forte esercito ligure.
Così come il primo Doge di Genova, Boccanegra, portò in trionfo il popolo, l'ultimo Doge Durazzo, fu costretto, con minacce velate di diplomazia e dalla paura della distruzione con l'accerchiamento dal mare e dai monti, a porre ai piedi di Napoleone Bonaparte la libertà della sua patria.
Nel lontano 1685 un altro Doge, il Lercaro, andò supplichevole a Versaglia ai piedi di Luigi Decimo Quarto: ma poi l'indipendenza tornò.
Napoleone disse che non vi era altra strada per i Liguri che diventare sudditi della Francia sotto la protezione dell'aquila imperiale. La tesi dell'Imperatore era che se egli avesse abbandonato la Liguria, questa sarebbe perita nei commerci finendo smembrata fra le fauci delle diverse potenze straniere; prevalse il diritto del più forte, come sarà poi con i Savoia e non certo ebbe mai ragione il diritto internazionale. Saliceti fece esporre al pubblico dei registri ove i Genovesi avrebbero dovuto sottoscrivere la loro intenzione di unirsi alla Francia, con una specie di referendum ma quasi nessuno firmò. ed allora il Saliceti disse che "il silenzio si doveva interpretare come voto affermativo" e consegnò la nota al Doge attestando che la maggioranza del popolo voleva l'annessione .
Confermato, o meglio dire, imposto l'impegno di unione si stabilì : che il Debito Pubblico Ligure sarebbe stato assoggettato alle leggi francesi, che fosse conservato il porto franco, che si sarebbero creati tre Dipartimenti Liguri comprendenti quello di Genova, quello di Montenotte e quello degli Appennini.
Per effettuare l'unione fu inviato dapprima Champigny e poi il principe Lebrun, arcitesoriere dell'Impero, il quale avrebbe dovuto sistemare lo Stato Ligure secondo la legislazione dei cugini d'oltralpe.
La costituzione del 1802 fu abrogata, le insegne liguri furono rimosse e sostituite da quelle francesi. L'ex Doge Durazzo, fu eletto, quasi per scherno, prefetto provvisorio di Genova.
I Liguri chiesero come prima cosa la protezione navale contro i terribili barbareschi, la qual cosa avvenne immediatamente senza combattimenti. Tanto che sorse il dubbio che i pirati stessi furono usati dai Francesi stessi al fine di far chiedere aiuto dai Liguri che vedevano chiuse le loro linee marittime. Morì così la Repubblica Ligure che venne annessa alla Francia nel 1805; il 30 giugno 1806 l'Imperatore Bonaparte arrivò a Campomorone, avviandosi poi verso Genova dove il sindaco, o meglio dire " maire " alla francese, Michelangelo Cambiaso, eletto da Lebrun gli consegnò le chiavi della città.
Napoleone poi si recò alla chiesa di San Teodoro dove lo aspettava il Cardinale di Genova. Fatte le cerimonie, il corteo si recò a Palazzo Doria, sontuosamente preparato e da lí Bonaparte uscì dalla porta che metteva a mare per mezzo di una galleria artificiale sulle acque ed arrivò ad un pantheon in mezzo al mare, chiamato per l'occorrenza di Nettuno era questa una grossa zattera con un prato di fiori e verdure e retta da sedici colonne vi era una cupola ornata di pitture ed ori. Napoleone si avviò in compagnia della moglie , Giuseppina. Sopra la cupola vi era una adulatoria epigrafia redatta dal padre scolopio Solari, studioso ellenista . Strana e contraddittoria da approfondire l'influenza dei vari ordini religiosi del tempo; non dimentichiamo, per esempio, che la cultura torinese, era in mano ai Gesuiti. Quando l'Imperatore e l'Imperatrice furono ben sistemati sulla strana zattera - prato, questa fu lasciata andare alla deriva verso l'ingresso del porto e ci si fermò nel mezzo. Poi accorsero barchette, battelli e iniziò la regata che fu vinta dalla bandiera del Ponte Spinola. Dopo la pomposa festa acquatica, Napoleone si recò a casa di Gerolamo Durazzo dove vi fu un grande ricevimento. Furono consegnate le insegne della Legion d'Onore e l'Imperatore ordinò che fosse restituita la statua di Andrea Doria (per imbonirsi gli aristocratici ).
I Giacobini furono il mezzo con cui i francesi ruppero l'unità di Genova ed ora erano ripagati con forti ammiccamenti francesi alla nobiltà; Napoleone partì il giorno dopo lasciando a comandare Genova il principe Lebrun.
L' economia ligure fu asservita agli interessi francesi; le devastazioni che essa dovette subire per essere infine assoggettata alla Francia recavano un colpo mortale alle risorse economiche; la politica continentale, mossa dall'Inghilterra, aveva messo Genova ed il suo porto in una situazione critica, già prima del dominio francese, riducendo il suo ruolo al commercio intra - mediterraneo; le nuove strade del Moncenisio, del Sempione e del Monginevro, create da Napoleone, facilitarono agli eserciti francesi, ad ogni occasione, di poter rapidamente venire in Liguria per opprimere ogni tentativo di ribellione. Fu imposta la lingua francese nei documenti ufficiali liguri e un grave danno subirono gli antichi idiomi, le tradizioni ed i costumi in genere. La coscrizione obbligatoria voluta dai Francesi, tolse la gioventù ligure dagli studi e dal lavoro mettendo in crisi l'artigianato, l'agricoltura ed i commerci; tanti ragazzi delle nostre terre furono mandati a morire in terre lontane, sotto bandiera straniera .
Svanito il potere dei nobili, voluto dalla Francia rivoluzionaria , la Repubblica visse nell'anarchia; la Seconda Coalizione creò un formidabile blocco commerciale e furono moltissimi i commercianti che per questo motivo lasciarono le città liguri. Per mantenere l'esercito francese si crearono nuove imposte insostenibili per il popolo; non furono mai restituiti gli enormi prestiti che i Liguri fecero alle corti straniere, compresa quella francese; su un deficit di quasi sei milioni, più di quattro milioni di lire gravavano per le vettovaglie delle truppe francesi, che si lamentavano continuamente oltre a maltrattare il popolo. Il costo totale per mantenere l' esercito straniero fu di più di venticinque milioni. La Francia razziò tutta la flotta ligure, praticamente distruggendola nella campagna d'Egitto. I prestiti totali fatti alla Francia, furono di quaranta milioni di lire, che non vennero mai restituiti e quindi meritano l' appellativo di " confiscati " e non quello di imprestati. Saliceti eliminò il partito indipendentista rappresentato da alcuni Senatori (Serra e Pareto) e tramò affinché il Senato Ligure fosse formato solamente da membri fedeli alla Francia. L'annessione della Liguria all'Impero d'oltralpe fu sancita ufficialmente il 1º giugno 1805; ma fu un atto formale in quanto le terre della vecchia e gloriosa repubblica di Genova erano già da tempo, di fatto, nella sfera d'influenza politica francese.
Nel 1786, Genova e la Liguria tutta, si stavano preparando ad un grande slancio economico che avrebbe dovuto portarle a primeggiare nel commercio europeo, infatti fu fondata la "Società Patria delle Arti e Manifatture " che affermò, per la prima volta nelle nostre terre, teorie liberistiche (Cfr. A. Balletti, L'economia politica nelle accademie e ne' congressi 1750 -1860 Modena 1891, pp 26-29). uesto importante movimento di progetto economico, fu frustrato dal fatto che le linee marittime del Mediterraneo furono continuamente disturbate da Inglesi e Barbareschi, certamente a fini precisi, quelli cioè di fermare l'espansione economica del porto di Genova perché concorrenziale con il Regno Unito.
Certamente una soluzione per la Liguria, sarebbe stata quella di trovare un accordo con una grande potenza, che le assicurasse protezione alle sue navi mercantili, conservando beninteso l' indipendenza. Quando l'ultimo Doge Durazzo, si recò da Napoleone per dargli in mano la Liguria, si chiese apertamente all'Imperatore di favorire almeno l'esportazione ed il commercio dei prodotti liguri , in modo che fossero almeno eliminate le barriere doganali tra Francia e Liguria. Queste ultime furono effettivamente tolte, ma non ci fu nessun miglioramento dei commerci, anzi il fisco impose nuove tasse, dazi e pesi di ogni tipo (C. Mioli, La consulta dei Mercanti genovesi, Genova, 1928) che mostrarono come Napoleone voleva unicamente sfruttare il Popolo Ligure.
La Francia che era certamente più progredita industrialmente della Liguria, invase con i suoi prodotti le nostre terre, con prezzi molto bassi e frustrò tutte le nostre piccole industrie; il retroterra naturale, di cui aveva bisogno la Liguria era il territorio lombardo, ma come quest'ultimo fu unito alla Francia fu impossibile difendersi contro la concorrenza di Marsiglia che faceva transitare i suoi prodotti per la via di Lione; risultato definitivo, a risposta di quelli che affermarono che i Francesi portarono la "democrazia" si risponde, prove alla mano, che portarono invece al totale decadimento dei commerci e delle industrie liguri a tutto vantaggio degli imprenditori d'oltralpe.
Fu certo creata a Genova una Guardia Nazionale, di cui ve ne sarebbe stato in passato certamente bisogno, si ricostituì il Banco di San Giorgio e si formò una Camera di Commercio assieme alla riorganizzazione dell'Università, ma furono, questi miglioramenti che sparivano di fronte al disastro dell'economia ligure. A questo bisogna aggiungere che le strade napoleoniche interessanti interessavano Genova, avevano più un interesse militare che commerciale; quelle che dovevano avere quest'ultimo specifico interesse furono progettate ed appena incominciate come quella della Cornice o quella per Bobbio e Piacenza, tutte mai terminate.
L'industria genovese, a carattere prevalentemente artigianale, esigeva nuovi sbocchi; notevole era l'industria ed il commercio dei tessuti di cotone, di cui esistevano una ventina di fabbriche; notevolissima l'industria della carta da scrivere (e da gioco) considerata una delle migliori perché fabbricata con acqua a bassissimo contenuto di ferro, quindi con la caratteristica di non prendere, invecchiando, macchie rossastre. Un migliaio di famiglie si tramandavano la fabbricazione e l'esportazione di velluti, damaschi e rasi, vendendo a tutto il Nord Europa; nel Ponente era floridissima, lungo tutti i paesini del litorale, l' industria dei filatoi e vi erano più di diecimila telai per la seta, anche nell'entroterra, particolarmente a Novi, la cui produzione era a livello qualitativo conosciuta in tutta Europa; non mancava la celebre industria di merletti, pizzi, ricami, fiori artificiali e le fabbriche di coralli; non dimentichiamo le costruzioni navali con commesse da tutto il continente europeo (C. Barbagallo - Le origini della grande industria contemporanea - vol.II ). Il lasso di tempo tra il 1805 ed il 1814 e gli anni seguenti segnerà il passo per il decadimento progressivo del commercio ligure, cominciato per azione dei Francesi e proseguito dai Savoia.
Se la popolazione ligure cercava un'unione (plebiscitaria e democratica) certo l'avrebbe desiderata con la Lombardia, indipendente e repubblicana però. Grandi interessi legavano Liguria e Lombardia da secoli: la necessità di un'unione commerciale e non solo, è da ricercarsi nei rapporti con i Visconti nei secoli XIV e XV. Fu reale l' idea di un'unione della Liguria con la Cisalpina e trattative furono iniziate; particolarmente i Milanesi vedevano molto bene la possibilità di avere uno sbocco marittimo a Genova; purtroppo il ministro francese di Napoleone, Talleyrand, abilissimo negli intrighi fece andare a monte il progetto di unione ligure-cisalpino; certamente la storia stessa del Risorgimento avrebbe avuto un corso diverso se tale programma fosse avvenuto e così i destini d'Italia, che avrebbero visto primeggiare nella sua unità non le forze miopi e retrive della Monarchia Piemontese ma nuove forze imprenditoriali che si sarebbero certo rese presto attive sul piano europeo.


L’ANNESSIONE DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ALLA CORONA SABAUDA


All’indomani della sconfitta dei Francesi, il Congresso di Vienna, cui la Repubblica di Genova partecipa sovrana, decide con atto d'imperio l'annessione della Repubblica Genovese, al Regno Sardo governato dai Savoia. Col Proclama del 26 dicembre 1814 la Repubblica di Genova "depone" la sua secolare sovranità; all'inizio di gennaio del 1815 i Savoia prendono possesso di Genova. Atto per alcuni giudicato illegittimo in quanto il popolo genovese non è stato chiamato a votare un plebiscito che ne sancisse tale annessione.
Già nel 1813 il rappresentante austriaco a Napoli, conte Neipperg, propose al re di Napoli Gioachino ed all' Inglese Lord Bentinck , comandante in capo delle truppe britanniche in Italia, un piano d' attacco contro i Francesi che consisteva in uno sbarco a Livorno e da lì proseguire per la Riviera di Levante della Liguria per arrivare infine ad occupare Genova.
Il piano venne messo, in seguito, in pratica ed il giorno 8 marzo 1814 Lord Bentinck occupò la città di Livorno. Il 26 marzo, il comandante inglese partì con il suo esercito alla volta del capoluogo ligure; le sue armate erano formate da: 1600 Siciliani e Calabresi, al cui capo vi era il brigadiere Roth, da 3400 Inglesi capitanati del generale Montresor; vi erano inoltre truppe miste anglo - sicule a cui si aggiungevano parecchi mercenari, formate da circa 7000 elementi, comandati dal generale Mac Farlane e dai colonnelli Travers e Ciravegna. L'esercito anglo - siculo passò il fiume Magra ed attaccò il fortino di Santa Maria, che sta all'ingresso del golfo di La Spezia, occupandolo il giorno 30.
L'esercito proseguì nel suo cammino, anche se lentamente, verso Genova. Lord Bentinck, comportandosi in modo falso, fece intendere ai Liguri di essere apportatore di libertà; infatti giunto a Chiavari fece promulgare un proclama in cui si dichiarava che "le Potenze alleate avevano l'intenzione di restituire l'indipendenza alla Liguria"; inoltre alla testa delle sue truppe fece sventolare un vessillo con scritto "Libertà dell'Italia"
Man mano che si avvicinava a Genova , in tutti i paesi che attraversava, faceva issare la bandiera dell'antica Repubblica, con grande entusiasmo della popolazione. La situazione generale nel capoluogo era drammatica; i negozianti ed i commercianti vedevano i loro affari fermi per causa dei Francesi, la nobiltà era stata particolarmente vessata dalla politica filogiacobina ed aveva depauperato gran parte delle sue ricchezze nelle casse di Francia e le classi più povere avevano certamente sofferto notevolmente di riflesso le grosse difficoltà economiche delle classi ricche. Tutti i Liguri erano però d' accordo su un punto preciso: desiderare l'indipendenza e la libertà che erano andate perdute.
Bentinck giunse il primo aprile a Nervi, dove insediò il suo quartier generale presso il Palazzo Fravega e dispose le sue truppe lungo Sturla. I Francesi comandati dal generale Fresia erano circa quattromila ed inoltre vi erano quattro coorti di Milizia Nazionale, da poco formate. Ci fu battaglia ed il 16 aprile i Francesi furono sconfitti, anche se erano in buone posizioni difensiva attestati sui forti Richelieu e Santa Tecla; frattanto giungeva davanti al porto di Genova la flotta inglese comandata dal contro - ammiraglio Pellew.
La città era stretta da una morsa: un attacco dal mare ed uno da terra la minacciavano . Il popolo genovese cominciò allora a protestare ed i giorni 14 e 15 aprile ci furono delle sommosse in cui si gridava di non voler più guerre ma pace e si inalberava per le strade l'antica bandiera repubblicana. L' insurrezione popolare contro i dominatori francesi, portò alla distruzione della statua di Buonaparte, i Francesi venivano insultati per le pubbliche vie e le minacce furono particolarmente rivolti al prefetto Bourdon, certamente ingrato ai Genovesi. Si arrivò addirittura a minacciare il generale Fresia, che risiedeva a Palazzo Spinola in salita Santa Caterina. Il sindaco della città Vincenzo Spinola si recò quindi assieme al cardinale Spina dal generale Fresia per convincerlo a non tentare una difesa perché la cittadinanza non voleva certamente soffrire un altro assedio come quello del 1800; fu deciso di mandare una deputazione presso il comandante Lord Bentinck per trattare i patti.
I membri della deputazione, Agostino Pareto ed Emanuele Balbi chiesero all'inglese la tregua delle armi. La risposta fu negativa ma la negoziazione continuò, finché il sindaco Spinola si recò, questa volta accompagnato dai soldati Liguri della Milizia Nazionale, ancora una volta dal comandante francese, ove fu chiarito in termini minacciosi che la volontà popolare era per una resa onorevole dei Francesi e che un proseguo delle ostilità avrebbero visto le Milizie Liguri ed il popolo contro i soldati Francesi e sarebbe stato impossibile fermare una insurrezione su larga scala. Cosí Lord Bentinck s'impadronì di una delle città più difese d' Europa, con 292 cannoni, perdendo solamente 32 uomini, per merito dei Genovesi .
La resa della città fu trattata da parte francese dal colonnello Dubignon e dall'Ispettore delle Riviste Chopin . Questi si recarono al Comando Inglese a San Martino d'Albaro e là si incontrarono con i rappresentanti degli Inglesi gen. Mc Farlane e il colonnello Boverly. Fu la capitolazione dei Francesi e nei patti si accordarono gli onori delle armi ai perdenti; si dimenticò però, fatto normale per quei tempi, di introdurre nelle condizioni di resa, gli articoli che garantissero gli interessi dei cittadini della città occupata.
L'accordo, comunque, fu ratificato da Lord Bentinck, dal contro - ammiraglio Pellew , dal comandante francese Fresia e da Luca Solari a nome del Municipio di Genova . Il giorno 18 aprile i militari Inglesi fecero ingresso nella città; lord Bentinck si stabilí nel palazzo del marchese Durazzo in Via Balbi.
La sera di sabato 20 aprile si recò da lui il giurista Benedetto Perasso assieme a Giuseppe Fravega e Giambattista Carrega in rappresentata dei Liguri. Perasso perorò subito la causa del ritorno alla vecchia Repubblica, ma trovò, inaspettatamente, Bentinck molto renitente a questa prospettiva.
Dobbiamo, a questo punto fare due importanti premesse: la prima riguarda il fatto che il Popolo Genovese contribuì, in modo determinante a cacciare i Francesi; il gen. Fresia , infatti, si arrese solamente quando capí che ci sarebbe stata un' insurrezione della città e delle Milizie Liguri, quindi si deve dare atto che la popolazione di Genova non si comportò da nemica contro il Bentinck, credendolo apportatore d'indipendenza. La seconda, importantissima, è relativa al trattato di Amiens, sottoscritta da tutte le Potenze alleate, fra cui primeggiava l' Inghilterra, in cui si affermava in modo preciso, che tutte le Nazioni occupate dai Coalizzati SAREBBERO DOVUTE TORNARE AL LORO STATO DI DIRITTO QUALI ERANO PRIMA DEL 1789 e che in ogni caso l'occupante AVREBBE DOVUTO LASCIARE INALTERATA LA FORMA DI GOVERNO ESISTENTE PRIMA DELLA INVASIONE FRANCESE. Questo a dimostrazione esemplare di come L'ANNESSIONE AI SAVOIA FU ATTO COMPLETAMENTE ILLEGALE PER LE LEGGI INTERNAZIONALI D 'ALLORA E DI OGGI .
I Liguri parteciparono inoltre direttamente nella battaglia contro i Francesi, infatti all'esercito di Bentinck si unirono, man mano che procedeva verso Genova, un grosso corpo di volontari montanari dell'entroterra rivierasco capitanati dal Leveroni. Questo si aggiunge a pieno titolo a quanto affermato sopra e cioè che i Liguri rivoltandosi contro i Francesi, avevano pieno diritto di non essere trattati come nemici, o peggio, di schiavi, come poi avvenne.
Gli Inglesi occuparono militarmente Genova il 18 aprile 1814; i delegati dei Genovesi, con a cuore le sorti della propria patria, speravano di capire cosa tramassero gli Inglesi: infatti il diretto superiore di Bentinck, che era il Segretario di Stato Inglese Lord Barthutst, dette ordine di tenersi continuamente in contatto con i Savoia, al fine di creare le basi per prendere, come poi avverrà, possesso della Repubblica Ligure, per conto del Re di Sardegna. Prova che ne è la lettera che Barthurst scisse a Castlreagh, capo della Diplomazia Britannica: " ... Mylord ... tutti i genovesi richiedono il ritorno della loro antica Repubblica e non c'è cosa che gli spaventi di più quanto l' idea di poter essere uniti al Piemonte, paese contro il quale in ogni tempo hanno provato avversione...." .Il visconte Lord Castlreagh gli rispose il sei maggio 1815 con una lettera, di cui cito il passo più rilevante: " Vostra Signoria....eviterà di parlare dell' antica forma di governo (repubblicana) ai Genovesi ".
Mentre Bentinck continuava ad affermare che era giunto in Liguria per caso (essendo un soldato) e che egli poco poteva fare, in quanto obbediva agli ordini dei suoi superiori: i rappresentanti dei Genovesi dopo aver studiato la situazione dal punto di vista del diritto internazionale, trovarono negli atti della Pace di Amiens, come già accennato, l' esplicita dichiarazione dell' Inghilterra in cui si affermava perentoriamente che si avrebbe riconosciuta la Repubblica di Genova come indipendente e come Stato se la costituzione di quest' ultima fosse stata diversa da quella avuta dopo il 1797 . Occorreva eliminare la" Costituzione Giacobina " per essere riconosciuti da tutte le Potenze Europee che avevano battuto Bonaparte.
Perasso disse a lord Bentinck che la nuova costituzione, che i Liguri stavano preparando, era basata su quella del 1576 e che nulla aveva a che vedere con quella del 1797. Bentinck proclamò allora riconosciuta l'antica Repubblica di Genova il 26 aprile 1814, sebbene in via provvisoria e con un Governo i cui membri erano stati nominati direttamente da lui stesso . Il rappresentante dei Liguri disse chiaramente agli Inglesi che i Liguri volevano formare un insieme di cittadini elettori ed eleggibili democraticamente, nella quale tutte le classi fossero ammesse, come era nello spirito della Costituzione del 1576. Il 23 maggio, Bentinch impose che il governo di Genova fosse dato in mano alla nobiltà ereditaria .
Il Governo provvisorio, elesse il marchese Agostino Pareto quale rappresentasse della Repubblica di Genova a Parigi, ove si svolgevano i lavori preparatori al Congresso di Vienna. Pareto, figura eminente di nobile illuminato, cercò con tutte le sue forze di perorare la causa dell'indipendenza della Liguria e dei suoi interessi commerciali. Egli contattò i Genovesi che risiedevano a Parigi, sperando di trovare aiuto; infatti lí accordò con Luigi Corvetto ed il marchese Stefano Rivarola per preparare un documento (redatto dal Corvetto) in cui si chiedeva ai Sovrani Alleati vincitori della Francia, di restituire la Liguria alla sua antica indipendenza e libertà da ogni giogo straniero.
Finalmente il 14 giugno 1814 il Pareto fu ammesso a Lord Castlereagh, il quale, quale rappresentante in capo della diplomazia britannica, affermò che era già stata decisa L'ANNESSIONE FORZATA DELLA LIGURIA AL REGNO DEI SAVOIA E CHE IN OGNI CASO L'INDIPENDENZA SAREBBE ANDATA PERDUTA !
A nulla valsero le accese rimostranze del Pareto, il quale disse esplicitamente che il Piemonte avrebbe sicuramente gravato la Liguria di nuove tasse, come i Francesi già fecero, e questo avrebbe distrutto l'economia ligure, senza dimenticare il lato più importante che riguardava l'assurdità giuridica di annettere contro la sua volontà uno stato libero ad un altro in netto contrasto con i principi espressi poi dallo stesso Congresso di Vienna. Ogni opposizione fu inutile; il Pareto cercò allora di essere ricevuto dall'Imperatore dell'Austria e da quello di Prussia e di Russia. Nessuno riconosceva ufficialmente il Pareto, per la semplice ragione che non si riconosceva la Repubblica di Genova. Il Pareto infine chiese di essere ammesso come privato e come tale fu ammesso al cospetto del Metternich e dall' Imperatore d' Austria.
Stranamente il Metternich, che ricevette il Pareto lo stesso giorno, si comportò in modo cortese, perlomeno senza ironia, anche se disse in modo chiaro che sarebbe stato impossibile per la Liguria conservare l'indipendenza; a nulla valsero le argomentazioni del Pareto sul fatto che da quasi duecento anni tra Liguria e Piemonte vi erano dissapori e che i Genovesi avrebbero preferito un'unione con il Milanese. In ogni modo il 30 maggio si chiuse il Trattato di Parigi, prologo al Congresso di Vienna . La seconda clausola segreta del Trattato affermava l'assoggettazione della Repubblica Ligure al Regno di Sardegna.
La risposta dei Genovesi alle brutte notizie del Pareto fu articolata in due punti : la Liguria voleva rimanere indipendente, che tutto il territorio Ligure rimanesse libero di commerciare con Lombardia e Toscana.
Il marchese Antonio Brignole Sale fu eletto dai Liguri (sottolineo che facevano parte del Governo Provvisorio i rappresentanti delle due Riviere) quale rappresentante al Congresso di Vienna. Diciamo subito che allora le trasmissioni erano difficoltose e un filo di speranza era rimasto ai Liguri, perché tutto era stato comunicato ufficiosamente e quindi non si sapeva con certezza quali erano i contenuti degli articoli " segreti " . Quindi era lecito pensare che forse al Congresso di Vienna ci sarebbero potute essere state modifiche al Trattato di Parigi. Il marchese Brignole sale partì con il suo segretario di Finale, Giorgio Gallesio, per Vienna dove arrivarono il 2 settembre 1814. Il Congresso cominciò ai primi di novembre.
Il marchese cercò prima dell'apertura di avere dei contatti ma non gli furono accordate udienze . Questo perché la Liguria non era riconosciuta nè come entità politica territoriale nè come popolo. Il Governo di Genova, saputo del pericolo reale di perdita totale della libertà, inviò un dispaccio al Marchese il 12 novembre raccomandandogli di non desistere, per ogni minaccia che venisse fatta, dal chiedere l'indipendenza. Il Brignole Sale protestò presso i Ministri avversari riaffermando che la Nazione Genovese non aveva alcuna intenzione di essere aggregata al Piemonte e che tale annessione sarebbe stato un atto di violenza. Quella violenza che proprio il Congresso di Vienna diceva di volere combattere, adesso si ritorceva contro un piccolo Stato la cui indipendenza era tanto antica. Nel frattempo il ministro piemontese, il marchese di San Marzano, al congresso sorvegliava il Brignole Sale e chiedeva continuamente che fosse reso esecutivo il secondo articolo segreto del Trattato di Parigi.
Frattanto il Brignole Sale, che non sapeva più che fare, redigeva l'undici ottobre uno scritto in cui affermava che la Repubblica di Genova aveva tutto il diritto di essere libera perché essa da indipendente che era fu aggregata con la forza alla Francia napoleonica e quindi l'indipendenza legale era un diritto sacrosanto e che sarebbe stato un assurdo giuridico trasmettere, con l'occupazione di uno Stato, il diritto di occupazione ad un altro Stato.
In altre parole: la Liguria era libera, fu occupata con la forza ed ora doveva tornare libera, perché non aveva attinenza col diritto internazionale trasmettere un diritto di guerra dai Francesi al Re di Sardegna per il semplice fatto che quest'ultimo faceva parte della Coalizione che aveva vinto la Francia.
Inoltre le otto Potenze vincitrici avevano esse stesse proclamato al Congresso di Vienna che gli Stati che esistevano prima della Rivoluzione Francese si dovevano considerare legittimi; ora è un dato di fatto che la Repubblica di Genova era Stato di diritto legittimo e non poteva perdere i suoi diritti.
Quindi visto che giuridicamente i Liguri avevano ragione e che era inammissibile, sempre da punto di vista giuridico, la violenza che si stava facendo alla Repubblica di Genova occorreva rapidamente il "colpo di spugna", anche perché ad esempio gli Spagnoli, per mezzo del loro rappresentante il Cavaliere del Labrador, cominciavano ad avere dei dubbi sul valore legale dell'annessione forzata. Infatti l'inglese Castlereagh con veemenza affermò che il secondo articolo segreto doveva essere attuato subito senza essere modificato perché a Genova c'era il rischio di formazioni rivoluzionarie; la sua arringa fu così impetuosa che purtroppo tutti i ministri delle otto Potenze deliberarono l'annessione senza nemmeno consultare il rappresentare dei Genovesi, peraltro eletto da un Governo che era stato formato dagli Inglesi stessi!
A nulla valsero le lettere di protesta dei Genovesi tramite il marchese Brignole Sale contro la lesione dei loro diritti; anzi Lord Castlereagh diede subito ordini al colonnello Darymple di occupare Genova con altre truppe onde prevenire disordini e di consegnarla nelle mani del Re di Sardegna.
Il giorno 27 dicembre 1814 il comandante inglese prese possesso militare della città ed ordinò, pena l'arresto, a tutti gli abitanti dello Stato Genovese di "prestare la dovuta obbedienza alle autorità amministrative, municipali e giudiziarie di Sua Maestà il Re di Sardegna".
Il primo gennaio 1815 la Liguria finí sotto il dominio dei Savoia. Contro la volontà del suo Popolo.
La politica economica piemontese appare contraddittoria fino ai primi anni del regno di Carlo Alberto. Da un lato applicò un protezionismo severissimo, con monopoli, privilegi e dazi che bloccavano tutte le iniziative liberistiche, dall'altro tese a proteggere la marina e a stringere rapporti commerciali con i Turchi e le Americhe, con risultati scarsissimi.
Dobbiamo ammettere che dopo il 1815 tutta l' Europa fu altamente protezionistica, ma in Piemonte l' interesse delle classi agricole, che fu antitetico a quelle commerciali genovesi, portò ad un forte contrasto fra le due regioni. In altre parole, mentre i commercianti genovesi avrebbero voluto potere lavorare, attraverso il porto, con i mercati di tutto il mondo, le lobby agrarie del Piemonte, arretrate e chiuse, fecero di tutto per fare elevare i dazi e impedire ai liguri di commerciare.
I Genovesi, per tradizione, avevano due sistemi principali di investimento: il primo, consisteva nel fare prestiti alle banche estere, il secondo, più radicato nella cultura ligure, consisteva nel commercio di commissione. Vi era allo stato embrionale, dopo l'apertura delle nuove strade che mettevano praticamente la Liguria in contatto diretto con tutta la Europa, la possibilità di passare dal commercio di semplice commissione a quello diretto di importazione ed esportazione. Questo avrebbe enormemente sviluppato il commercio genovese e di conseguenza delle Due Riviere.
Malauguratamente, la politica doganale del Piemonte, come era da aspettarsi d'altronde, all' indomani dell'annessione, fu basata sul protezionismo puro ad oltranza, che anzi andò, col passare del tempo, a farsi sempre più miope, tanto che toccò livelli altissimi intorno al 1830, sprofondando Genova e la Liguria tutta nella miseria.
Dopo il periodo giacobino rivoluzionario ed i lunghi anni delle guerre di Napoleone, la Liguria, economicamente rovinata, si sarebbe potuta risollevale con un'intelligente politica doganale, che si sarebbe dovuta basare su saggi principi liberisti ; invece il Governo Piemontese, cancellò tutte le riforme dei Francesi (perché dannose all' assolutismo monarchico) ma non le sostituì con alcunché che potesse in qualche modo, anche minimamente, risollevare il commercio da un così lungo periodo in crisi.
Il Piemonte mantenne le barriere doganali con la Liguria (non si capisce di che tipo di annessione si può parlare, se non per spillare soldi dalle tasche dei Liguri) perchè intendeva soprattutto aumentare le entrate per il fisco. Ci furono scontri politici per togliere le dogane interne tra Liguria e Piemonte; il Garatta, che fu per molti anni Direttore delle Dogane di Genova si batté a lungo finché riuscì nel suo intento, ma fu una magra vittoria per i Liguri, in quanto i Piemontesi, riuscirono a fare raddoppiare i dazi sulle navi estere, facendo in modo che il porto di Genova, fosse disertato per quello di Livorno (A. Segre-Manuale di storia del Commercio vol. 1.2 pag. 272 ).
La situazione dell'erario piemontese era pessima e la sua capacità economica generale critica; questo indusse il Piemonte, dopo il 1818, ad alzare ulteriormente le tariffe doganali, continuando in tale politica estrema per quindici anni e questo influì in modo disastroso sul commercio ligure.
Il porto di Genova, in modo particolare, era alimentato dalla riesportazione dei grani provenienti dall'Italia Meridionale e in parte dal Mar Nero; il Comandante del Porto di Genova, in un suo rapporto trimestrale (Archivio Storico Torino, Sez. I Commercio, Cat. III 1814-1819) afferma, confermando la diminuzione dei prodotti in arrivo :...... " il vino ....è mancato di metà in arrivo giacché nell'anno 1818 ne sono giunti dall'estero 277.000 barili circa, e nell' anno 1819 non ve ne sono giunti dall'estero che circa 148.000 barili, questa diminuzione di arrivi è dovuta alla savia misura del governo, che ha aumentato il dazio in entrata.....". Come ho accennato prima, la Liguria aveva un rapporto privilegiato con i traffici di grano proveniente dal Sud, di questo divenne gelosissima l'Inghilterra e sicuramente questa fu una delle cause economiche per cui la Grande Potenza Navale tramò contro la piccola ma indipendente Liguria per fare in modo che, annettendola di forza al Piemonte, avrebbe tagliato le importazioni di grano dal Sud per creare un monopolio inglese; infatti i rapporti tra Gran Bretagna e Regno di Sardegna erano ottimi e la premessa a quest'ultimo di bloccare l' importazione del poco costoso grano del Regno delle Due Sicilie, a tutto vantaggio del grano piemontese.
Ma nel 1817 avvenne un fatto inaspettato: ci fu una grande carestia, per cui anche il Piemonte fu costretto ad intensificare le importazioni di grano, ma l'influenza delle lobby agrarie piemontesi, ottuse, fecero sì che tra il 1818 ed il1822 la tariffa doganale sull'importazione dei grani aumentò, fermando per il momento il grano russo, del mar Nero, che dopo il 1823 scese al di sotto delle sette lire al quintale.
Con il manifesto camerale del 17 gennaio 1825, il dazio sul grano fu elevato a nove lire al quintale. Inoltre con sommo svantaggio della Liguria, fu imposta la famigerata " tariffa differenziale", la quale consisteva nell'applicare un aumento di dazio per le merci trasportate con navi straniere, ed una conseguente diminuzione di tariffa doganale per le mercanzie, invece, trasportate con le navi battenti bandiera del Regno Sardo. Così aumentarono, secondo questo principio, i diritti di ancoraggio, di faro, e su tutti gli altri diritti portuali (Cevasco, Statistique de Genes, Genova, 1840, vol. 2º ).
L'effetto fu quello di fare scappare il traffico di navi straniere da Genova e dirottarlo su porti con tariffe concorrenziali. Genova avrebbe potuto aspirare ad essere un porto di importanza non solo mediterranea od oceanica ma addirittura transatlantica se il Regno di Sardegna non lo avesse stretto fra le sue maglie d'arretratezza economiche. I diritti differenziali furono dannosissimi per Genova , la quale non riuscì mai a sfruttare a pieno la sua posizione geografica per essere al centro del commercio marittimo come un tempo.
A questo si aggiungeva un aumento ingiustificato dalle spese portuali, come le spese di consolato e tutte quelle uscite che se prese singolarmente, apparivano piccole ma tutte assieme rendevano il porto di Genova non competitivo: inoltre le operazioni burocratiche di sbarco ed imbarco erano complicate e lunghe e questo faceva perdere troppo tempo e deviava i traffici marittimi su altri porti concorrenti.
I grandi mercati della Svizzera e dell'entroterra germanico erano così preclusi ai Liguri, i quali avrebbero potuto giovarsi della condizione di lasciare il commercio completamente libero. Inoltre se si sarebbe potuta formare una commissione che avesse cercato di eliminare la miriade di formalità per le spedizioni delle mercanzie, per i diritti di magazzino, per il "peso sottile" (unico considerato legale) certamente si avrebbero avuti dei vantaggi.
Invece che eliminare le lungaggini burocratiche i Piemontesi riunirono tutti i regolamenti nel Manifesto Reale del sette dicembre 1838, a garanzia di leggi complicate ed antiquate anche nel lontano futuro.
Inoltre vi erano altre cause che contribuivano ad aumentare la crisi economica genovese; oltre alla concorrenza di Livorno, Marsiglia, Trieste e Venezia, la Gran Bretagna era riuscita nel suo intento di fare entrare le Due Sicilie nella sua sfera d'influenza commerciale inglese e ciò aveva portato a sottrarre il Sud alla dipendenza commerciale di Genova, come succedeva da sempre; a ciò si aggiungeva il fatto che il nascere delle ferrovie, portò a spostare il traffico svizzero dal Piemonte alla Francia, attraverso la naturale via di comunicazione del bacino del Rodano; con le tariffe differenziali, Carlo Felice, allontanò le navi straniere e, cosa ben più grave, rese gli stati esteri ancora più protezionistici nei riguardi del Piemonte (e della Liguria) danneggiando tutto il commercio.
Una testimonianza precisa della rovina del porto di Genova a causa della politica dell'invasione piemontese, ci viene data ancora dai Rapporti Trimestrali del Comandante del porto tra il 1817 ed il 1821. (Archivio Storico di Torino sez. 1ª Commercio, cat III - 1814-1819) :
" ........il commercio di questa piazza (di Genova) però si può dire annichilito, perché gli arrivi di questo trimestre, che passano i trenta milioni, più della metà sono granaglie (per la grande carestia d'Europa ): perciò commercio quasi passivo e poi di circostanza fortuita ....che si riducesse solamente agli arrivi delle mercanzie, non sarebbe che circa quindici milioni, delle quali merci molte sarebbero invendute come si vede col fatto essendovi nel porto franco di Genova più di centoventi milioni di generi invenduti, e da ciò risulta che la massima parte della popolazione che vive della attività del commercio, languirebbe nella miseria, e ripeto che senza questa circostanza fortuita del commercio dei grani, per la metà della popolazione sarebbe languita, e parte emigrata. Al nuovo raccolto............cesserà il rovinoso (perché si dovevano pagare in contanti - ndr.) commercio dei grani e la piazza di Genova si ridurrà ad uno stato di che gradatamente porterà l' estinzione della popolazione ligure, l' emigrazione e l'espatrio dei capitalisti..... La prova che questa non può sussistere è negli arrivi delle mercanzie ..... per non esservi smercio; si è che, posto anche che l'arrivo dei quindici milioni di mercanzie giunte si fossero vendute tutte, ma sarebbe risultato una somma circa di centotrenta mila lire di circolazione nella classe dei facchini, battellieri, imballatori ed altri inservienti al commercio, e centocinquanta mila lire nella classe dei mediatori; dimando ora se circa duemila famiglie che oppongono queste classi, possono resistere per tre mesi con circa trecentomila lire ? .......Se il commercio di Genova non fa almeno tanti affari per l'importare quaranta milioni ogni trimestre non può sussistere la popolazione e conviene perciò che emigri. Le due piazze di Marsiglia e di livorno, che per la loro posizione geografica erano inferiori alla nostra, sono divenute ora superiori .....del commercio di Genova, e trionfano sulle nostre rovine.....La mancanza del passaggio delle merci....ne porta che non circola denaro nell'interno ........ . In un altro rapporto del febbraio 1818, lo stesso Comandante del porto, ammette che le poche mercanzie che sono arrivate a Genova, formate da alimentari quali granaglie, legumi e vino, sono giunte fortuitamente a causa della grande carestia europea e quando questa cesserà, nel porto non arriverà certamente quasi più nulla; gli arrivi a Livorno, ad esempio, sono quadruplicati rispetto a quella di Genova, perché il quel porto vi sono poche formalità, non esiste protezionismo e nessun problema fiscale.
Da tempo immemorabile la Svizzera, commerciava esclusivamente con Genova, malgrado le difficili comunicazioni, ebbene dopo l'annessione al Piemonte fu costretta a rivolgersi al porto di Marsiglia, per le impraticabili condizioni burocratiche e fiscali di Genova. L'Inghilterra voleva, frattanto, creare un precedente di navigazione nel Mar Nero e tramò affinché il Piemonte ratificasse un trattato di navigazione e commercio con la Turchia, a netto vantaggio di quest'ultima; quando il Piemonte si mostrò titubante a questo accordo, la Gran Bretagna prospettò addirittura una possibile guerra europea e così nel 1824 fu inviato a Costantinopoli il Marchese Sauli, il quale sottoscrisse il trattato, però i commercianti genovesi non riuscirono a sfruttare l'accordo perché non si riuscì ad esportare nulla visto lo stato dell'industria e delle manifatture messe in crisi totale dai Francesi e Piemontesi; addirittura nel 1827, in un rapporto (Archivio Storico di Genova, Prefettura Sarda, 22/402) la Camera di Commercio studiava le cause della "prossima rovina" delle manifatture liguri. le cause di tale stato erano riconosciute dai dazi troppo forti sulle materie prime, che portavano come effetto l'emigrazione degli industriali verso Livorno e zone limitrofe.
Inoltre scoppiò in seguito la guerra russo-turca, e dal 1828 al 1829 anche tutti i commerci con il Mar Nero si chiusero. Un corrispondente del Corriere Mercantile (n. 83 del 17 ottobre 1829) rilevava che nel 1828, ben 342 navi da carico erano rimaste inattive nel porto di Genova; il Mar Nero era diventato uno dei più importanti centri di esportazione di granaglie ed altri prodotti; tale commercio era in mano agli stranieri particolarmente Inglesi ed Austriaci, ma anche molti Genovesi lasciata la loro città si naturalizzassero ad Odessa e lí fecero i centri del loro commercio . Genova importava olio, formaggi, frutta e coloniali, ma questo suscitò gelosie, particolarmente in Gran Bretagna, la quale voleva continuare ad essere il centro principale di esportazione in tutta l' Europa, obiettivo che raggiungerà in pieno nel ventennio a venire . Infatti in un prospetto tratto dagli "Scritti e Documenti sul Commercio di Genova" di G. Papa (in M.S.R.N., carte Ricci, n. 1572) si ricava che l'Inghilterra era la nazione da cui si importa la maggior parte dei prodotti, circa il 43 % del totale. Il potere del Regno Unito nasceva principalmente dall'essere riuscita a rivolgersi direttamente nei mercati d'origine dei prodotti, particolarmente del Medio Oriente, dove aumentava sempre più la sua influenza politico-commerciale; ben sapevano gli astuti statisti inglesi che consegnando Genova ed il suo porto nelle mani dell'arretrato Regno di Sardegna si sarebbe eliminato, per molto tempo, un pericoloso concorrente marittimo .
Se questo ultimo fosse riuscito, rimanendo indipendente a creare un trait-d'union con la Europa centrale, con la potenzialità reale di poter divenire il vero grande sblocco marittimo sul Mediterraneo della Svizzera e peggio dell'Impero Austriaco. Genova non potè ritornare alle sue tradizionali rotte commerciali dell'Oriente o dell'Africa del Nord semplicemente perché impedita dalla politica doganale dei Savoia.
Nizza, ad esempio, che faceva parte del Regno Sardo era cinta da ben tre barriere doganali: la prima verso il Ducato di Genova, la seconda verso la Francia e l'ultima verso Cuneo; questo con grave danno per la Liguria. La richiesta di togliere la linea doganale, non fu presa in considerazione per molto tempo.
Non possiamo non ricordare che prima del 1790 i filatoi erano presenti tutte le località del litorale ligure per un' estensione di quindici miglia da Genova e che durante il dominio napoleonico, fu resa libera l' introduzione dei tessuti francesi facendo così fallire gli opifici liguri e che lo sviluppo impressionante dell'industria inglese delle stoffe di cotone prostrò in seguito quello che rimaneva delle nostre manifatture. Non bisogna poi dimenticare che l'Inghilterra chiuse le sue coste ai bastimenti esteri con una certa frequenza, rendendo molto difficile la creazione di spazi per la concorrenza (Notizie topografiche e statistiche degli Stati Sardi, De Bartolomeis, Torino 1847 ).
Il problema centrale per gli anni seguenti all'annessione forzata era quello di conciliare interessi che erano per natura opposti: quelli del commercio ligure e quelli dell'agricoltura piemontese. Ma ogni tentativo di accordo fu destinato a fallire perché partiva non da basi unitarie scelte liberamente, ma fortemente coercitive per uno dei soggetti; la prova del fuoco fu la già citata politica iniziata intorno al 1825 delle tariffe differenziali che allontanò dalla Liguria la speranza di veder affluire navi straniere per attuare, con il porto franco, di cui Genova andava orgogliosa, quel commercio di transito che si attuava da secoli.
Il commercio della Svizzera, di cui Genova fu per moltissimo tempo l'unico porto, si volgeva ormai a Marsiglia e non possiamo dimenticare di citare le lettere del console svizzero a Genova indirizzate al Presidente della Dieta di Zurigo (Museo Storico del Risorgimento Nazionale di Genova, Carte Ricci, n. 3615) in cui si faceva notare che era certo il pericolo dell'annessione della Liguria al Piemonte che avrebbe determinato un nuovo regime doganale dannoso al commercio ligure-elvetico. Infatti il transito da Genova verso l'Europa centrale venne quasi completamente a mancare.
Nel 1818 il commissario di Polizia Bianchi (Archivio Storico di Torino Sezione I, Commercio Categoria III, 1814-1819, mazzo 2) affermò in modo esplicito che esaminando gli arrivi di merce a Genova ed a Livorno, la causa per cui quest'ultima li quadruplicò rispetto alla prima è da addebitarsi esclusivamente al fatto che Livorno era esente da tante e complicate formalità di dogana.
Il Frizzi (Informazioni di polizia sull'ambiente ligure 1814-1716 pubblicato da Vitale Atti R. Deputazione di Storia Patria vol. LXI) racconta che ".....l'organizzazione delle Dogane e Gabelle era così intensa non tanto per i dazi che dovevano pagare le mercanzie, quanto per le difficoltà delle spedizioni e spacci che erano soggetti ad infinite firme, ed a tante complicate ed inutili formalità che ritardavano le operazioni, che prima d'allora si facevano in Dogana in un giorno, attualmente non si potevano fare in una settimana. Allorchè le mercanzie erano fuori della Dogana di Genova, prima di passare i confini dello Stato e, quello che era più ridicolo, quelli del Piemonte, erano soggette alla visita di tre linee di Preposti, i quali visitavano a capriccio, facevano ogni sorta di concussioni, dalle quali non si poteva esimersi che col denaro. Un altro inconveniente era quello che nel Piemonte il regolamento delle Dogane era diverso da quello del genovesato; alcuni generi fabbricati in Genova per essere introdotti nel Piemonte, dopo che la Liguria era sotto l' attuale Governo, pagavano un Dazio maggiore come se questi popoli avessero appartenuto ad un altro Sovrano tanto che nei primi giorni che fu pubblicato il Regolamento delle Dogane, avvenne un "ammutinamento" e già si parlava di "rivoluzione".
La città veniva descritta come malcontenta per " l'enormità delle imposte " e per l'arbitrio delle procedure e dell'amministrazione politica ed economica " (C. Bornate, Insurrezione di Genova nel marzo 1821) e la città veniva descritta come desiderosa di libertà e d'indipendenza.


GENOVA IN RIVOLTA 1849
da
Fiammecremisi

Il passaggio dalla repubblica alla monarchia di Vittorio Emanuele I è tangibile anche in porto, dove non si lavora. I potenti camalli, scaricatori di banchina, ne sono il termometro. Nell'economia del sette-ottocento, succede frequentemente che gli scambi si riducano, non perchè ci siano divieti alle importazioni o dazi tali da impedirne l'esecuzione, ma solo perché è vietata o soggetta a dazio l'esportazione delle merci. Tale stato di cose, comprensibile per i prodotti della natura che se esportati creano una rarefazione sul mercato con gravi conseguenze sociali, non si capisce per il prodotto industriale soggetto a più variabili. L'aumento della produzione, anche agli occhi di non esperti sarebbe la soluzione migliore, ma qui entrano in campo altri fattori come la cultura agricola e industriale, l'istruzione e non ultimo la miglior organizzazione del lavoro e del ciclo produttivo. Fattore questo che avrà a che fare a breve con le rivendicazioni salariali degli operai e della nuova borghesia. Tutto quello che avviene fuori dalla Liguria è filtrato ancora con gli occhi del Balilla del 1746, con l'affronto di una sconfitta (Novara) che non sentono, di un futuro che può essere anche peggiore del presente. Gli austriaci, si dice, arriveranno a Genova un'altra volta. Il 25 marzo 1849 il comandante la Piazza Gen. De Asarta delibera lo stato d'assedio. Si costituisce intanto fra i rivoltosi un triumvirato con a capo Giuseppe Avezzana, comandante la Guardia Nazionale di fede Mazziniana. Armati anche i camalli, il 31 marzo inizia la caccia al Governativo. E' una strage senza precedenti per ferocia, che non lascia presagire nulla di buono.
I frati cappuccini cominciano pietosamente ad assistere e curare i feriti, a seppellire i morti. Il 2 aprile quello che resta del presidio regio (carabinieri e granatieri) esce dalla città. Dal Nord, lasciati i problemi della successione al trono, cala Alfonso La Marmora con un grosso corpo di spedizione (oltre 19.000 uomini), con 2 battaglioni bersaglieri tratti da diverse compagnie. I numeri che spesso si leggono sono di una consistenza anche superiore, ma si commette probabilmente l'errore di inglobarvi anche la divisione lombarda (quasi 6000 uomini) allora in arrivo sulla costa. Questi uomini sono già circondati da un aura antimonarchica e il loro impiego in Genova è fuori discussione, anzi c'è il rischio che s'uniscano ai rivoltosi. Per questo a Chiavari dove alloggiano viene fatto di tutto per fornire loro, quello che in 12 mesi di campagna, non è stato possibile dare: vestiario, scarpe, cibo ed alloggio. Gli inglesi, a Genova con una loro nave, hanno già minacciato di sparare sui rivoltosi dal 29 marzo. Al termine della rivolta al Capitano di vascello Lord Charles Philip HARDWICKE della Marina di S. M. britannica viene assegnata una Medaglia d'oro al Valor Militare per i servizi resi al Governo Piemontese nel ristabilimento dell'ordine a Genova quale Comandante della VENGEANCE.
La minaccia probabilmente è degenerata. Il 4 aprile l'attacco piemontese, preceduto da colpi di cannone che finiscono per errore su un ospedale, si spiega su tre colonne ciascuna rinforzata da una compagnia di bersaglieri. Fra i combattenti ha fatto intanto la sua comparsa Alessandro La Marmora superiore del fratello. Diversi ufficiali dei bersaglieri, Pallavicini, Ferrè, Grosso-Campana e piccole squadriglie erano state inviate per occupare dal mare moli e porte della città (degli Angeli), allora fortificata. Le navi inglesi dal mare hanno aperto il fuoco, a loro si attribuiscono i colpi dell'ospedale di Pammatone, che fanno 107 vittime. Tutte e quattro le compagnie dei capitani Cassinis, Longoni, Viarigi e Canosio ora sono impegnate negli scontri furibondi che si sono aperti. Il giovedì santo la 2a compagnia conquista forte Begato dove rimane gravemente ferito Alessandro de Stefanis. Alle cinque del pomeriggio del 11 aprile la lotta si spegne dopo che nella città sono stati perpetrati saccheggi, rapine, fucilazioni sommarie, violazione di chiese. Il numero preciso dei morti e feriti non si saprà mai, ma certamente si avvicinò al migliaio. I reggenti comunali stileranno una lista di 463 persone che avranno subito violenza, e 250 genovesi saranno sepolti nella cripta della chiesa dietro Piazza Corvetto. Da parte Regia ci furono condanne contro militari per una situazione sicuramente sfuggita di mano.
Da Genova città di mare e quindi già portata alla marineria, non verranno bersaglieri per molti anni, se non per espressa richiesta d'arruolamento. In occasione del raduno del 1994 a parziale gesto rappacificatore l'unico rappresentante in Italia dei Savoia, il duca Amedeo d'Aosta porgeva le scuse alla città. Il caso dopo 145 anni poteva considerarsi chiuso.



Stemmi e Dogi della Repubblica Genovese


I DOGI DI GENOVA
Andrea Doria riforma la Repubblica nel 1528 restaurando il Dogato, ma biennale invece di vitalizio

Vedi anche i link riportati su www.francobampi.it

  I DOGI DELLA REPUBBLICA (vitalizio)
23-9-1339/23-12-1344 Simone Boccanegra
25-12-1344/6-01-1350 Giovanni di Murta
9-01-1350/8-10-1353 Giovanni Valente
9-10-1353/14-11-1356 dominazione Milanese
15-11-1356/3-03-1363 Simone Boccanegra (2ª)
14-03-1363/13-08-1371 Gabriele Adorno
13-08-1371/17-06-1378 Domenico di Campofregoso
17-06-1378 Antoniotto Adorno
17-06-1378/7-04-1383 Nicoló Guarco
7-04-1383 Federico di Pagana
7-04-1383/14-06-1384 Leonardo di Montaldo
15-06-1384/3-08-1390 Antoniotto Adorno (2ª)
3-08-1390/6-04-1391 Giacomo di Campofregoso
6-04-1391/16-06-1392 Antoniotto Adorno (3ª)
16-06-1392/15-07-1393 Antoniotto di Montaldo 
15-07-1393 Pietro di Campofregoso
15-07-1393/16-07-1393 Clemente di Promontorio
16-07-1393/30-08-1393 Francesco Giustiniano di Garibaldo
30-08-1393/24-05-1394 Antoniotto di Montaldo (2ª)
24-05-1394/17-08-1394 Nicoló Zoagli
17-08-1394/3-09-1394 Antonio Guarco
3-09-1394/27-11-1396 Antoniotto Adorno (4ª)
27-11-1396/3-09-1409 Dominazione Francese
6-09-1409/21-03-1413 dominazione di Teodoro II Paleologo di Monferrato
21-03-1413/27-03-1413 Governo degli 8 Rettori
27-03-1413/23-03-1415 Giorgio Adorno
29-03-1415/3-07-1415 Barnaba di Goano
4-07-1415/23-11-1421 Tommaso di Campofregoso 
24-11-1421/25-12-1435 dominazione Milanese
28-03-1436/3-04-1436 Isnardo Guarco
3-04-1436/24-03-1437 Tommaso di Campofregoso  (2ª)
24-03-1437 Battista di Campofregoso
24-03-1437/18-12-1442 Tommaso di Campofregoso (3ª)
19-12-1442/28-01-1443 Governo degli 8 Capitani della Libertà.
28-01-1443/4-01-1447 Raffaele Adorno
4-01-1447/30-01-1447 Barnaba Adorno
30-01-1447/16-12-1447 Giano di Campofregoso 
16-12-1447/4-09-1450 Lodovico di Campofregoso
8-09-1450/enero-1458 Pietro di Campofregoso
9-03-1458/9-03-1461 Dominazione Francese
9-03-1461/12-03-1461 Governo degli 8 Capitani degli “Artefici”.
12-03-1461/17-07-1461 Prospero Adorno
18-07-1461/20-07--1461 Spinetta di Campofregoso
25-07-1461/14-05-1462 Lodovico di Campofregoso (2ª)
14-05-1462/31-05-1462 Paolo di Campofregoso 
31-05-1462/8-06-1462 Governo dei 4 Capitani “Artefici”.
8-06-1462/enero-1463 Lodovico di Campofregoso (3ª)
8-01-1463/abril-1464 Paolo di Campofregoso (2ª)
13-04-1464/15-03-1477 dominazione Milanese
20-03-1477/28-04-1477 Governo di Ibleto Fieschi e gli 8 “Difensori della Patria”.
30-04-1477/7-07-1478 dominazione Milanese
7-07-1478/23-10-1478 Prospero Adorno, Governatore con 12 Capitani.
23-10-1478/25-11-1478 Prospero Adorno e Lodovico di Campofregoso, Governatori con 12 Capitani.
26-11-1476/25-11-1483 Battista di Campofregoso 
25-11-1483/6-01-1488 Paolo di Campofregoso  (3ª)
6-01-1488/7-08-1488 dominazione Milanese
7-08-1488/13-09-1488 Governo dei 12 Cittadini, Doge nel nome dei Capitani dei Riformatori della Repubblica.
13-09-1488/26-10-1499 dominazione Milanese
26-10-1499/10-04-1507 Dominazione Francese
10-04-1507/27-04-1507 Paolo da Novi
29-04-1507/29-06-1512 Dominazione Francese
29-06-1512/25-05-1513 Giano di Campofregoso 
25-05-1513/20-06-1513 Dominazione Francese
20-06-1513/7-09-1515 Ottaviano di Campofregoso 
20-11-1515/31-05-1522 Dominazione Francese
31-05-1522/1-08-1527 Antoniotto Adorno
1-08-1527/12-09-1528 Dominazione Francese
septiembre-1528/11-10-1528 Governo dei 12 “Riformatori della Libertá”.
  PERIODO BIENNALE
12-10-1528/4-01-1530 Oberto Cattaneo Lazzari
4-01-1531/4-01-1533 Battista Spinola
4-01-1533/4-01-1535 Battista Lomellini
4-01-1535/4-01-1537 Cristoforo Grimaldi Rosso
4-01-1537/4-01-1539 Giovanni Battista Doria
4-01-1539/4-01-1541 Gianandrea Giustiniani Longo
4-01-1541/4-01-1543 Leonardo Cattaneo della Volta
4-01-1543/4-01-1545 Andrea Centurione Pietrasanta
4-01-1545/4-01-1547 Giovanni Battista di Fornari
4-01-1547/4-01-1549 Benedetto Gentile Pevere
4-01-1549/4-01-1551 Gaspare Grimaldi Bracelli
4-01-1551/4-01-1553 Luca Spinola
4-01-1553/4-01-1555 Giacomo Promontorio
4-01-1555/4-01-1557 Agostino Pinello Ardimenti
4-01-1557/3-12-1558 Pietro Giovanni Chiavica Cibo
4-01-1559/4-01-1561 Girolamo Vivaldi
4-01-1561/27-09-1561 Paolo Battista Giudice Calvi
4-10-1561/4-10-1563 Battista Cicala Zoaglio
7-10-1563/7-10-1565 Giovanni Battista Lercari
11-10-1565/11-10-1567 Ottavio Gentile Odorico
15-10-1567/3-10-1569 Simone Spinola
6-10-1569/6-10-1571 Paolo Giustiniani Moneglia
10-10-1571/10-10-1573 Gianotto Lomellini
16-10-1573/17-10-1575 Giacomo Durazzo Grimaldi
17-10-1575/17-10-1577 Prospero Centurione Fattinanti
19-10-1577/19-10-1579 Giovanni Battista Gentile Pignolo
20-1015479/20-10-1581 Nicoló Doria
21-10-1581/21-10-1583 Gerolamo de Franchi Tosso
4-11-1583/4-11-1585 Gerolamo Chiavari
8-11-1585/13-11-1587 Ambrogio di Negro
14-11-1587/14-11-1589 Davide Vaccari
20-11-1589/15-11-1591 Battista Negrone
27-11-1591/26-11-1593 Giovanni Agostino Giustiniani Campi
27-11-1593/26-11-1595 Antonio Grimaldi Cebá
5-12-1595/4-12-1597 Matteo Senarega
7-12-1597/15-12-1599 Lazzaro Grimaldi Cebá
22-12-1599/21-02-1601 Lorenzo Sauli
24-12-1601/25-02-1603 Agostino Doria
26-02-1603/27-02-1605 Pietro de Franchi (Sacco)
1-03-1605/2-03-1607 Luca Grimaldi (de Castro)
3-03-1607/17-03-1607 Silvestro Invrea
22-03-1607/23-03-1609 Gerolamo Assereto
1-04-1609/2-04-1611 Agostino Pinello Luciani
6-04-1611/6-04-1613 Alessandro Giustiniani Longo
21-04-1613/21-04-1615 Tomaso Spinola
25-04-1615/25-04-1617 Bernardo Clavarezza
25-04-1617/29-04-1619 Giovanni Giacomo Imperiale (Tartaro)
2-05-1619/2-05-1621 Pietro Durazzo
4-05-1621/12-06-1621 Ambrogio Doria
22-06-1621/22-06-1623 Giorgio Centurione Becchignone
25-06-1623/16-06-1625 Federico de Franchi
16-06-1625/25-06-1627 Giacomo Lomellini
28-06-1627/28-06-1629 Giovanni Luca Chiavari
26-06-1629/26-06-1631 Andrea Spinola
30-06-1631/30-06-1633 Leonardo della Torre
5-07-1633/5-07-1635 Giovanni Stefano Doria
11-07-1635/11-07-1637 Giovanni Francesco Brignole Sale
13-07-1637/13-07-1639 Agostino Pallavicini
28-07-1639/28-07-1641 Giovanni Battista Durazzo
14-08-1641/19-06-1642 Giovanni Agostino de Marini
4-07-1642/4-07-1644 Giovanni Battista Lercari
21-07-1644/21-07-1646 Luca Giustiniani
24-07-1646/24-07-1648 Giovanni Battista Lomellini
1-08-1648/1-08-1650 Giacomo de Franchi (Toso)
23-08-1650/23-08-1652 Agostino Centurione
8-09-1652/8-09-1654 Gerolamo de Franchi
9-10-1654/9-10-1656 Alessandro Spinola
12-10-1656/12-10-1658 Giulio Sauli
15-10-1658/15-10-1660 Giovanni Battista Centurione
28-10-1660/22-03-1661 Gian Bernardo Frugoni
28-03-1661/29-03-1663 Antoniotto Invrea
13-04-1663/12-04-1665 Stefano de Mari
18-04-1665/18-04-1667 Cesare Durazzo
10-05-1667/10-05-1669 Cesare Gentile
18-06-1669/18-06-1671 Francesco Garbarino
27-06-1671/27-06-1673 Alessandro Grimaldi
5-07-1673/4-07-1675 Agostino Saluzzo
11-07-1675/11-07-1677 Antonio da Passano
16-07-1677/16-07-1679 Giannettino Odone
29-07-1679/29-07-1681 Agostino Spinola
13-08-1681/13-08-1683 Luca Maria Invrea
18-08-1683/18-08-1685 Francesco Maria Imperiale Lercari
23-08-1685/23-08-1687 Pietro Durazzo
27-08-1687/27-08-1689 Luca Spinola
31-08-1689/1-09-1691 Oberto della Torre
4-09-1691/5-09-1693 Giovanni Battista Cattaneo
9-09-1693/9-09-1695 Francesco Invrea
16-09-1695/16-09-1697 Bendinelli Negrone
19-09-1697/26-05-1699 Francesco Maria Sauli
3-06-1699/3-06-1701 Girolamo de Mari
7-06-1701/7-06-1703 Federico de Franchi
1-08-1703/1-08-1705 Antonio Grimaldi Cebá
22-08-1705/22-08-1707 Stefano Onorato Ferreti
9-09-1707/9-09-1709 Domenico Maria de Mari
14-09-1709/14-09-1711 Vincenzo Durazzo
22-09-1711/22-09-1713 Francesco Maria Imperiale
22-09-1713/22-09-1715 Giovanni Antonio Giustiniani
26-09-1715/26-09-1717 Lorenzo Centurione
30-09-1717/30-09-1719 Benedetto Viale
4-10-1719/4-10-1721 Ambrogio Imperiale
8-10-1721/8-10-1723 Cesare de Franchi
13-10-1723/13-10-1725 Domenico Negrone
ott.1725-gen. 1726 sede vancate
18-01-1726/18-01-1728 Gerolamo Veneroso
22-01-1728/22-01-1730 Luca Grimaldi
20-01-1730/20-01-1732 Francesco Maria Balbi
29-01-1732/29-01-1734 Domenico Maria Spinola
3-02-1734/3-02-1736 Stefano Durazzo
7-02-1736/7-02-1738 Nicoló Cattaneo
7-02-1738/7-02-1740 Costantino Balbi
16-02-1740/16-02-1742 Nicoló Spinola
20-02-1742/20-02-1744 Domenico Canevaro
1-02-1744/1-02-1746 Lorenzo de Mari
3-03-1746/3-03-1748 Gian Franceso Brignone Sale II
6-03-1748/6-03-1750 Cesare Cattaneo della Volta
10-03-1750/10-03-1752 Agostino Viale
28-03-1752/7-06-1752 Stefano Lomellini
7-06-1752/7-06-1754 Giovanni Battista Grimaldi
23-06-1754/23-06-1756 Gian Giacomo Veneroso
22-06-1756/22-06-1758 Giovanni Giacomo Grimaldi
22-08-1758/22-08-1760 Matteo Franzoni
22-09-1760/10-09-1762 Agostino Lomellini
25-11-1762/25-11-1764 Rodolfo Giulio Brignone Sale
nov.1764-gen.1765 sede vacante Sale
29-01-1765/29-01-1767 Francesco Maria della Rovere
3-02-1767/3-02-1769 Marcello Durazzo
16-02-1769/16-02-1771 Giovanni Battista Negrone
16-04-1771/16-04-1773 Giovanni Battista Cambiaso
7-01-1773/9-01-1773 Ferdinando Spinola
26-01-1773/26-01-1775 Pier Franco Grimaldi
31-01-1775/31-01-1777 Brizio Giustiniani
4-02-1777/4-02-1779 Giuseppe Lomellini
4-03-1779/4-03-1781 Giacomo Maria Brignole
8-03-1781/8-03-1783 Marco Antonio Gentile
6-05-1783/6-03-1785 Giovanni Battista Ayroli
6-06-1785/6-06-1787 Gian Carlo Pallavicino
4-07-1787/4-07-1789 Raffaele de Ferrari
30-07-1789/30-07-1791 Alerame Maria Pallavicini
3-09-1791/3-09-1793 Michelangelo Cambiaso
16-09-1793/16-09-1795 Giuseppe Maria Doria
17-11-1795/17-11-1797

Giacomo Maria Brignole (2ª) (unico dei biennali ad essere rieletto)

1802-1805

Girolamo Durazzo (deposto)*


*eletto in un ultimo colpo di coda della Repubblica Ligure durante la dominazione Napoleonica.


... sulla bandiera di Genova...

Già nel 700 d. C. era presente in città una guarnigione di soldati bizantini che aveva il compito di mantenere le coste libere da scorrerie piratesco musulmane. Erano così ben integrati e accetti nel tessuto sociale cittadino che, quando portavano in processione lo stendardo del loro Santo (S. Giorgio) nell’omonima chiesa, a loro si univa spontaneamente la popolazione. Venerati quindi, da tempi remoti, S. Giorgio e la sua Croce, il cui utilizzo è già attestato dal 1096 divennero, dopo le imprese dell’Embriaco nel 1099 simbolo ufficiale della nascente Repubblica.
Il culto di San Giorgio arriva dal medioriente e dalle crociate: nel 1098, durante la battaglia di Antiochia, un anno prima della sanguinosa presa di Gerusalemme (in cui i genovesi furono protagonisti), crociati inglesi vennero soccorsi dalle milizie della Superba, ribaltando l’esito dello scontro e prendendo la città. La leggenda vuole che a incitare i cavalieri cristiani sia stata un’apparizione del santo, accompagnato da vessilli con la croce rossa in campo bianco.
Il Vessillo di S. Giorgio veniva consegnato, dopo solenne processione e cerimonia al Capitano della Galea Ammiraglia (per poter issare la bandiera dovevano salpare minimo cinque navi in assetto da guerra con a bordo almeno venti balestrieri) al grido di battaglia: “PE ZENA E PE SAN ZORZO” (del quale non vi sono tracce scritte ma che viene tramandato oralmente da secoli), con l’impegno di onorarlo in battaglia e di riportarlo a casa, a qualunque costo. Nonostante le sconfitte, a volte subite in 500 anni di guerre, il VESSILLO è sempre tornato sano e salvo.

Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra, chiese ai genovesi navi, marinai, ammiragli e scorte per trasportare il suo esercito a Gerusalemme. Durante la traversata si accorse che musulmani, turchi, spagnoli, francesi e catalani se ne stavano ben alla larga. Incuriosito ne chiese il motivo all’Ammiraglio Lercari comandante della spedizione, il quale probabilmente dette una risposta simile a questa: “Vede Vostra Maestà, indicando la Croce di S. Giorgio, tutti sanno che chi osa attaccar battaglia contro un legno difeso da questa insegna, incorrerà in morte certa” (il corpo dei Balestrieri, di cui erano dotate le galee genovesi, incuteva infatti rispetto e terrore in tutti i mari).
Riferisce l’Accinelli, che i Genovesi non erano restii a concedere di portare le loro insegne “ai loro amici o confederati nelle marittime spedizioni”. Nel 1190 infatti passarono a Genova Filippo II re di Francia e Riccardo I d’Inghilterra, per unirsi ai Genovesi nell’impresa della terza crociata ed è fuor di dubbio che il re inglese assumesse come propria insegna sulle sue 15 navi, quella di Genova, “che ancora i re tutti suoi successori continuano, chiamandolo Stendardo di S. Giorgio, con la stessa divisa, cioè croce vermiglia in campo bianco”.
E quest’uso sarà riconfermato nella confederazione perpetua stipulata nel 1421 dal Doge Tommaso Campofregoso con Enrico V d’Inghilterra. Accinelli afferma: “[...] ammirato delle imprese e del valore de’ Genovesi lo stesso Enrico fece quella solenne lega che abbiamo notato sotto detto anno [1421], registrata negli atti di Antonio Credenza cancelliere allora della Repubblica”. E aggiunge: “[...] da quel tempo in appresso hanno continuato gl’Inglesi comune lo stendardo di S. Giorgio co’ Genovesi”. Il Trattato di pace è presente nell’Archivio di Stato di Genova ed è trascritto integralmente nei “Libri Iurium” editi dalla Società Ligure di Storia Patria, vol. II/3, pp. 737-749.
Nel 1654, in occasione del suo viaggio in Inghilterra in qualità di ambasciatore straordinario, Ugo Fieschi nella sua “Relazione” riporta “La mia Repubblica […] ha sempre conservato con queste potentissime nazioni una non mai interrotta corrispondenza, et amicizia, che anche nelle estrinseche apparenze per una certa naturale simpatia si qualifica con l’istesse insegne e glorioso protettore San Giorgio [...]”.
Esistono altri documenti in lingua inglese che attestano il legame tra il vessillo genovese e l’Inghilterra. Tra questi, il libro: “St. George in English History: The Making of English Identity” dello storico contemporaneo Michael Collins, già docente all’International StudiesUniversity di Pechino, con una prefazione dello storico Dan Brown.
In un passo si legge: “ […] The flag of St. George was adopted by the City of London as early as 1190 in order for its ships entering the Mediterranean to benefit from the protection of the Genoese Fleet. The English Monarch paid an annual tribute to the Doge of Genova (Genoa) for this privilege. It may be this custom that led earlier writers to assume that the flag of St. George had become the flag of England at this time.” In questo testo, Michael Collins cita un altro storico contemporaneo di lingua inglese, Jonathan Good, professore associato di storia alla ReinhardUniversity (Georgia) e il suo scritto “The cult of St. George in MedievalEngland. Un capitolo del libro si intitola: “The flag of Sint George: a Genoese creation”. “[…] Indeed, the flag of Saint George, red on a white cross, came to England well after Richard’s reign. In the thirteenth century, the Genoese Jacobus de Varagine compiled a collection of the lives of Saints, the Golden Legend (LegendaAurea) which became one of the most popular books in medieval Western Europe. It was Jacobus who transformed the white cross into a red one, and the popularity of the Genoese legend ensured that the Genoese red cross was widely picked up all over western Europe. The popularity of the Golden Legend book likewise widely spread the tale of George killing a dragon. At the time of the crusades, Genoa and the northern Italy city-states were at the forefront of European culture and finance. Manuscripts of the Golden Legend circulated throughout Europe and soon reached England. In the centuries following it is still too early to speak of Saint George as a national patron, but he had become a potent symbol of political power. English kings of the fourteenth and fifteenth centuries venerated Saint George to demonstrate their worthiness and right to rule, and opponents of these kings also used Saint George to criticise their sovereignty [….]”. Good fa inoltre riferimento ad ulteriori scambi intercorsi tra l’Inghilterra e Genova nel campo della navigazione, del commercio e della finanza: “[…] It was not only the flag of Saint George that travelled between Genoa and England. The Genoese innovated in navigation and commerce, and their increasingly sophisticated organisation of public debts is the foundation of modern finance, centuries before the Bank of England and the East India Company. The bill of exchange, third-party insurance, and public finance either originated in Genoa or else spread from there to the other Italian city-states and later to northwest Europe”.
Questa è la versione tramandata dalla successiva storiografia cinquecentesca alla quale si affianca un’altra curiosa aneddotica storiella.
Tale leggenda narra che agli inglesi, i genovesi abbiano venduto anche le spoglie del Santo (un Moro imbalsamato vestito da crociato) e addirittura il drago (un gigantesco coccodrillo del Nilo, animale che in Europa pochi conoscevano, anch’esso imbalsamato). Storie suggestive e affascinanti ma purtroppo non dimostrabili.
Per riaffermare il diritto storico, nel 2019 il Sindaco di Genova Marco Bucci, scrisse alla Regina Elisabetta per chiedere all'Inghilterra di versare nelle casse del Comune gli arretrati dell'affitto della bandiera della città. La famiglia reale ringraziando per la ricerca approfondita non ha fornito risposte precise.

la mia foto

Storia della bandiera di San Giorgio a cura del Comune di Genova


PALAZZI DEI ROLLI


Nella Repubblica rifondata da Andrea Doria che tra il cinquecento e seicento é crocevia di traffici, corti e ambiasciate, si precettavano dimore adeguate alle visite di stato. Questo avveniva attraverso elenchi (Rolli degli alloggiamenti pubblici) suddivisi in "bussoli" per categorie di qualità. I 5 rolli conosciuti (degli anni 1576, 1588, 1599, 1614 e 1664) descrivono un universo di dimore storiche che in buona parte sono giunte fino a noi e che testimoniano un tipo di struttura urbana definita dal Poleggi come "una reggia repubblicana, vera contraddizione in termini dietro a cui si spalancano orizzonti di storia abitativa e urbana, piuttosto che di sola architettura".

www.irolli.it
Questo sito si propone di divulgare la conoscenza di questa storia e di questi palazzi che raccontano una Genova magica di re, corti, dogi e principi uniti alla concretezza tipicamente genovese e alla modernità di un'ospitalità fatta di case private rese pubbliche.

Palazzi storici di Genova
Il sito dell’Università di Genova da è riportata la fedele trascrizione del volume originale: “LES PLUS BEAUX ÉDIFICES DE LA VILLE DE GÊNES ET DE SES ENVIRONS” di M. P. GAUTHIER, ARCHITECTE.


“SPIGOLATURE DI STORIA GENOVESE
A FERRAGOSTO TUTTI IN VACANZA TRANNE IL DOGE


Ferragosto era il giorno che, anche nei secoli passati, dava il segnale dell' esodo dalla citta': le catene che sbarravano l' accesso delle carrozze ad alcune vie della citta' venivano aperte e i ricchi genovesi potevano cosi' raggiungere le rilassanti localita' di villeggiatura come Albaro e Sampierdarena, oggi quartieri integrati nel tessuto urbano. Secondo le cronache dell' epoca erano molti i cittadini che andavano in vacanza, ma tra loro non figurava mai il Doge, obbligato dalle Leggi a rimanere a Palazzo Ducale: solo in cinque occasioni, per le principali festivita', gli veniva concesso di uscire, perche' altrimenti - si riteneva - avrebbe potuto distrarsi dalle cure di Governo. Al primo cittadino era persino vietato raggiungere la Cattedrale di San Lorenzo uscendo sul selciato: per partecipare alle principali cerimonie usava infatti un passaggio interno.
Alla luce di cio' desto' infatti scalpore la richiesta, avanzata nel 1727, dei medici di Gerolamo Veneroso, che suggerirono ai Collegi di accordare un periodo di riposo di un mese nella Villa di Albaro, precisamente dove sorge l' attuale Via Puggia, per curare il gonfiore dei polpacci del Doge. Veneroso ottenne il permesso con 129 voti a favore contro 16, aiutato anche dal precedente del 1644, quando al Serenissimo Luca Giustiniani venne accordato un periodo di una villeggiatura di un solo giorno sempre in Albaro. Visto che i gonfiori del Doge non cessavano, i medici richiesero un altro permesso sempre per trenta giorni, che pero' vennero accordati solo dopo il quinto scrutinio di voti. Dopo la seconda villeggiatura le condizioni del Doge migliorarono e dopo il biennio dogale pote' cosi' essere inviato come Governatore della Corsica. (copyright Ansa)


La Soprintendenza Archivistica per la Liguria ha avviato dal 2006 un progetto denominato "Repertorio di fonti sul Patriziato genovese" . Tale progetto, curato da Andrea Lercari, collaboratore della Soprintendenza, si propone di redigere una scheda per ognuna delle famiglie ascritte al patriziato genovese tra il 1528 al 1797, quantificate in 637, indicando per ognuna una breve memoria storica che ne individui origine e ruolo svolto nel panorama cittadino, le forme antiche col quale può trovarsi scritto il cognome nei documenti, la descrizione dello stemma portato dalla famiglia, la distinzione tra i vari rami familiari o tra le famiglie componenti l’albergo antico antecedente al 1528, l’eventuale albergo al quale furono aggregate se l’ascrizione è compresa tra il 1528 e il 1576. Per ogni famiglia verranno quindi indicate le principali fonti manoscritte reperibili negli Archivi e nelle Biblioteche, la bibliografia, gli eventuali archivi gentilizi e gli archivi parrocchiali di riferimento. Nel link sopra evidenziato l'elenco delle famiglie già esaminate


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STORIA DEI GIUSTINIANI DI GENOVA

STORIA DELL’ISOLA DI CHIOS PRIMA DEI GIUSTINIANI
LA VITA AMMINISTRATIVA DEI GIUSTINIANI A CHIOS
L’isola col turbante. I Giustiniani di Chio tra Greci e Turchi (XIV-XV secolo) (di Daniele Tinterri)
I GIUSTINIANI QUATTRO SECOLI DI RICCHEZZE di Giovanni Assereto
LE COLONIE GENOVESI DURANTE L’AVANZATA TURCA (1453-1473) di Giustina Olgiati (in inglese).
NUCLEI FAMIGLIARI DA GENOVA A CHIO NEL QUATTROCENTO
Il questo link uno studio di Laura Balletto su come i Giustiniani seppero interessare allo sviluppo dei commerci di Chios anche i nativi isolani, che si sentirono così gradualmente, per così dire, genovesizzati, anche attraverso vincoli familiari. Oltre a tutto ciò, l’isola di Chios divenne ben presto meta d’un notevole afflusso immigratorio, che vide arrivare in loco non solo gente proveniente da Genova e dalla Liguria, ma altresì da altre regioni italiane ed anche extra italiane. Ed uno degli elementi che caratterizzò questa immigrazione - e che storicamente appare fra i più importanti ed interessanti - è rappresentato dall’afflusso nell’isola di Chio di più membri di un medesimo gruppo familiare, i quali talvolta, dopo un certo tempo, rientrarono in patria e talvolta, invece, restarono colà vita natural durante, vi defunsero e vi vennero sepolti. Gli esempi che, circa questo fenomeno, si possono trarre dalla lettura di anche soltanto una parte dei numerosissimi atti notarili pervenutici, redatti da notai genovesi e/o liguri nell’isola di Chios nel Quattrocento, sono molti e si riferiscono ai più diversi livelli della scala sociale.
GLI ORIZZONTI APERTI. PROFILI DEL MERCANTE MEDIEVALE , a cura di G. Airaldi, Torino 1997 © degli autori e dell'editore. (Indice. - Gabriella Airaldi, Introduzione. Per la storia dell’idea di Europa: economia di mercato e capitalismo. - Jacques Le Goff, Nel Medioevo: tempo della Chiesa e tempo del mercante. - Roberto S. Lopez, Le influenze orientali e il risveglio economico dell’Occidente. - Eliyahu Ashtor, Gli ebrei nel commercio mediterraneo nell’alto medioevo (secc. X-XI). - Abraham L. Udovitch, Banchieri senza banche: commercio, attività bancarie e società nel mondo islamico del Medioevo. - Nicolas Oikonomides, L’uomo d’affari. - Armando Sapori, La cultura del mercante medievale italiano. - David Abulafia, Gli italiani fuori d’Italia. - Gabriella Airaldi, Modelli coloniali e modelli culturali dal Mediterraneo all’Atlantico. - Jacques Heers, Il ruolo dei capitali internazionali nei viaggi di scoperta nei secoli XV e XVI. - Gabriella Airaldi, L’eco della scoperta dell’America: uomini d’affari italiani, qualità e rapidità dell’informazione)
“L’OCHIO DRITO DE LA CITÀ NOSTRA DE ZENOA” IL PROBLEMA DELLA DIFESA DI CHIO NEGLI ULTIMI ANNI DEL DOMINIO GENOVESE. di Enrico Basso tratto da: Associazione di studi storici militari
LE MONETE A CHIOS AL TEMPO DEI GIUSTINIANI
Si ringrazia in particolar modo il Prof. Andreas Mazarakis per il suo contributo alla stesura di questo paragrafo
MONNAIS INEDITES DE CHIO di P. Lambros, Parigi 1877 (testo in francese)
LEVANTINE HERITAGE diversi contributi in inglese sulla storia delle famiglie levantine
NOTIZIE ARALDICHE E VICISSITUDINI STORICHE DELLE FAMIGLIE DI ORIGINE GENOVESE A CHIOS DOPO IL 1566
I GENOVESI D'OLTREMARE I PRIMI COLONI MODERNI di Michel Balard – IL SECOLO XIX – 29/4/2001
STORIA DELLA CITTA’ DI GENOVA DALLE SUE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA MARINARA
LINEE GUIDA DELLA STORIA GENOVESE 1339-1528
Presso la Libreria Bozzi di Genova si può trovare un ricco assortimento di testi sulla storia della Città e Ligure
LA BATTAGLIA DI LEPANTO 7 OTTOBRE 1571 (Pietro Giustiniani, Veneziano, Ammiraglio della flotta dei Cavalieri di Malta e Gran Priore dell’Ordine).
STORIA DI GENOVA, DEL REGNO DI SPAGNA IN ITALIA DAL 1600 AL 1750
MEMORIE DI GENOVA (1624 - 1647) di Agostino Schiaffino a cura e con introduzione di Carlo Cabella in Prima edizione nei "Quaderni di Storia e Letteratura": Settembre 1996. Opera completa.
IL REGNO VENEZIANO DI MOREA E L’ULTIMA GUERRA CRISTIANA CONTRO I TURCHI A SCIO DEL 1695
PIRATI E PIRATERIA NEL MEDITERRANEO MEDIEVALE: IL CASO DI GIULIANO GATTILUSIO di Enrico Basso. Stampa in Praktika Synedriou “Oi Gatelouzoi tìs Lesbou”, 9-11 septembríou 1994, Mytilini, a cura di A. Mazarakis, Atene 1996 (“Mesaionikà Tetradia”, 1), pp. 343-371 © dell’autore - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”
HISTORE DE LA RÉPUBLIQUE DE GÊNES di Émile Vincens, un testo in francese del 1843, scaricabile gratuitamente su internet
CASTIGATISSIMI ANNALI DELLA REPUBBLICA DI GENOVA di Agostino Giustiniani, versione integrale del libro
Segnalo inoltre un breve, ma interessante romanzo storico sulla genova del trecento per la Fratelli Frilli Editore di Roberto Dameri: Gelindo Lercaro: una storia genovese del 1300. Attraverso le vicende d'amore e di guerra del protagonista, riviviamo la storia della Genova del Trecento e del primo Quattrocento. Conosciamo la vita quotidiana di un genovese che acquistava la carne al Molo o ai macelli di Soziglia, mentre il pesce veniva comperato a Caricamento presso la "clapa piscium" o "ciappa" in dialetto, un lastrone di pietra che veniva usato anche per bastonare i condannati per reati comuni. Rivediamo i palazzi di Genova, le sue chiese, i vicoli stretti e maleodoranti percorsi giornalmente da asini, buoi, cavalli ma non da carretti, allora vietati in città. Senza dimenticare i dogi di allora, compreso Simone Boccanegra che nel 1339 viene eletto a vita, mentre nel 1340 nasce la "compagnia del caravano", la prima corporazione dei camalli. Ecco la storia della Lanterna e del Banco di San Giorgio ed alcuni avvenimenti riguardanti le colonie genovesi della Sardegna, Corsica e del Mar Nero. Emergono le tante battaglie tra Genova e Venezia, nonché le lotte intestine tra le varie classi sociali, con alcune famiglie che non esitarono a vendersi allo straniero pur di emergere sulle rivali. E l’incubo della terribile peste nera del 1347, portata in Italia dai marinai genovesi provenienti da Caffa, sul Mar Nero.
La Finanza genovese e il sistema imperiale spagnolo di Manuel Herrero Sánchez, Universitá Pablo de Olavide, Siviglia

Molto documentazione su questo periodo storico su:

Associazione Culturale Bisanzio    Reti Mediovali                                          


 locandina
RAPPORTI DI FAMIGLIA A GENOVA SECOLI XII-XVIII
dal 20 settembre al 9 dicembre 2023 - Archivio di Stato di Genova Complesso monumentale di Sant’Ignazio Piazza S. Maria in Via Lata, 7

Dal 20 settembre 2023 la mostra, curata di Giustina Olgiati e Daniele Tinterri, allestita nella prestigiosa sede dell’Archivio di Stato di Genova, con il suo magnifico catalogo (Sagep Editori Genova), attinge dallo sconfinato patrimonio documentario dell'Archivio di Stato di Genova, spiegando come la famiglia sia stata dal XII al XVIII secolo l’elemento chiave della vita pubblica e privata di Genova, indispensabile per comprendere le molte peculiarità della cultura genovese. Fonti che mettono in luce aspetti sconosciuti e affascinanti della vita dei clan genovesi, sia delle loro strategie politiche, economiche e dinastiche, sia delle loro espressioni culturali e devozionali.
Durante i secoli del Medioevo e dell’età moderna il termine famiglia definisce un complesso di individui molto più ampio del nucleo rappresentato da due sposi e dai loro figli. La famiglia comprende ascendenti, discendenti, collaterali; mogli legittime, separate o divorziate; concubine; servitori, stipendiati e apprendisti; donne nubili o vedove; figli naturali o non ancora emancipati dalla patria potestà; consanguinei bisognosi di assistenza. Per il patriziato genovese la famiglia è il clan, l’insieme di quanti si fregiano dello stesso cognome per diritto di nascita o per l’associazione a un albergo e godono di beni in comune. Nel Settecento si aggiungono a essi i cavalier serventi, galanti o cicisbei.
Se lo Stato interviene, con leggi e statuti, per regolare interessi patrimoniali, usi e costumi legati ai rapporti di famiglia, la realtà di tutti i giorni affiora dagli atti dei notai, che ci raccontano storie di matrimoni imposti e rifiutati, bigamia e uxoricidio, rapimenti e violenza, separazioni e divorzi, figli legittimi e naturali, vedovi e anziani. Le vicende private di grandi personaggi storici come Cristoforo Colombo e Giovanni Andrea Doria si uniscono con quelle degli abitanti della città di Genova, dallo schiavo liberato che proviene dal Catai agli uomini e donne di ogni ceto e condizione sociale, nel lungo arco cronologico che copre la storia del Comune e della Repubblica di Genova. Una storia che non cessa mai di stupirci e di farci riflettere sulle radici del nostro presente.

Orario: lunedì, martedì e venerdì 10.00-13.00 - mercoledì e giovedì 10.00-17.00. In occasione degli eventi l’orario sarà prolungato
Visite guidate gratuite su prenotazione come da informazioni sul sito http://www.archiviodistatogenova.beniculturali.it Per gruppi da lunedì a venerdì in data e orario da concordare. info: 010 537561.
Il ciclo "Tutti i genovesi del mondo"
L'Archivio di Stato di Genova presenta due iniziative accomunate dal focus cronologico, che è costituito dal Medioevo, protagoniste la storia di Genova e dei genovesi. Da giovedì 18 gennaio a martedì 30 aprile, presso la sede dell'Archivio di Stato, si tiene un ciclo di conferenze di Medioevo in Archivio, intitolato "Tutti i genovesi del mondo". La grande espansione commerciale (secoli XI-XVI). Il ciclo è curato da Giustina Olgiati. L’espansione commerciale che porta i genovesi a dominare le rotte di collegamento tra l’Oriente e le Fiandre è tracciata da trattati politici e atti notarili che illustrano una storia del tutto peculiare, nella quale gli interessi dello Stato si intersecano e talvolta si confondono con quelli dei privati e viceversa. Le Crociate e la nascita dei Regni cristiani in Terrasanta sono all’origine delle prime acquisizioni territoriali, di portata inizialmente minima, ma destinate ad acquistare sviluppo sempre maggiore: un gruppo di case contigue, una sede per il magistrato di riferimento, una chiesa, un bagno, un forno, un macello.
I genovesi legano la loro fortuna allo sfruttamento delle proprie capacità nei campi della navigazione, del commercio e del credito, cercano e aprono nuove vie di comunicazione, stringono accordi con altre potenze utilizzando – a seconda delle circostanze – i canali diplomatici o la forza delle armi. Non vi è luogo conosciuto nel quale i genovesi non arrivino, e il nome di Genova è garanzia di protezione e privilegi per chiunque riesca a stringere con i suoi abitanti relazioni di affari e legami familiari. All’intraprendenza e al coraggio di questi uomini, capaci di creare monopoli commerciali e di diventare esploratori e ammiragli, talvolta anche principi, Genova deve la sua straordinaria storia e il suo ruolo, da tutti riconosciuto, di intermediaria tra Oriente ed Occidente.
Il 19 e 20 gennaio 2024 si è tenuto il primo incontro presso la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale dal titolo "L’Impero di Genova dal Mar Nero all’Atlantico, la grande espansione nel Medioevo"
Da Cadice alla Siria, dall’Inghilterra al Marocco, passando per Corsica e Sardegna, ben piantata tra Costantinopoli e il mar Nero, fra XI e XV secolo Genova controllava, direttamente o indirettamente, vasti territori, allargandosi alle estreme periferie di quello ch’era, allora, il mondo conosciuto. Forse nemmeno gli stessi genovesi oggi riescono a rendersi pienamente conto di ciò che è stata la loro città in quel tempo, quando la sua influenza s’irradiava in diversas mundi partes: nel commercio, nella finanza, nella forza militare, nella lingua, negli usi e costumi. Gli insediamenti genovesi, collocati in posti strategici attraverso forti, monumenti e città, avevano una precisa valenza geopolitica, unendo aree distanti fra loro sotto un’unica bandiera, nonostante la varietà di poteri deputata alla loro amministrazione. Le navi che partivano da Genova raggiungevano la Terrasanta, l’Egitto, l’Inghilterra, le Fiandre, la penisola iberica. Sul lato opposto delle mappe, i mercanti genovesi si spingevano fino in Cina. Molti siti, a partire da quelli della Crimea, territorio oggi in guerra, appartengono a quello che si può definire l’impero di Genova.

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