LA COLLEZIONE GIUSTINIANI
Ritratto di Benedetto Giustiniani - Bernardo Castello
Ritratto del marchese Vincenzo Giustiniani - Nicolas Regnier
Ritratto della principessa Cecilia Mahony Giustiniani - Pompeo Batoni
Ritratto del principe Benedetto Giustiniani - Pompeo Batoni
Busto di Innocenzo X - Alessandro Algardi
Scrittoio da viaggio del cardinale Benedetto Giustiniani - Ignoto ebanista del primo
quarto del XVII secolo
Ritratto del cardinale Benedetto Giustiniani - Ignoto disegnatore del Seicento
Ritratto del marchese Vincenzo Giustiniani - Claude Mellan
Ritratto del principe Andrea Giustiniani Banca - Ignoto incisore del XVIII secolo
Delle guerre di Fiandra Libri VI - Pompeo Giustiniani
Historia del Glorioso Martirio di Sedici Sacerdoti..." - William Allen
Testamento del marchese Vincenzo Giustiniani - Vincenzo Giustiniani
Hestia Giustiniani, statua muliebre in peplo - Ignoto scultore di età adrianea
Cristo Redentore - Michelangelo Buonarroti
Ritratto di Benedetto Giustiniani - Bernardo Castello
Il dipinto, oggi in collezione privata, proviene probabilmente dall'asta Christie's in
Roma in cui andarono venduti i beni della principessa Maria Sofia Giustiniani Bandini,
circa trent'anni fa. Esso ha un preciso rapporto con l'incisione di Michel Natalis per il
II volume della Galleria Giustiniana, tav. 5 (vedi infra p.29, fig.28); essendo
l'incisione in controparte rispetto al dipinto è plausibile ritenere che esso abbia
costituito il modello usato da Natalis. Rispetto all'abbondante serie di immagini del
cardinale che ci sono pervenute, questa ci mostra un volto più magro e allungato; si
tratta a mio avviso della sigla stilistica che caratterizza il modo di ritrarre la figura
umana di Bernardo Castello, artista legato ai Giustiniani fin dal 1582, data della
Natività di Baltimora, Walters Art Gallery, e autore della pala di S. Vincenzo Ferreri,
1584, nella cappella di famiglia (vedi scheda A3) in cui sulla sinistra, fra i prelati
seduti alle spalle di S. Vincenzo Ferreri, si riconosce il viso di Benedetto Giustiniani;
anche la sobria gamma dei colori e il modo di trattare l'incarnato trovano riferimenti
nelle opere del pittore genovese, grande amico del poeta Marino, nonché del Tasso e del
Chiabrera, e autore degli affreschi con storie di Amore e Psiche nel palazzo Giustiniani a
Bassano Romano. In merito all'incisione di Natalis è stato ipotizzato che essa potrebbe
riflettere in qualche modo l'impostazione del perduto ritratto del cardinale eseguito da
Caravaggio (VARRIANO [1998]): "Un quadro d'una mezza figura, e più col ritratto
della bona memoria del Signor Cardinale Benedetto Justiniani dipinto in tela d'Imperatore
[di mano di Michelangelo da Caravaggio]" (inv. 1638, II, n. 13; il dipinto è
menzionato anche in inv. 1600, n. 98; inv. 1621, n. 22; inv. 1649, n. 29, ove si precisa
che l'effigiato era ritratto "a sedere vestito con rocchetto, mozzetta"). Per
una traccia di esso vedi infra p.29. Il ritratto caravaggesco doveva articolarsi piuttosto
in modo molto simile a quello di Maffeo Barberini, eseguito pure dal Merisi, in cui
l'effigiato è seduto, con un'inquadratura di tre quarti (DANESI SQUARZINA [1997], p.
771). Lontana da ogni intento innovativo del genere, l'opera di Castello si colloca
nell'ambito di una concezione del ritratto molto convenzionale; l'incisione presenta
affinità non solo col dipinto qui riprodotto, ma anche col particolare sopradescritto
della pala della cappella di famiglia; lì, fra l'altro, il viso del cardinale ha una
certa vivezza di espressione. L'immediatezza e lo sguardo pungente che si notano
nell'incisione della Galleria Giustiniana sono parimenti una caratteristica dei ritratti
di Vincenzo e di Giuseppe, incisi da varie mani, anch'essi contenuti nei due volumi. Nel
volume II della Galleria Giustiniana, tav. 4, è contenuto un ritratto di Girolama
Giustiniani inciso da Theodor Matham; recentemente G. Papi ha identificato, sulla base del
confronto con l'incisione, le fattezze della gentildonna in un dipinto da lui attribuito
allo Spadarino (Nancy, Musée des Beaux-Arts, cfr. PAPI [2000]). Secondo lo studioso esso
apparteneva al gruppo di ritratti in tela da testa, 1638, I, nn. 254-257 di cui, secondo
noi, faceva parte anche quello qui pubblicato.
Ritratto di Vincenzo Giustiniani - Nicolas Regner
La recente apparizione di questo dipinto sul mercato antiquario sembra offrire qualche
nuovo elemento in merito all'iconografia sinora nota del marchese Vincenzo Giustiniani. Si
tratta del ritratto austero e solenne di un uomo di età matura, dipinto con un modellato
che appare preciso e sfumato nei dettagli delle mani e del volto. Tutto sembra confermare
l'ipotesi che si tratti del ritratto del celebre marchese di origine genovese. A sostenere
l'identificazione contribuiscono tre elementi: la lettera che l'uomo tiene nella mano
sinistra; una menzione contenuta nell'inventario del cardinale Orazio Giustiniani stilato
nel 1649; ed infine una stringente somiglianza fisiognomica riscontrabile tra le fattezze
dell'effigiato e quelle con cui il marchese ci appare nei due ritratti certi che di lui ci
sono pervenuti. La lettera reca un'iscrizione parzialmente cancellata e ridipinta, di
difficile decifrazione, che potrebbe corrispondere a "l'illustrissimo Marchese
Giustiniani". Posto al centro della tela, in primo piano, l'uomo ritratto si staglia
sul fondo bruno, ove è ancora possibile scorgere qualche piega di tessuto destinata
probabilmente ad imitare il drappeggio di una pesante tenda. Una presentazione frontale,
la simmetria della composizione ed un netto contrasto chiaroscurale, accentuano la
severità del modello, che è vestito di scuro e presenta il braccio sinistro piegato
verso il basso mentre tiene delicatamente la lettera; l'altro braccio è invece disteso
lungo il corpo, con la mano contratta a stringere un fazzoletto bianco. Sia
l'illuminazione che il fazzoletto, il collo piatto e rigido e gli ampi polsini, certamente
dipinti in bianco ma dei quali il pigmento è ora scomparso, mettono in risalto le mani ed
il volto, ovvero i tre elementi essenziali del ritratto, che sono peraltro la base stessa
della sua originalità. Soltanto la manica sinistra, dal tessuto cangiante grigio-blu a
pois neri, dalle pieghe ampie, apporta un tocco di eleganza ad una posa e ad un abito
convenzionali, debitori della tradizione cinquecentesca (LEVI PISETZKY [1966], vol. III,
pp. 165, 222, 357), una formula di impostazione ieratica, ma imponente. Il ritratto non è
identificabile nell'inventario della collezione del marchese Vincenzo Giustiniani (1638),
ma corrisponde probabilmente al "quadro senza cornice, figura il Signor Marchese
vecchio vestito di nero, una mano tiene un Memoriale nel altra il fazzoletto", citato
nell'inventario del 1649 relativo all'appartamento del cardinale Orazio Giustiniani nel
palazzo di famiglia in piazza S. Luigi dei Francesi (DANESI SQUARZINA [1998a], p. 116, n.
43). Membro dell'Oratorio e parente di Vincenzo e di Benedetto, Orazio alloggiò nel
palazzo dopo il 1621 (DANESI SQUARZINA [1994], pp. 369-394, in particolare p. 385, n. 4).
L'inventario di Orazio conta numerosi ritratti, di cui cinque del marchese; le descrizioni
sono sempre molto dettagliate (DANESI SQUARZINA [1998a], pp. 115-117). Ad oggi disponiamo
di due soli ritratti che possano testimoniare con certezza la fisionomia di Vincenzo
Giustiniani: il primo di essi è opera di un artista sconosciuto e rappresenta il marchese
in giovane età, a mezza figura (SALERNO [1960], p. 22, fig. 29); l'altro, datato 1631 e
destinato ad illustrare entrambi i volumi della Galleria Giustiniana, va senz'altro
considerato come uno dei più bei ritratti, disegnati e incisi, da Claude Mellan (ROMA
[1989a], pp. 294-295, nn. 81-82). Se si confrontano il disegno (vedi scheda A7a) e
l'incisione di Mellan con il nostro ritratto è possibile constatare alcune importanti
similitudini: il volto emaciato e severo, la fronte larga dalla prominente protuberanza
ossea, il naso lungo e irregolare, gli occhi cerchiati, il labbro sprezzante, le pieghe
del collo ed il lobo dell'orecchio largo e arrotondato. Potrebbe dunque trattarsi dello
stesso uomo ritratto da Mellan in età più avanzata, una decina di anni più tardi. In
entrambi i casi, l'attenzione dell'osservatore è attratta sui tratti affaticati del
modello, ma anche sulla sua determinazione e sulla sua dignità. Anche se con un diverso
grado di forza e di immediatezza, questi due ritratti hanno saputo tradurre
"l'individualità intransigente e fiera" del marchese (ROMA [1989a], p. 294, n.
82). Sono quattro i ritrattisti di Vincenzo Giustiniani a noi noti: da una parte Claude
Mellan e dall'altra gli artisti menzionati nell'inventario redatto dopo la morte del
marchese, ovvero i due artisti nordici "Antonietto Fiammingo" e Nicolas Régnier
ed il bolognese Baldassarre Aloisi, detto "il Galanino". Secondo il Baglione,
quest'ultimo giunse a Roma in giovane età (vi morì nel 1638) e si dedicò all'arte del
ritratto, realizzando dipinti "assai bene, simili, e a buon prezzo condotti"
(BAGLIONE [1642, ed. 1995], pp. 348-349). Egli dipinse il ritratto del marchese ponendovi
sullo sfondo la sua galleria di sculture (SALERNO [1960], p. 147, n. 268). Per quanto ci
è noto, il misterioso "Antonietto Fiammingo" non è stato ancora identificato
con certezza (SALERNO [1960], p. 95, n. 10). Autore di ben ventuno tele menzionate
nell'inventario del 1638, egli appare soprattutto come pittore di storia e di paesaggio.
Il ritratto che egli dipinse per il suo protettore, presenta peraltro l'effigiato davanti
a "una veduta dalle finestre dell'Anticamera dove mangiava" in un formato
standard ma orizzontale (SALERNO [1960], p. 147, n. 265). Infine, il terzo ritratto del
marchese ("una mezza figura" di cm 179 ¥ 134 circa) è opera del suo
"pittore domestico", Nicolas Régnier: il solo dei quattro artisti sopra
menzionati che potrebbe verosimilmente avere eseguito il dipinto qui in esame. Nella sua
Vita del pittore di Maubeuge, Joachim von Sandart descrive il soggiorno di Régnier presso
palazzo Giustiniani e riferisce dell'alta reputazione di cui questi godeva in qualità di
pittore del marchese (vedi la scheda D19 sulla Cena in Emmaus di Nicolas Régnier in
questo stesso catalogo). Sandrart menziona anche i dipinti che egli eseguì, i temi
trattati e la tecnica utilizzata dall'artista, ma non fa alcun riferimento alla sua
attività di ritrattista (SANDRART [1675, ed. 1925], p. 368). Tuttavia, Régnier, che si
affermerà a Venezia proprio come ritrattista, realizzò per il proprio mecenate non
soltanto il suo ritratto, ma anche un autoritratto "in tela da testa", anch'esso
menzionato nella "Guardarobba" (SALERNO [1960], p. 147, nn. 259, 260). Questi
due dipinti vengono ritenuti ancora oggi scomparsi, ma il doppio ritratto attribuito a
Nicolas Régnier, Il pittore al cavalletto del Fogg Art Museum, ne è una evocazione
significativa (fig. 1). In effetti, vi si può riconoscere, come hanno già convenuto
altri specialisti, l'autoritratto del pittore e l'effigie del suo protettore romano
(FANTELLI [1973], pp. 152-153). L'artista si è qui raffigurato con tavolozza, pennello e
portamano davanti al suo cavalletto, sul quale è posato un ritratto a mezzo busto quasi
finito. L'artista fornisce pochi elementi per identificare il personaggio che egli sta
dipingendo. Tuttavia, se si confrontano il disegno di Mellan, la nuova immagine del
marchese e l'uomo ritratto della tela americana, è possibile riconoscere, ogni volta, la
stessa fisionomia. Il modello è tuttavia più giovane di qualche anno rispetto alla
versione di Mellan, datata 1631, ma appare più maturo rispetto al dipinto inglese.
Qualora questi due ritratti di Giustiniani fossero effettivamente opera di Régnier, essi
dovrebbero essere stati dipinti prima del 1626, anno in cui l'artista risulta essersi
definitivamente stabilito a Venezia: uno agli inizi del suo soggiorno romano, l'altro alla
fine di questo (la versione del Fogg Art Museum avrebbe potuto comunque essere dipinta
poco dopo il suo arrivo a Venezia, come omaggio più tardo al suo protettore romano). La
cronologia dei quattro ritratti di Vincenzo Giustiniani sino ad oggi noti, comprendente un
arco di tempo di circa trent'anni, potrebbe dunque corrispondere a questa sequenza: il
dipinto del palazzo Giustiniani a Bassano di Sutri, dove il marchese è ancora giovane
(ante quem 1595); l'opera qui presa in esame; quella del Fogg Art Museum; e infine
l'incisione di Claude Mellan, datata 1631. Il nostro ritratto ed il dipinto del Fogg Art
Museum appartengono a due tradizioni differenti; inoltre, essi differiscono tra loro tanto
per la cronologia quanto per il rispettivo destinatario. Il primo, più ufficiale, adotta
uno schema ieratico, un poco maldestro, e presenta una pennellata meno definita. Lo
sguardo del modello è immobile; il suo viso è scolpito dal forte contrasto tra luce ed
ombra. L'opera potrebbe evocare i primi ritratti di Velázquez, caratterizzati da grande
austerità e da un naturalismo severo, probabilmente noto a Roma per il tramite degli
scambi diplomatici. Il secondo si inserisce, piuttosto, nella tradizione del
Freundschafts-bild. Régnier dipinge il suo autoritratto come se fosse stato appena
interrotto, reagendo di fronte all'osservatore, evocando così il concetto della
"ressemblance parlante" (SUTHERLAND HARRIS [1991], pp. 192-208). L'iconografia
del dipinto e la sua composizione appaiono più complessi: la fattura più sfumata e
l'esecuzione virtuosa evocano in prima battuta la produzione romana dell'artista, così
come la conosciamo oggi. È inoltre immediato il rimando ai due esempi di Van Dyck e di
Simon Vouet. Probabilmente dipinta intorno al 1625, la tela del Fogg Art Museum è
rapportabile stilisticamente al Chitarrista del Musée des Beaux-Arts di Grenoble. I
ritratti di questo periodo presentano, d'altra parte, una caratterizzazione formale più
decisa, con tratti e stilemi facilmente riconducibili all'arte di Régnier, agevolando
così tanto il processo attributivo quanto la datazione, che appaiono ben più
problematici per le prime opere dell'artista. La carriera di ritrattista di Nicolas
Régnier a Venezia è ben nota (FANTELLI [1973], pp. 145-167). È, invece, innegabile che
per quanto riguarda il soggiorno romano dell'artista, la ricostruzione della sua attività
in questo genere pittorico rimane alquanto confusa; non possediamo nessun punto di
riferimento certo, fatta eccezione per le due tele menzionate nell'inventario stilato dopo
la morte di Vincenzo Giustiniani. Il caso di Régnier è peraltro una regola, piuttosto
che un'eccezione per tutti gli artisti di area caravaggesca attivi a Roma in questi anni:
questo campo rimane ancora oggi ben poco documentato (GREGORI [1985b], p. 227). Il nuovo
ritratto di Giustiniani è stato, di volta in volta, attribuito ipoteticamente a Pietro
Paolini e a Massimo Stanzione (comunicazione orale di John Spike). Il primo a proporre il
nome di Nicolas Régnier è stato Clovis Whitfield, seguito da Silvia Danesi Squarzina e
da Claudio Strinati (comunicazioni orali). Di fatto, siamo qui ben lontani dal trattamento
spontaneo, vibrante, pieno di esuberanza che caratterizza i ritratti eseguiti a Roma da
Vignon, Vouet o Mellan. Siamo, piuttosto, vicini agli esempi noti di Valentin o di Orazio
Riminaldi, nei quali l'elemento caratterizzante è l'uso di un realismo più immediato e
brutale (CUZIN [1975], pp. 53-54; GREGORI [1985b], pp. 227-229). Tuttavia, la nostra tela
appare prossima soprattutto agli altri due ritratti attribuiti a Régnier, da situare
piuttosto all'inizio della sua carriera (una fase per la quale la cronologia rimane ancora
da precisare): il Ritratto di giovane con la spada, dell'Institute of Arts di Detroit
(fig. 2) (PARIS-NEW YORK-CHICAGO [1982], pp. 315-316, ill. p. 188) ed il Ritratto di
giovane uomo della Gemäldegalerie del Kunsthistorisches Museum di Vienna (fig. 3) (FERINO
PADGEN-PROHASKA-SCHÜTZ [1991], p. 40, ill. 170). Elementi come la sobrietà della
composizione, lo sguardo fisso, l'illuminazione, nonché taluni dettagli stilistici
sembrano accreditare la validità del confronto. Anche nel ritratto di Giustiniani, il
volto è trattato con una materia spessa, applicata in ampie zone luminose (che si possono
rilevare nel modo in cui sono dipinti la fronte e le pieghe del collo). Laddove è ancora
visibile, il tocco rimane affrettato, e a volte sommario (si badi che Régnier è
generalmente più sfumato e più grafico): una piccola zona marrone permette di
distinguere il collo dall'orecchio e di evocare l'ombra proiettata da quest'ultimo. Sono
questi tutti aspetti che è possibile riscontrare nei due ritratti citati sopra. Al
contempo, la costruzione del volto attraverso la luce, l'ombra del collo sul colletto
bianco, la lumeggiatura sul naso, il modo di dipingere le sopracciglia e la bocca sono
tutti comuni alle tre tele. La scelta di una tinta fredda, color malva, sul labbro
inferiore di Giustiniani è, invece, più inusuale. Infine, la manica sinistra, in cui il
trattamento del tessuto setoso è condotto dall'uso delle lumeggiature bianche sulle
pieghe, si accorda maggiormente al Régnier che conosciamo, attento com'è alla resa dei
materiali e alla descrizione degli elementi decorativi. Il ritratto di Vienna tradisce
d'altronde in modo più netto questo gusto che è proprio del pittore di Maubeuge.
Un'altra tela molto vicina potrebbe essere il S. Sebastiano curato da Irene e da una
fantesca del Museum Iris & B. Gerald Cantor for Visual Arts dell'Università di
Standford. L'autore del ritratto di Giustiniani ha saputo sviluppare per il volto e per le
mani un acuto senso volumetrico e luministico, con le ombre molto tagliate (sfruttando la
preparazione scura), che fanno di lui uno dei pochi "ritrattisti caravaggeschi"
conosciuti fino ad oggi. Egli cerca di tradurre i dettagli salienti della fisionomia del
marchese, ma sono le mani più che il volto ad animare l'immagine e a lasciare trasparire
la vita interiore del personaggio. Quella che mostra la lettera appare più consumata ma
corrisponde nondimeno molto bene allo stile romano di Régnier (con le grinze della mano
suggerite dall'ombra e dai tratti che sembrano allungarla); la seconda, integra in ogni
parte del modellato, stupisce per quanto è estranea all'arte del nostro pittore. Si
tratta, peraltro, del brano più straordinario dell'intero dipinto ed al contempo il
meglio conservato, per cui costituisce l'ostacolo maggiore alla attribuzione dell'opera in
favore dell'artista di Maubeuge. Con un tocco fluido e sommario il pittore evoca la mano
che stringe il fazzoletto, punto in cui si concentra tutta l'energia del personaggio,
lasciando apparire le vene e la trasparenza della pelle. La mano è quasi tagliata da una
luce violenta che piomba nella penombra, senza alcuno sfumato, mentre le dita si ripiegano
sul tessuto di un bianco gessoso, abbozzato con rapidità. Le pieghe ondulate ricordano
Borgianni o Fetti piuttosto che Régnier. Questa mano così prominente, questo trattamento
aspro, privo di sfumature, sorprendono; sono tutti elementi che non rassomigliano a ciò
che conosciamo della produzione romana di Régnier. È inoltre necessario prendere in
considerazione lo stato di conservazione della tela e quello degli altri dipinti noti di
Régnier: un aspetto che rende a volte la lettura difficile ed i confronti stilistici
assai delicati. Il dipinto ha, effettivamente, sofferto a causa del rifodero, che va
considerato la causa di un appiattimento generale, soprattutto dei neri. I capelli, per
esempio, sono in gran parte scomparsi; soltanto il tratto del contorno può essere
distinto con chiarezza. In attesa che l'esposizione consenta un'analisi diretta, non
escludiamo che questo ritratto problematico possa essere un originale del pittore di
Maubeuge. La ricomparsa di questa tela invita a riconsiderare, con tutta la cautela
necessaria, ma con elementi ulteriori, l'attività di ritrattista svolta da Régnier
durante il suo soggiorno romano. In questo contesto, il dipinto testimonierebbe dei
rapporti tra il mecenate ed il suo "pittore domestico": c'è da chiedersi se la
composizione dalle proporzioni armoniose e la resa realistica del volto e delle mani
risponderebbero alle aspettative del marchese Giustiniani, perfettamente consapevole delle
difficoltà intrinseche all'arte del ritratto (PREIMESBERGER [1999], pp. 316-320). Egli
spiega in effetti, nel suo Discorso sopra la pittura, che il pittore ideale deve sapere
"ritrarre bene le persone particolari, e specialmente le teste che siano simili, e
che poi anco il resto del ritratto, cioè gli abiti, le mani e i piedi, se si fanno
interi, e la postura, siano bene dipinti, e con buona simmetria, il che non riesce
ordinariamente, se non a chi è buon pittore" (GIUSTINIANI [s.d., ed. 1981], p. 42).
(Annick Lemoine)
NOTA: Quadro non presente nella mostra
Il Battista Giustiniani di Nicolas Regner proveniente dall’illustre e antica
collezione Giustiniani, approdò negli anni Sessanta del secolo scorso sull’isola de Li Galli, di proprietà del celebre coreografo e ballerino
russo Léonide Massine, nella sua spettacolare villa rivisitata da Le Corbusier, tra l’azzurra isola di Capri e Positano; fino a raggiungere,
lungo quei percorsi suggestivi e imprevedibili della storia, il salone dello storico palazzo Confalone di Ravello.
La pulitura effettuata nel 2015, che ha esaltato l’ottimo stato di conservazione, è stata una vera e propria rivelazione: l’opera ci appare ora davvero,
nella sua integrità, quanto di meglio potesse essere realizzato a Roma in ambito caravaggesco dopo la scomparsa del genio lombardo.
Il San Giovanni Battista nel deserto di Nicolas Régnier, d’ora in poi battezzato «Giustiniani», è opera straordinaria per più di una ragione. Innanzitutto, per le sue dimensioni monumentali (cm 254
× 192), che sono quelle di una pala d’altare, del tutto eccezionali per la rappresentazione del Precursore nel deserto prima del 1626.
In secondo luogo, perché testimonia chiaramente una svolta nella carriera di Régnier, il tentativo, cioè, di guardare a nuovi orizzonti.
La tela tradisce una ricerca in corso; vi fa la sua comparsa un pathos fino a questo momento inedito nell’arte di Régnier, un’emozione palpabile, rivelata – in maniera eccelsa – dall’ultimo restauro. Ai
caratteri tipici della pittura dal naturale, Régnier unisce qui solennità e magniloquenza.
Ritratto del cardinale Benedetto Giustiniani - Ignoto disegnatore del Seicento
Il piccolo disegno, finora inedito, di autore non identificato, ci mostra il cardinale
Benedetto Giustiniani presumibilmente verso i cinquant'anni; non abbiamo maggiori elementi
per dirlo, ma sembra ci sia un rapporto, a livello di schizzo preparatorio, con il busto
in bronzo, di ignoto autore, posto nella cappella della SS. Annunziata, chiesa di S. Maria
sopra Minerva; non si può escludere però il contrario, ossia che il disegno sia ricavato
dal busto stesso. Il prelato è a capo scoperto, ha il primo bottone dell'abito slacciato
e l'espressione bonaria; è questa certamente una delle immagini più rispondenti
all'atteggiamento di semplicità e di spontanea umanità che si notano nelle numerose
notizie su di lui che ci sono pervenute; note negative si colgono solo sulla sua avidità
di collezionista. La Raccolta de ritratti de Cardinali è stata assemblata a cura del
cardinale Celestino Sfondrato, discendente di papa Sfondrato (Gregorio XIV, 1590-1591). Le
relazioni di Benedetto Giustiniani con questa famiglia, legata alla Riforma cattolica, e
in particolare l'amicizia con Paolo Emilio Sfondrato, cardinale di S. Cecilia (che nel suo
testamento, 6 agosto 1615, notai Antimi Palmeri e Crisante Roscioli, aperto il 18 febbraio
1618, ASR, Congregazioni religiose benedettine femminili di S. Cecilia, b. 4073,
BARBIELLINI AMIDEI [1993], pp. 8-12, lascia a Benedetto un Ecce homo su tavola del
Sodoma), sono di non poco rilievo ai fini dell'assetto della collezione, data la
protezione accordata, secondo Bellori (BELLORI [1672, ed. 1976], p. 496), a Reni e Albani
ospitati nel convento di S. Prassede appunto dal cardinale Paolo Emilio, che li
incoraggiò con incarichi; alle spalle della precoce attenzione del genovese e del
cremonese verso la scuola dei Carracci è possibile vedere la presenza di Ferrante Carlo,
noto come consigliere artistico dello Sfondrato; il religioso, all'attenzione verso il
culto dei martiri cristiani, univa una intensa attività di promozione delle arti. Il
busto di bronzo qui riprodotto è accompagnato da un'epigrafe (fig.2), che ricorda l'amore
del cardinale per la Vergine Maria e la vasta eredità da lui destinata alla confraternita
che proteggeva le zitelle. La prima riga dell'epigrafe appare sul disegno tratto dal
codice Vat. Lat. 10952, qui pubblicato. La data del 1658, molto posteriore alla morte di
Benedetto (1621), segna la fine delle controversie patrimoniali circa i lasciti indicati
dal testamento del cardinale in favore appunto della confraternita della SS. Annunziata;
un voluminoso incartamento presso ASR, fondo della medesima confraternita, mostra la
tenacia con cui la famiglia genovese, prima il marchese Vincenzo, poi suo figlio adottivo,
il principe Andrea Giustiniani, dosava le generosità del cardinale. Per ricostruire la
biografia di Benedetto abbiamo varie fonti: una delle più attendibili è quella inedita
di Teodoro Ameyden (Elogia summorum pontificum et S.R.E. cardinalium, ms. 1336, cc.
311r-315v, Biblioteca Casanatense, Roma), solo segnalata in DANESI SQUARZINA [1997], che
del cardinale evidenzia in particolare la "pietà, liberalità ed umanità",
"la propensione al rigore, denotata dall'austerità della fronte e la parola
grave". L'erudito fiammingo, molto legato anche al marchese Vincenzo, ci fornisce,
inoltre, una importante informazione relativa ai rapporti del cardinale con il giovane
Camillo Massimi: "Fra i più cari ebbe Camillo Massimo, suo nipote da parte della
sorella, uomo di civile solerzia, assai prudente, che con l'acume dell'intelletto
supplisce al difetto degli occhi, e che fu suo compagno inseparabile nella legazione di
Bologna, presenza assai significativa nel governo, come ebbe a dire lo stesso
Cardinale". Dunque, Benedetto nei suoi acquisti di pittura emiliana e nei suoi
contatti con gli artisti ebbe al suo fianco Camillo I Massimo, egli stesso importante
collezionista come si evince dal suo ricco inventario che presenta numerose analogie di
gusto con quello dei Giustiniani (Luisa Capoduro in DANESI SQUARZINA [2001], ma anche
brevemente segnalato da Alessandra De Romanis in LECCE [1996], p.346) e quindi partecipe
consigliere. Non vi è dubbio che gli anni in cui il cardinale fu Legato a Bologna
(1606-1611) restano per noi quelli meglio documentati. Le parole utilizzate dall'Ameyden
per descrivere i tratti caratteriali di Benedetto, ovvero la sua determinazione e la sua
severità, li ritroviamo puntualmente nelle narrazioni forniteci dal Malvasia che non
esita a definirlo "ritroso e severo" e totalmente privo di scrupoli; sempre
dalla fonte bolognese si traggono episodi di vivace intimità con gli artisti. Quanto
all'insistenza per acquistare un S. Sebastiano del Francia dai Padri della Misericordia di
Bologna, e quanto alla cattiva copia, mal riposta nella stessa cornice, consegnata ai
Padri "in luogo dell'originale", vedi MALVASIA [1678-1769, ed. 1841-1844], vol.
I, p. 49; l'episodio doveva essere autentico in quanto si può cogliere una specie di
excusatio non petita in un documento conservato presso la Biblioteca Comunale di Bologna
(ms. B.1126), consistente nella Relazione, o sia discorso sopra la Legazione e governo
dell'Ill.mo e R.mo Card. Benedetto Giustiniano Genovese dall'a. 1606 al 1611, una sorta di
difesa dell'operato del Legato, per cui a p. 57 si legge: "Circa le pitture, che gli
piacevano, s'egli le hà chieste, et le hà pagate a' quelli, che gli le hanno volute
vendere, niuno ha spogliato né adoprata la forza verso q.lli che non gli l'hanno volute
concedere, e non è vero, che habbia usato inganno o violenza contro alcuno". La
relazione si chiude con un accattivante invito ad alzarsi e andare a vedere il giardino
che aveva il cardinale a palazzo. Il gusto per un realismo accentuato fino all'orrido che
Malvasia attribuisce al cardinale si riscontra nella medaglia del 1606 (asta Christie,
Roma 14 dicembre 2000, n. 1248); l'apostolo è raffigurato con la testa mozzata e,
particolare insistito, con un fiotto di sangue che esce dal collo; sul recto la facciata
della chiesa di S. Paolo a Bologna e il busto del cardinale. Una breve biografia anonima
di Benedetto Giustiniani (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Ferraioli 773, f. 7v)
illustra meglio di ogni commento la sua personalità. "Benedetto Cardinal
Giustiniano. Di Thesoriero generale fu fatto Cardinal da Sisto, il che fa che egli
reconosca da suoi danari più che da Montalto il capello. Tuttavia si conterano benissimo
seco ancora. è officioso et efficace per l'amici. ha molta solertia et è gran captatore
di benevolenza con i grandi, perché gli lusinga et si mostra tenace de' loro interessi,
et sa facilmente interessarli conche s'ha guadagnata la confidenza del Papa, et
d'Aldobrandini et ha riportato più di sei milla scudi d'entrata sotto questo pontefice.
S'ingerì nel processo in cui fu provata la legittimità del Signor Cardinal Aldobrandino,
et ha voluto tener mano nella Prattica del Parentado di Pa[...]. Invigila et attende à
tutto quello che gli puo acquistare confidenza et merito col Papa, con Aldobrandino et con
altri principi. Per esser [f. 11r] stato viceprotettore di Francia ha intelligenza molto
più da quella parte et dal gran Duca che da Spagna. S'è mostrato particolare assolutore
di Madruzzo et gran campione di Santa Severina. Il Padre che partì da Scio quando fu
occupato da Turchi ha fatto con la mercatura essercitata da lui con molta fede et
integrità grossissima facoltà. Morì pochi di orsono. Ha il Cardinal un fratello che pur
attende alla mercatura ma per altro di maniere, costumi et erudittione più da cortigiano
che da mercante, et è il Signor Vincenzo ammogliato ma non ancor Padre. D'una sorella
maritata nei Massimi gli resta un nepote chiamato Camillo et un'altra sorella maritata
già nel fratello di Bandini è morta (probabilmente si tratta della sorella Angelica
sposata Monaldeschi, morta nel 1580, mentre Caterina Giustiniani Bandini morì nel 1613).
Ha 12mila scudi d'entrata spesi assignatamente" (BAV, ms. Ferrajoli 773, f. 7v).
(Silvia Danesi Squarzina)
Ritratto della Principessa Giustiniani - Pompeo Batoni
Le cronache d'arte del tempo attribuiscono a Cecilia Carlotta Francisca Anna Mahony un
ruolo non secondario nella vita artistica romana. Nata nel 1741 dal conte James Joseph
Mahony e Lady Anne Clifford (giunti in Italia dalla Francia nel giugno 1740), Cecilia
lascerà eredi alla sua morte nel 1789, i figli Vincenzo, Lorenzo e Giacomo che il 29
luglio 1793 venderanno per 500 ducati i quadri ed i mobili ereditati da Anne Clifford,
stabilitasi negli ultimi anni della sua vita a Forio d'Ischia (ROLFI [2000], p. 61 e
passim). Personalità mondana - le cronache la ricordano in primo piano nei ricevimenti
dati in onore del cardinale de Bernis che nel gennaio del 1787 era giunto a Roma come
ambasciatore di Francia, e per l'accoglienza accordata nella sua casa di Ischia
nell'agosto del 1787 ad Emma e Sir William Hamilton - Anne Clifford dovette nutrire uno
spiccato interesse per l'arte contemporanea, a giudicare dal ritratto richiesto a
Subleyras fra il 1740 e il 1745 (oggi a Caen, Musée des Beaux-Arts; CAEN [1980], n. 40;
MICHEL-ROSENBERG [1987], pp. 264-265, n. 77, tav. VIII) e dalla commissione a Batoni, poco
dopo il suo arrivo in Italia, del ritratto della figlia giovinetta (oggi disperso; FORD
[1974a], p. 414, fig. 10; CLARK-BOWRON [1985], p. 364; INGAMELLS [1997], p. 629). Legato
ad Anne Clifford e al mercato inglese del Grand Tour è ancora il ritratto della
principessa eseguito da Batoni su richiesta del cugino primo di Lady Anne Clifford,
William Constable di Burton Constable nello Yorkshire, che nel giugno del 1785 fece
eseguire all'anziano pittore i ritratti di Cecilia e del marito per 100 zecchini d'oro
(CLARK-BOWRON [1985], p. 363; BUSIRI VICI [1968], pp. 20-21, fig. 32; BUSIRI VICI [1969],
pp. 1-5). Diverso dagli state portraits dell'aristocrazia europea che gli valsero
"l'ampio Diploma di Nobiltà per sé, e i suoi figli maschi" concesso da Maria
Teresa d'Asburgo (BONI [1787], p. LIX), il ritratto di Cecilia Mahony nella sua colta e
semplificata inquadratura ferma con naturale verosimiglianza la psicologia della
principessa Giustiniani (CLARK-BOWRON 1985, pp. 362-364, n. 456), arcade con il nome di
Rosinda Dircesia. E all'Arcadia rimanda la presenza dei Giustiniani nei circoli culturali
del Settecento romano che nel 1705 aprirono il loro giardino ai "Giuochi
Olimpici" degli Arcadi (CRESCIMBENI [1712], p. 9); all'istituzione promotrice di una
equilibrata riforma del gusto, cui fu contiguo lo stesso Batoni, è legata un'altra
impresa che coinvolge l'ambito delle frequentazioni della famiglia, vicina agli Altieri e
imparentata con i Ruspoli: la decorazione di soggetto virgiliano in cui si avvicendano
Pietro Angeletti, Tommaso Sciacca e Luigi Baldi (1782) dell'appartamento nobile di palazzo
Ruspoli messo in cantiere per le nozze dell'arcade Francesco Ruspoli (Erimante Arsenio)
con donna Isabella Giustiniani, figlia di Benedetto e Cecilia (MICHEL [1996], pp.
599-609). Qualche spiraglio sulla personalità di Cecilia Mahony può trarsi
dall'inventario del 1789, che se meno nutrito di libri "nocivi" rispetto alla
biblioteca del marito, presenta una scelta rosa di letture che vanno da Tacito ai Contes
arabes delle Mille e una notte, al romanzo inglese moderno, Robinson Crousoe, mescolando
l'Asino d'oro di Apuleio al Recueil des dames di Pierre de Bourdeille, signore di
Brantôme, a Machiavelli, cataloghi antiquari (quello di Bayardi su Ercolano edito nel
1755 a Napoli) e le commedie di Goldoni e dell'abate Chiari (ROLFI [2000], p. 61).
L'elogio della principessa Giustiniani "amicissima delle Arti", pubblicato sul
"Giornale delle Belle Arti" del 1788 (ROLFI [2000], p. 58), fa da sfondo al
ritratto di Batoni e alle letture. La principessa appare protagonista della cronaca
artistica per sensibilità nuova verso la tutela e la conservazione degli oggetti d'arte:
aveva fatto sperimentare una nuova "manteca" nel restauro delle tele dell'antica
collezione Giustiniani "per la maggior parte guaste, e rovinose" cui già nel
1757 aveva messo mano Giovanni Conca facendo uso "per loro mala ventura"
dell'"encomiata Vernice". Il restauro dei dipinti Giustiniani diverrà parte in
causa della polemica intorno alle vernici sollevata da Hackert proprio in quegli anni.
Affidato a Margherita Bernini il restauro varrà eseguito sotto la supervisione di Pietro
Angeletti, lo stesso che nel 1793 in veste di "Pittore Eroico Accademico di S. Luca,
ed Assessore dell'Antichità Romana" stilerà la "Descrizione Dei quadri di
Pitture andanti esistenti nel Palazzo alla Rotonda" alla morte di Benedetto
Giustiniani (ROLFI [2000], pp. 62-63). Nei numeri precedenti del "Giornale delle
Belle Arti" si dà notizia della "Manteca prodigiosa adopertata dalla ben nota
Sig. Margarita Bernini" sui famosi dipinti di "di Guido Reni esprimente S. Paolo
Eremita, S. Antonio Abate, la Vergine, e il Divin Figliolo", la "Cananea
dell'Albano, ed al suo quadro del Battesimo di Cristo; a quello di Gherardo delle Notti,
cioè il Redentore di notte innanzi al Preside; al S. Pietro in carcere dello stesso; alla
risurrezione del Figliuol della Vedova di Annibale Caracci; a Cristo nell'orto del
medesimo, alla lavanda di Michelangelo da Caravaggio, alla famosa strage degl'Innocenti di
Niccolò Passino (sic)" ("Giornale delle Belle Arti" [1788], pp. 288-290;
PANZA [1990], p. 77).
(Serenella Rolfi)
Ritratto del Principe Benedetto Giustiniani - Pompeo Batoni
Il dipinto ben si situa nell'ambiente cosmopolita dello scorcio del secondo
Settecento romano cui rimanda l'ambito della committenza, il legame di parentela dei
Giustiniani con i Mahony e i Clifford e il nome di Batoni. Sono ormai noti i legami di
Batoni con il mercato inglese, tramite la sua frequentazione del pittore Thomas Jenkins e
agenti fra cui l'antiquario scozzese James Byres. Proprio quest'ultimo, per anni
"guidance of the Taste and Expenditures of our english Cavaliers" e cicerone
dello stesso Winckelmann al suo arrivo a Roma (FORD [1974b]), funse da tramite fra Batoni
e William Constable, amatore d'arte e collezionista, per la commissione di questo ritratto
pagato 50 zecchini d'oro e del suo pendant (BELLI BARSALI [1967], p. 166, n. 59; FORD
[1974a], p. 414, tav. III; CLARK-BOWRON [1985], p. 364, n. 457). Byres, stabilitosi a Roma
in strada Paolina vicino a Batoni che nel febbraio del 1787 l'avrebbe nominato esecutore
testamentario, procurò infatti nel 1785 all'anziano pittore lucchese la commissione di
ben tre ritratti da spedire nello Yorkshire (FORD [1974a]). Constable fece richiedere in
prima battuta a Batoni una copia del ritratto che Pierre Subleyras aveva fatto a Roma di
sua cugina, la contessa Lady Anne Clifford, sposatasi nel 1739 con James Joseph Mahony
luogotenente generale di Carlo VII e in seconde nozze con don Carlo Sanseverino (1773;
CLARK-BOWRON [1985], p. 362, n. 454; KINGSTON [1970], n. 73; MICHEL-ROSENBERG [1987], pp.
264-265, n. 77, tav. VIII; INGAMELLS [1997], p. 629). Lo stesso anno richiese all'anziano
maestro il ritratto della figlia di James Joseph e Lady Anne, Cecilia e quello del marito,
il principe Giustiniani sposato da questa nel 1757 (FORD [1974a], p. 414, tav. IV;
CLARK-BOWRON [1985], p. 362, n. 456). La presenza di due personaggi tutt'altro che di
secondo piano del collezionismo inglese quali William Constable e Lady Clifford (INGAMELLS
[1997]; William Constable [1970]; FORD [1974a]), e i legami con il mercato inglese di
Batoni costituiscono le ragioni di una committenza peraltro non del tutto estranea
all'ambito di frequentazioni di casa Giustiniani. Benedetto, primogenito di Girolamo
Vincenzo e Anna Maria Ruspoli sposatisi nel 1734, e divenuto erede universale del
fedecommesso il 7 febbraio 1757 (HOPF [1882], p. 108), appare nelle cronache artistiche
contemporanee accanto al nome degli allievi del maestro lucchese. Il 10 giugno 1777 ad
esempio figura come accompagnatore di Johann Gottlieb Pulhmann nella visita alla Sistina
insieme ad un altro pittore definito da Pulhmann come un allievo genovese del maestro
(ECKARDT [1979], pp. 82, 129, 130). I due ritratti spediti nello Yorkshire costituiscono
un tassello di un quadro ancora da definire nei particolari, gettando qualche luce in più
sui Giustiniani del Settecento accompagnati dall'acre giudizio di Charles de Brosses del
1739-1740: "Ce Prince Justiniani a l'air bien grêle" (DE BROSSES [1991], vol.
II, p. 756). A questi indizi fa da cornice l'ambiente cosmopolita che frequenta palazzo
Giustiniani visitato da Antonio Canova e dall'archeologo Alois Hirt promossosi a Roma, fra
il 1782 e il 1793, guida dei grands tourists tedeschi fra cui fu lo stesso Goethe (GOETHE
[1983], pp. 175-176, 436; ROLFI [2000], p. 70). Fu Hirt stesso a stilare l'inventario dei
dipinti del 1826 dopo il passaggio di parte della collezione Giustiniani nelle collezioni
berlinesi. Benedetto morirà durante un viaggio a Firenze il 15 marzo 1793 lasciando erede
del patrimonio l'arcade Vincenzo Giustiniani (Leucronte Trimanzio) fratello maggiore del
cardinal Giacomo, personalità di spicco del pontificato di Pio VII e protettore di
Gaspare Landi. Prima ancora dei figli Vincenzo, Giacomo e Lorenzo protagonisti della scena
pubblica della Roma giacobina e di quella della restaurazione del cardinal Consalvi, il
nome di Benedetto durante i pontificati di Clemente XIV Ganganelli e di papa Braschi,
appare legato a quello di Francesco Ruspoli ed Emilio Altieri entrambe arcadi (SILVAGNI
[1971]). Il profilo privato del principe Giustiniani emerge dall'inventario della
biblioteca stilato il 26 marzo 1793 (ROLFI [2000], pp. 61, 81). Il documento attesta una
sensibilità culturale, se non erudita, aggiornata però alle novità editoriali che a
Roma si discutevano ad esempio nel cosmopolita "Circolo del Tamburo" tenuto in
casa del marchigiano Domenico Passionei (CARACCIOLO [1968], p. 194). Fra i titoli troviamo
le Opere di Algarotti nell'edizione livornese del 1764, il Contratto sociale di Rousseau
edito ad Amsterdam nel 1762 e valutato 50 baiocchi, i tomi della Storia naturale di Buffon
stampati a Parigi nel 1769, le opere di Voltaire (12 tomi) edite ad Amsterdam nel 1764.
Non manca un accenno alla "moderata devozione" del Muratori, che appare fra i
titoli con la Regolata divozione de' cristiani del 1747 accanto a Gozzi, Tiraboschi e al
Diritto della natura e delle genti illustrato da G. Batta. Amici di Samuel Buffendorff
pubblicato a Venezia nel 1757. Tenendo presenti le annotazioni di Alessandro Verri giunto
a Roma nel 1767 - "pochi sono gli uomini colti e ragionevoli e questi pochi devono
tacere e vestire la maschera universale" (VERRI [1923], vol. I, 1, pp. 385-386) -, il
ritratto di Batoni con la rete di relazioni internazionali che ne sostanzia la
committenza, e le letture aggiornate al razionalismo illuminato e "filosofico"
di fine del Settecento costituiscono un indizio circa la cultura e il gusto del principe
sullo sfondo della Roma arcadica del papato di Pio VI Braschi. (Serenella Rolfi)
Busto di Innocenzo X - Alessandro Algardi
Il busto è stato reso noto agli studi nel 1958, quando ancora si trovava a Bassano di
Sutri, nel palazzo originariamente dei Giustiniani e poi passato agli Odescalchi (FALDI
[1958], pp. 113-114). La sua collocazione rendeva ipotizzabile l'appartenenza alle
collezioni dei Giustiniani, che alla metà del Seicento erano oltretutto legati alla
famiglia di Innocenzo X attraverso il matrimonio del principe Andrea con Maria, una delle
nipoti del pontefice, figlia di Olimpia Maidalchini e di Pamphilo Pamphilj...
Roma,
Chiesa di S. Maria sopra Minerva, cappella Giustiniani La pala d'altare che decora la
cappella Giustiniani era un'opera concordemente datata intorno al 1604, sulla base di
quanto riferito dalle fonti. Secondo alcuni storiografi, a cominciare dal Soprani, con
questo dipinto il Castello si rese noto ai romani durante il suo primo soggiorno
documentato nella città papale (1604-1605) (SOPRANI [1674], p. 122; SOPRANI-RATTI
[1768-1769], vol. I, p. 160; BALDINUCCI [1681-1728], vol. V, 1712, p. 288); secondo altri,
la pala sarebbe stata inviata da Genova poco prima (BAGLIONE [1642], vol. I, p. 284; TITI
[1763], p. 162). Si discostavano da tale cronologia Regina Erbentraut, che attraverso
l'analisi stilistica era giunta a collocare l'opera intorno al 1584 (ERBENTRAUT [1989],
pp. 69-73), e Silvia Danesi Squarzina (DANESI SQUARZINA [1996], pp. 94-121). Il recente
restauro del dipinto (1998), compiuto da Rossano Pizzinelli per la Soprintendenza ai Beni
Artistici e Storici di Roma, sotto la direzione di Claudio Strinati, ha rivelato
l'esattezza di questa datazione - 1584 - scritta in nero con numeri arabi sulla colonna
sostenuta dall'angelo in alto a destra (fig. 1). La pala fu dunque eseguita a Genova poco
dopo la morte del cardinale Vincenzo Giustiniani (1582), generale dell'Ordine Domenicano
presso S. Maria Sopra Minerva, e titolare della cappella. Alla luce della nuova datazione,
risulta più probabile che i committenti dell'opera fossero Pietro, Giuseppe e Giorgio, i
congiunti del prelato che curarono la sepoltura (vedi epigrafe del monumento funerario
sulla parete sinistra della cappella) piuttosto che il cardinale Benedetto Giustiniani,
nipote di Vincenzo, come indicavano gli storiografi. Nel dipinto molte delle figure
mostrano un chiaro intento ritrattistico: esse rappresentano, con evidenza, i membri della
famiglia Giustiniani, tra i quali sono sicuramente anche i committenti; alla Danesi
Squarzina si deve l'individuazione di alcuni di essi. La studiosa ha indicato nel volto
del prelato in nero, alla destra del santo, la fisionomia del citato cardinale Benedetto,
fratello del celebre collezionista Vincenzo; quest'ultimo è forse rappresentato nel
giovane in primo piano a sinistra. Un personaggio di più sicura identificazione è il
marchese Giuseppe Giustiniani, padre dei due fratelli, poiché il volto in primo piano a
destra, dietro l'uomo con l'armatura, è identico al ritratto nel monumento funebre del
marchese e alla stampa che reca la medesima effigie nella raccolta di incisioni che
costituiscono la Galleria Giustiniana (DANESI SQUARZINA [1995], p. 100). Un'uguale
fisionomia è riscontrabile anche in una figura dell'Adorazione dei Pastori di Baltimora
(Walters Art Gallery), quadro di Bernardo Castello datato 1582 che, secondo Federico Zeri,
è pervenuto alla collezione americana dalla collezione Massarenti. L'ubicazione del
ritratto di Giuseppe Giustiniani al margine destro, nel luogo deputato al committente,
indica invece che l'opera appartenne alla collezione di quest'ultimo. Essa è stata quindi
identificata dalla Danesi Squarzina in una tela, citata al n. 85, nei due inventari
inediti del cardinale Benedetto Giustiniani erede di quella collezione, resi noti dalla
studiosa (DANESI SQUARZINA [1995], p. 101; DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI
SQUARZINA [1998a], pp. 102-118). Bernardo Castello cominciò dunque a lavorare per i
Giustiniani fin dal 1582 e, vista l'ampia attività ritrattistica del pittore, per la
quale fu particolarmente stimato (SOPRANI [1674], pp. 119-121; SOPRANI-RATTI [1768-1769],
vol. I, pp. 156-159), è plausibile la proposta recentemente avanzata dalla stessa
studiosa di attribuirgli l'esecuzione di altre opere della cappella gentilizia romana: i
due ritratti del cardinale Vincenzo e del marchese Giuseppe inseriti nei rispettivi
monumenti funebri (DANESI SQUARZINA [1995], pp. 100-102). Del resto nella collezione del
cardinale Benedetto, risulta dagli inventari, figuravano anche altri ritratti eseguiti
dallo stesso pittore (DANESI SQUARZINA [1997], pp. 766-791; DANESI SQUARZINA [1998a], pp.
102-118). Vincenzo Giustiniani fece edificare la cappella gentilizia, a lui concessa in
seguito alla nomina a cardinale, poco dopo il 1570. Poiché nello stesso luogo preesisteva
un altare intitolato al santo domenicano Vincenzo Ferreri, la dedicazione della nuova
cappella allo stesso fu quasi ovvia: egli era anche il santo protettore del prelato, che
ne portava il nome. Meno ovvio è il soggetto, assai raro, che i committenti chiesero di
realizzare nel dipinto, certamente suggerito dal fatto che la biografia del cardinale
defunto aveva molte affinità con quella del santo. Vincenzo Ferreri, al centro della
figurazione, è in atto di parlare ad un folto gruppo di persone che lo circonda, davanti
all'imperatore Sigismondo, al papa Benedetto XIII e ai loro consiglieri. A destra si
individuano i laici, a sinistra i religiosi: il pontefice e l'imperatore in primo piano
sono le massime autorità che li rappresentano. Sullo sfondo si vedono due quinte
architettoniche simmetriche e la facciata di un edificio di alessiana memoria. La scena
terrena è sovrastata da un'apparizione divina, cui volge lo sguardo il santo predicatore,
costituita dal Cristo giudice e da angeli recanti i simboli della passione. S. Vincenzo si
adoperò con tutti i mezzi di cui disponeva e soprattutto con la predicazione, affinché
la chiesa, disgregatasi con lo Scisma d'Occidente, tornasse a unificarsi. Durante il
concilio di Costanza (1414-1418), convocato allo scopo di eleggere un nuovo e unico capo
della Chiesa, il santo spagnolo profuse grande impegno per convincere il papa suo
connazionale, Benedetto XIII, a rinunciare al soglio pontificio, come già avevano fatto
per libera scelta o per imposizione gli altri papi scismatici Gregorio XII e Giovanni
XXIII. A Perpignan si svolse nel 1416 un incontro tra il pontefice renitente, l'imperatore
e il re Ferdinando di Castiglia, cui partecipò anche il Ferreri; poiché le trattative
non ebbero successo, quest'ultimo pronunciò un discorso, rimasto celebre, davanti a
cardinali, principi e allo stesso Benedetto XIII. La Erbentraut ritiene che la scena
rappresentata da Bernardo Castello si riferisca a tale episodio (ERBENTRAUT [1989], p.
70). Le vicende biografiche del cardinale Vincenzo Giustiniani coincidono in molti punti
con quelle del santo. Egli dedicò molte energie alla ricostituzione dell'unità della
Chiesa messa in serio pericolo dalla Riforma protestante, prendendo parte ai lavori del
concilio di Trento (1545-1563) nel corso del quale furono dichiarati eretici Lutero,
Zwingli e Calvino, in analogia a quanto avvenne durante il concilio di Costanza, con la
condanna per eterodossia di Hus, Wyclif e Girolamo da Praga. Come S. Vincenzo combatté
l'eresia degli Albigesi e dei Catari attraverso la predicazione, così il cardinale
contrastò il protestantesimo e contribuì a diffondere la religione cattolica attraverso
l'invio dei missionari nei paesi in cui essa era sconosciuta. Infine, nel soggetto
rappresentato dal Castello potrebbe scorgersi un riferimento indiretto ad un altro santo
domenicano, Pio V Ghislieri (1566-1572), il pontefice cui il Giustiniani doveva la
porpora, il quale ebbe un'impostazione politica assai simile a quella che assunse
successivamente il cardinale. Il quadro realizzato da Bernardo Castello ha una figurazione
complessa; l'impianto è ancora manieristico, ma anche rigorosamente simmetrico e
ordinato, conforme alle tendenze della pittura religiosa di fine Cinquecento aderente allo
spirito della Controriforma. Per questi aspetti, la Erbentraut inserisce il dipinto nella
corrente artistica definita da Freedberg della Counter Maniera (ERBENTRAUT [1989], pp.
69-73; FREEDBERG [1971]). L'opera del Castello era stata oggetto di giudizi pesantemente
negativi da parte della critica poiché, collocata nei primi anni del Seicento, risultava
attardata, mentre ora, con una cronologia anticipata di vent'anni, è possibile
rivalutarla a pieno. Bernardo si mostra, anzi, pittore aggiornato alla produzione
artistica del tempo: a quella di Luca Cambiaso, del quale frequentava in quegli anni la
bottega, a quella lombarda (guardando in particolare a Simone Peterzano) e a quella
tardo-manieristica romana. Quest'ultimo è l'elemento più nuovo ed interessante emerso
dal recente restauro, poiché contribuisce a confermare l'ipotesi di un soggiorno romano
del Castello anteriore a quello documentato del 1604. L'intervento di restauro ha portato
a un notevole recupero della cromia originale, ed è così riapparsa la ricca decorazione
delle vesti del pontefice e dell'imperatore, in passato non visibile a causa delle vaste
ridipinture e degli offuscamenti del colore nella parte inferiore del dipinto. La
composizione del quadro ha uno schema analogo a quello del Martirio di S. Stefano di
Giulio Romano. Bernardo conosceva bene quest'opera genovese poiché, poco prima di
realizzare la pala Giustiniani, intorno al 1583, ne dipinse una copia per la chiesa di S.
Giorgio dei Genovesi di Palermo. Il nostro pittore ricevette importanti commissioni dalla
città siciliana, forse grazie a persone influenti come Sofonisba Anguissola e, in tempi
successivi, ad un suo nipote molto ricco e potente, Gregorio, figlio del fratello Giovanni
Battista, il miniatore. Secondo i risultati delle ricerche condotte da chi scrive, al
conte Gregorio Castello, trasferitosi a Palermo nel primo Seicento, appartenne l'album di
disegni oggi a palazzo Abatellis, a lui giunto forse attraverso il padre Giovanni Battista
(GRUMO [1995], pp. 46-63). Si tratta di un'importante raccolta poiché in essa è
conservata, insieme a numerosi disegni di scuola genovese, la serie, quasi completa, dei
disegni preparatori che Bernardo Castello eseguì per l'edizione illustrata della
Gerusalemme Liberata, stampata a Genova nel 1590 (BERNINI [1985] pp. 9-12; Bon di
Valsassina in GENOVA [1985], n. 51). (Giovanna Grumo)
Scrittoio da viaggio del cardinale Benedetto Giustiniani - Ignoto ebanista del
primo quarto del XVII secolo
La presenza, al centro del piano d'appoggio, dello stemma Giustiniani, castello con tre
torri e aquila, sormontato dal cappello di cardinale con croce, cordoni e nappe e, nel
cassettino sul fianco, di un foglio piegato in quattro della Galleria Giustiniana, vol.
II, tav. 5, incisa da Michel Natalis, raffigurante Benedetto, fratello del marchese
Vincenzo, consentono di ritenere che lo scrittoio da viaggio appartenesse al prelato.
Nella "Entrata della Guardarobba" di Benedetto Giustiniani (ASR, Fondo
Giustiniani, b. 15, per i nomi e le date dei guardarobieri cfr. DANESI SQUARZINA [1997],
p. 778), nella sezione "Studioli, forzieri, fiamme, credenzoni e armarij" sono
elencati numerosi studioli in ebano, intarsiati d'avorio in varie fogge, dimensioni e tipi
di cassettini; la descrizione che più si attaglia all'oggetto in questione è la
seguente: "Dui pulpitetti d'ebano intarsiati d'avorio da scriverci sopra alla
napolitana"; il piano inclinato non apribile fungeva da appoggio per scrivere brevi
missive. La decorazione è scandita da sottili linee d'avorio intarsiato che conferiscono
eleganza al raffinato lavoro dell'ebanista; alternati al legno scuro piccoli riquadri di
radica e placchette d'avorio incise con minuscole scene di caccia e pesca, inseguimento
della lepre con cani, reti e picche, caccia col fucile in laguna, pesca con la lenza e la
rete, che mostrano una precisione naturalistica di area nederlandese; d'altro canto è
più plausibile, dato lo stemma del committente, una esecuzione in ambito romano da parte
di un fine artigiano d'importazione. Simbiosi fra italiani e nordici, quali quelle
riscontrabili nella bottega di Tempesta, allievo dello Stradano, erano certo possibili
anche fra gli ebanisti; il fiore di iris (detto anche giglio fiorentino) raffigurato ai
quattro angoli, in quattro diversi momenti della fioritura, denota una attenzione
naturalistica esercitata, che farebbe pensare a un Vincenzo Leonardi, cresciuto come
garzone alla bottega del Tempesta e brevemente utilizzato nella Galleria Gustiniana
(DANESI-CAPODURO [2000]), collaboratore al Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo (Solinas
in ROMA [2000b] con bibliografia precedente), disegnatore di delicate immagini botaniche
attinte al "libro dell'universo". Non sappiamo se siano proponibili episodiche
commistioni fra ambiti diversi; verosimilmente all'incisione delle placchette di avorio
potevano prestare il disegno artisti dediti a compiti più elevati; nella disposizione
delle varie scene sul piccolo mobile si ravvisa l'intento di illustrare vari momenti del
giorno e delle stagioni, con freschezza inventiva; un oggetto colto e senza sfarzo, in
linea col gusto dei Giustiniani. Con estrema gentilezza Daniela di Castro mi segnala uno
spinettino, Roma, Museo Nazionale degli strumenti musicali, in ebano, con placchette di
avorio incise (NEW YORK [1999], n. 64) e uno sgabello appartenuto a Giulio Savelli (creato
cardinale nel 1615, morto nel 1644) in ebano filettato da intarsi d'avorio (COLLE [1996],
p. 220, n. 309). Per le relazioni fra i prodotti di ebano e avorio napoletani e quelli
della Germania del sud, specialmente Augsburg, e per l'attività di Jacobus Fiamengo vedi
JERVIS-BAARSEN [1985]. (Silvia Danesi Squarzina)
Ritratto del marchese Vincenzo Giustiniani - Claude Mellan
Il disegno fu eseguito da Claude Mellan nel 1631 per la traduzione a stampa destinata alla
Galleria Giustiniana del marchese Vincenzo. Lanno di esecuzione, riportato sulla
lastra dellincisione, viene confermato dai pagamenti rinvenuti da Angela Gallottini
(anno 1631): "Et a dì 15 7bre scudi dodici m.ta anzi scudi dicidotto mandateli con
Tobia Guardarobba per pagare m.r Claudio Melan francese pittore et intagliatore per il
ritratto del S.r Vincenzo da esso intagliato in rame che la consegnato" (GALLOTTINI
[1998a], p. 250, n. 3). Già il Mariette, che ebbe lopportunità di studiare
attentamente il disegno nella collezione di suo padre, ne lodava la straordinaria
qualità, cogliendone non soltanto leccezionale studio psicologico, ma soprattutto
il carattere di immediatezza ("
ce beau dessein a appartenu a mon père, il le
céda au prince Eugéne de Savoye, et il doit se retrouver à Vienne dans la bibliothèque
impériale"). Lo sguardo del marchese appare di una intensità ipnotizzante: la forza
magnetica delle pupille attrae irresistibilmente lattenzione dellosservatore.
Questa capacità di dare vita al personaggio ritratto attraverso il particolare
trattamento degli occhi è tipica di Mellan, che fu ritrattista apprezzato sin dai primi
anni della sua carriera (Bréjon de Lavergnèe in ROMA [1989a], pp. 74-75). Giunto a Roma
nel 1624, il pittore di Abbeville seguì un breve apprendistato presso il Villamena per
poi entrare in contatto con Simon Vouet. Fu questultimo ad indirizzarlo verso il
disegno. Mellan si specializzò presto nella esecuzione di piccoli ritratti dal vero,
inserendosi nellambito di un "genere" artistico praticato a Roma
specialmente dagli Zuccari e da Ottavio Leoni. Della tecnica di questultimo Mellan
sembra riprendere la naturalezza (B. Brejon de Lavergée in ROMA [1989a], p. 75);
tuttavia, egli preferisce utilizzare un tratto preciso, laddove il Leoni si distingue per
luso di una materia ricca e colorata, a macchia, peraltro ben descritta dal Baglione
(BAGLIONE [1642], pp. 321 e ss.). Tra i trentaquattro ritratti eseguiti da Mellan negli
anni romani (solo nove di essi furono poi tradotti a stampa dallartista), spiccano
in particolare quelli di amici e colleghi, come Anna Maria Vaiani, attiva insieme a Claude
allimpresa della Galleria Giustiniana, e la miniatrice Maddalena Corvino. Pur nella
sua oggettiva "ufficialità", dovuta al rango delleffigiato così come
alla sua destinazione di ampia circolazione, il ritratto di Vincenzo Giustiniani
suggerisce lo stesso carattere di presa diretta dal vero che sembra accomunare questi
primi ritratti dellartista. Oltre a questa notissima tavola, Mellan eseguì un
numero assai consistente di incisioni per la Galleria Giustiniana del marchese Vincenzo
(vedi la scheda corrispondente in questo stesso catalogo). I pagamenti rinvenuti in suo
favore a tal proposito vanno dal 1631 al 1636 e riguardano tavole di cui lartista fu
al contempo disegnatore e incisore; nel complesso, egli realizzò ventidue tavole firmate
e due anonime (sarcofago con scena di caccia e leone, vol. II, tav. 136; facciata della
chiesa di S. Vincenzo a Bassano, vol. II, tav. 163), di cui si conservano i pagamenti
(GALLOTTINI [1998a], p. 240). Considerata la rilevanza dellapporto di Mellan al
progetto della Galleria, Luigi Ficacci (ROMA [1989a]) ha ipotizzato che sua sia stata la
responsabilità del coordinamento dellintera impresa; di diverso avviso si sono
espresse Elizabeth Cropper e Sybille Ebert Shifferer (CROPPER [1992a]; EBERT SHIFFERER
[1994]), favorevoli a riconoscere a Joachim von Sandrart il ruolo di supervisore del
progetto. (Irene Baldriga)
Ritratto del principe Andrea Giustiniani Banca - Ignoto incisore
del XVIII secolo
Nel volume di incisioni di traduzione degli affreschi del palazzo Giustiniani di Bassano,
edito a Firenze nel 1754, è contenuto un ritratto del principe Andrea Giustiniani Banca,
discendente per linea femminile dal cardinale Vincenzo (1519-1582) e figlio adottivo del
marchese Vincenzo del quale divenne, nel 1638, unico erede. Figlio di Cassano Banca,
senatore di Messina, e di Caterina de Belli dei conti Chelmi, Andrea, come è attestato da
un libricino miniato in pergamena conservato presso l'Archivio di Stato di Roma (ASR,
Fondo Giustiniani, b. 3, fasc. 26), nel 1625 conseguì il dottorato in Legge Canonica e
Civile a Messina; nel 1640 sposò Maria Pamphilj, nipote del papa Innocenzo X, dalla quale
ebbe sei figli. Nell'incisione la figura del principe appare inserita in un clipeo
sormontato dallo stemma di famiglia, il castello con l'aquila incoronata, sul cui sfondo
è ben visibile la veduta dell'isola di Scio, luogo di origine del casato, la quale appare
mutuata da quella riprodotta nella tavola 168 del secondo volume della Galleria
Giustiniana; si può notare, infatti, la presenza del caratteristico porto circolare con
alcune imbarcazioni ormeggiate e delle due torri imbandierate poste sui due lembi di terra
che si scorgono di fronte a Scio. L'iscrizione che compare sul cartiglio indica Andrea
quale "Bassani Princeps et Arcis Sancti Angeli Praefectus": tale carica gli era
stata conferita il 5 ottobre 1644 da papa Innocenzo X che, nello stesso anno, lo aveva
anche elevato da marchese a principe di Bassano. Le armi e i vestimenti militari che in
qualità di attributi completano il ritratto sembrano far riferimento proprio al ruolo di
castellano di Castel Sant'Angelo che il Giustiniani ricoprì fino al maggio 1655; egli era
infatti incaricato di tenere, in nome del pontefice, il governo militare e amministrativo
della rocca e questo incarico gli fruttava, oltre al prestigio, anche un'entrata annua di
più di seimila scudi (PAGLIUCCHI [1928], pp. 77-81). È possibile, inoltre, che il
ritratto si rifacesse ad uno di quelli presenti nella collezione dei dipinti del palazzo
di Roma o di Bassano, oggi dispersi; nell'inventario del palazzo di S. Luigi dei Francesi
del 1793 è citato, infatti, un ritratto di Andrea "in tondo Bassorilievo sopra il
metallo [...] con cornice di ebano all'antica" e, nell'inventario del 1824, compare
ancora un "ritratto in pastella con fondo di metallo rappresentante Don Andrea
Giustiniani, con cornice di noce e suo cristallo avanti"; un altro ritratto di Andrea
è citato poi nell'inventario del palazzo di Bassano del 1674 nella sala detta del
Guidotti e in quello del 1711 nell'anticamera seguente alla cappella (DANESI SQUARZINA
[2001]). Come si evince dal testamento autografo stilato il 5 maggio 1667, per il quale
vedi DANESI SQUARZINA [2001], Andrea contribuì all'abbellimento del palazzo di S. Luigi
dei Francesi facendo eseguire alcuni lavori nelle sale interne; dopo aver ottenuto da
Innocenzo X di "poter alienare monti camerali" del Fedecommesso "ad effetto
di invertire il prezzo in beni stabili", dal maggio 1652, promosse anche l'acquisto
di alcune case limitrofe al palazzo, affidando la sovrintendenza dei lavori di ampliamento
a Francesco Borromini (Quinterio in Borsi-Quinterio-Maganimi-Cerchiai [1989], pp. 69-74).
Apportò, inoltre, alcuni miglioramenti al giardino di S. Giovanni in Laterano dando
disposizione di far costruire nuove fontane e opere di muratura e facendo condurre con
gran spesa otto once d'acqua tratte dall'acquedotto dell'Acqua Felice, su diretta
concessione di papa Innocenzo X; faceva poi eseguire alcune trasformazioni al Casino
nobile creando una ricca decorazione in stucco e facendo inserire sulla facciata alcuni
bassorilievi antichi (CHERUBINI [1981], p. 473; GUERRINI-CARINCI [1987], pp. 183-184). In
qualità di principe di Bassano Andrea si adoperò per la costruzione del borgo e della
villa che avrebbe dovuto sorgere intorno alla chiesa di S. Vincenzo martire (PORTOGHESI
[1957], pp. 237-238; TUDERTI [1997], p. 53; DANESI SQUARZINA [2000b]), ottemperando ai
dettami del marchese Vincenzo che, nel suo testamento, gli aveva imposto di spendere mille
scudi all'anno per questo scopo. Alla sua morte, nel 1667, tutti i suoi beni, compreso il
fedecommesso, passarono al primogenito Carlo Benedetto, allora diciannovenne, il quale
fino alla maggiore età rimase sotto la tutela della madre Maria Pamphilj, che il marito,
nel testamento, aveva definito donna "di Prudenza e Virtù". (Loredana Lorizzo)
Delle Guerre di Fiandra Libri VI - Pompeo Giustiniani
Il volume si inserisce nella vasta letteratura di argomento bellico fiorita nel Nord
Europa durante il XVI secolo, soprattutto durante la Guerra degli Ottant'anni. Tema della
trattazione è un dettagliato resoconto delle vicende legate al celebre assedio di
Ostenda, al quale l'autore Pompeo Giustiniani prese parte in qualità di condottiero al
servizio di Ambrogio Spinola, luogotenente generale del re di Spagna nelle Fiandre. Il
Giustiniani, membro del ramo genovese della famiglia, era nato in Corsica nel 1569.
Avviato alla carriera militare dal padre Francesco, perito sul campo combattendo contro i
Turchi, Pompeo giunse nelle Fiandre all'età di diciotto anni (1587). Qui partecipò
dapprima all'assedio di Zerberg e quindi a quello di Ostenda, ove perse un braccio. Nel
1613 passò dal servizio degli Spagnoli a quello della Repubblica Veneta. Le Guerre di
Fiandra sono dedicate ad Ambrogio Spinola e contengono numerose illustrazioni relative
agli schemi di assedio adottati durante le operazioni che condussero alla presa di Ostenda
il 20 settembre 1604. Dopo la serie di gravi insuccessi succedutisi durante il comando di
suo fratello Federico, Ambrogio fu incaricato dall'arciduca Alberto di condurre l'assedio
della "nuova Troia", riuscendo a conseguire il proprio obiettivo soltanto a
costo di gravissime perdite. L'importanza della presa di Ostenda fu enorme, sia sotto il
piano della strategia politica degli arciduchi che sotto quello del ristabilimento di un
equilibrio tra forze cattoliche e protestanti nell'ambito della cosiddetta Guerra degli
Ottant'anni. La diffusione di mappe riproducenti gli schemi di battaglia elaborati dallo
Spinola fu notevolissima: alcune di queste furono eseguite da Gabriello Ughi, architetto
fiorentino allievo del Buontalenti e di Giambologna specializzato nella scienza delle
fortificazioni. Un suo plastico della cittadella di Ostenda è conservato a Firenze presso
il Museo di S. Marco (BRUXELLES [1999], pp. 93 e ss.). Le Guerre di Fiandra sono
menzionate nell'inventario della biblioteca di Vincenzo Giustiniani (1638) in ben due
esemplari (in 4° e in 8°), insieme a numerosi altri testi di argomento bellico, tra i
quali posso segnalare i seguenti: "Relatione de i successi tra le Armate di Spagna e
di Savoia in 4°; Delle Guerre di Fiandra di Geronimo Conestragio [f. 892r] Genovese in
4° piccolo; Modo di difendere la Fantaria dalla Cavallaria di Vespasiano Romani in 4°;
Axiomata Bellica Gasparis Facij in 8°; Astutiae militari di Sesto Julio Frontino in 8°;
Petri Baptistae Burgi de Bello Svevo in 4°; De bello Belgico auctore Joanne Balorio
Burgundione in 8°". L'interesse del marchese Vincenzo per l'arte della guerra è
stato più volte sottolineato e la scelta di queste letture sembra confermarlo. A questo
va aggiunto che, durante il viaggio da lui compiuto nel 1606 nel Nord Europa, egli non
mancò l'occasione di incontrare lo Spinola, a cui era legato da precedenti comuni
esperienze, come ci ricorda il Bizoni nel suo diario di viaggio: "[Bruxelles, 2
giugno 1606] Subito fatta collazione, il marchese volle andare a baciar le mani al
marchese Spinola [
] Quando Sua Eccellenza lo vidde, si fece maraviglia di vederlo in
quelle parti. Il Signor Vincenzo gli disse che ritrovandosi in Brusselles di passaggio,
andando per spasso e per curiosità vedendo quei paesi, gli sarebbe parso di commettere
mancamento se non avesse baciate le mani a Sua Eccellenza avanti che partire, e
rinfrescare la memoria della servitù che egli con Sua Eccellenza professava dalla
giovinezza
" (BIZONI [1606, ed. 1995], p. 72). Stando al Bizoni (BIZONI [1606,
ed. 1995], p. 74), in occasione di questo incontro Ambrogio Spinola avrebbe offerto a
Vincenzo il comando di un "tercio"; il marchese rifiutò l'offerta a malincuore
"non senza martello per la inclinazione grande che ne aveva" (cfr. ENGGASS
[1967], p. 18). Infine, non vi sono dubbi che Vincenzo conoscesse personalmente Pompeo
Giustiniani: lo stesso Bizoni riferisce che, per farsi strada nelle zone di guerra
attraversate durante il viaggio, il marchese mostrò come lasciapassare alcun lettere del
condottiero ("
dal detto capitano Luca Cairo ricevemmo molte cortesie per le
lettere che se gli apprestarono del maestro di campo Pompeo Giustiniano", BIZONI
[1606, ed. 1995], p. 71). (Irene Baldriga)
Historia del Glorioso Martirio di Sedici Sacerdoti... - William
Allen
Si tratta di una delle numerose opere apologetiche pubblicate dal cardinale William Allen
(1532-1594) contro le persecuzioni perpetrate dalla regina Elisabetta I per sopprimere il
movimento cattolico inglese. Il volume descrive nel dettaglio i supplizi e le torture
subite da sedici sacerdoti cattolici, offrendo oltretutto, attraverso l'ausilio di sei
incisioni, una precisa rappresentazione delle varie fasi che dall'arresto, al processo, ai
supplizi conducevano fino alla inflizione della pena capitale. Allen fu, insieme al
gesuita Robert Parsons, uno dei più attivi avversari del regime elisabettiano: dopo
essersi rifiutato di rispettare l'Atto di Supremazia, che poneva la sovrana a capo della
Chiesa anglicana, Allen lasciò l'Inghilterra per rifugiarsi a Mechelen, nelle Fiandre
spagnole, e poi a Douai. Qui, nel 1568, fondò un seminario per giovani missionari inglesi
disposti a sacrificarsi per riconquistare le Isole Britanniche al cattolicesimo. Negli
anni successivi, egli perse ogni speranza di conseguire tale risultato attraverso
strumenti di pace ed operò attivamente per sostenere il tentativo di conquista
dell'Inghilterra agognato da Filippo II. La sconfitta della Armada spagnola nel 1588,
tuttavia, rese definitivamente vane tali ambizioni. Dal 1585 Allen si trasferì a Roma ove
sin dal 1576 egli stesso aveva contribuito a fondare il College inglese. Uno specifico
interesse di Vincenzo Giustiniani per le vicende politico-religiose vissute dal Regno
d'Inghilterra tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo sono emerse dallo studio
dell'inventario della sua biblioteca (vedi il saggio di I. Baldriga in questo stesso
catalogo). La presenza di numerosi volumi relativi alle guerre di religione inglesi
testimonia chiaramente la sensibilità del marchese per tali tematiche, mentre il suo
soggiorno londinese nella primavera del 1606, poco tempo dopo la repressione della
congiura delle polveri, sembra suggerire un diretto coinvolgimento nella vicenda. Nel suo
resoconto di viaggio, Bernardo Bizoni (BIZONI [1606, ed. 1995], p. 81) annota che,
giungendo a Londra, Vincenzo ed i suoi compagni non furono risparmiati dall'orribile
spettacolo della esposizione delle teste mozzate delle vittime della repressione della
congiura: "Nell'entrare in Londra si vidde in cima della torre del ponte molte teste
di persone principali che furono giustiziate molte giorni avanti per la congiura che si
scoperse, tra le quali vi era la testa del padre Garnetto, gesuita, con barba
canuta". (Irene Baldriga)
Testamento del marchese Vincenzo Giustiniani
Vincenzo Giustiniani, marchese di Bassano, aveva depositato un testamento il 12 giugno
1621, qualche tempo dopo la morte del fratello cardinale Benedetto, avvenuta il 27 marzo
1621 (vedi DANESI SQUARZINA [1998a], p. 114); successivamente aveva aggiunto a quel
testamento dei codicilli (il 16 dicembre 1621, il 5 giugno 1624, il 22 dicembre 1629). Da
un documento del 22 gennaio 1631 (ASC, Archivio Urbano, sez. I, prot. 342, f. 89r)
apprendiamo che, dieci anni più tardi, quel testamento ed i codicilli furono ritirati e
sostituiti con il testamento definitivo, che qui si presenta nell'edizione a stampa
(Tipografo Lorenzo Grignani, Roma 1640). Dal testo stesso si evince che il marchese aveva
- in un primo testamento a noi non noto - nominato erede universale proprio il fratello
cardinale Benedetto; questo testamento era stato evidentemente sostituito nel 1621, alla
morte del cardinale (GALLOTTINI [1998b], p. 25, ponendo erroneamente la morte di Benedetto
nel 1624, propone una diversa interpretazione degli atti citati). L'originale autografo
del documento del 1631, depositato negli atti del notaio Demofonte Ferrini, si trova in
ASC, Archivio Urbano, sez. I, prot. 343 (fogli non numerati). Altre due copie, anch'esse
autografe, sono conservate in ASR, Fondo Giustiniani, b. 16; copie successive furono
redatte in occasioni diverse, poiché nel testamento stesso si richiedeva che fosse
esibito ad ogni successione (cfr. ASR, Fondo Giustiniani, bb. 2, 4, 10). Proprio per
questo motivo ne fu curata nel 1640 l'edizione a stampa, della quale si conservano
numerose copie (ASR, Giustiniani, bb. 4, 132; una seconda stampa fu effettuata nel 1667,
tipografo Nicolò Angelo Tinassi, cfr. ASR, Giustiniani, b. 27). Vincenzo Giustiniani,
trovandosi all'età di 67 anni senza eredi legittimi, in quanto i tre figli avuti dalla
moglie Eugenia Spinola, Giovanni Girolamo, Girolama e Porzia erano morti in tenera età,
non avendo nipoti Giustiniani, essendo il cardinale Benedetto il suo unico fratello
maschio legittimo, decise di nominare erede universale Andrea Giustiniani, probabilmente
in quanto discendente del cardinale Vincenzo Giustiniani, fratello di sua madre, al quale
la sua famiglia era riconoscente per l'aiuto ricevuto al momento del trasferimento da Scio
a Roma (DANESI SQUARZINA [2001]). In questo testamento il marchese Vincenzo istituì il
fedecommesso secondo il quale i suoi eredi, in linea rigorosamente maschile, non potevano
in alcun modo alienare i beni ereditati alla sua morte. Una menzione speciale il marchese
dedicò alle sue collezioni: "...l'intentione mia è che tutte le statue e tutti li
quadri di pittura et altri come sopra, che al presente sono e saranno nel punto della mia
morte nel mio palazzo nel quale abito et in altro ove io abitassi et che saranno negli
miei giardini e nella mia terra di Bassano et tutti altri che saranno nelle botteghe de
scultori o scalpellini o pittori et in ogni altro luogo, restino per mia memoria
perpetuamente e per ornamento del palazzo e giardini miei come ho detto. E però voglio,
ordino e comando che le dette statue et quadri et altre cose di marmo e di metallo sodetti
dal mio erede universale e da tutti quelli che li succederanno nella mia eredità e
fideicomisso come sopra et come di sotto dichiarerò, non si possano mai vendere, né
alienare in qualsivoglia modo né in tutto né in parte...". Nonostante queste
disposizioni, tuttavia, alcuni pezzi della collezione, soprattutto di scultura, furono
venduti già nel XVIII secolo (CARINCI [1996], p. 53; PICOZZI [1996], pp. 63 e ss.),
mentre una parte della collezione di dipinti fu trasportata a Parigi e venduta ai primi
dell'Ottocento (vedi i saggi di Capitelli e di Vogtherr in questo catalogo; DANESI
SQUARZINA [2001]), quando, per decreto del governo francese a Roma, i fedecommessi furono
aboliti dal 1804 al 1814. Nella prima parte del testamento il marchese stabilì alcuni
legati in favore dei parenti: alla moglie Eugenia Spinola lasciò tutta la biancheria di
casa, un letto con baldacchino e finiture di damasco e quanto le spettava legittimamente
per la restituzione della dote di 22.000 scudi d'oro (ASR, Fondo Giustiniani, b. 5,
fasc.14); in verità proprio a queste disposizioni fece seguito una serie di cause
intentate dall'erede Andrea Giustiniani nei confronti della vedova per la restituzione dei
gioielli e della dote (ASR, Fondo Giustiniani, bb. 5, 14, 26, 28, 30, 31, 41, 58). Alla
nipote Gerolama Bandini, figlia della sorella Caterina, lasciò un vitalizio di
centocinquanta scudi; al nipote Nicolò Monaldeschi, figlio di sua sorella Angelica,
lasciò l'usufrutto delle case al Pozzo delle Cornacchie; al nipote Camillo Massimi,
figlio di sua sorella Virginia, lasciò un legato di cinquantamila scudi, e nonostante il
marchese specificasse che "questo pagamento [...] lo debbano fare prontamente e con
ogni facilità [...] perché il detto signor Camillo Massimi possa liberamente e a suo
piacere disponere tanto in vita, quanto in articolo di morte" tra Andrea Giustiniani
e Camillo II (Carlo) Massimi, erede di Camillo, morto nel 1640, intercorsero cause che si
protrassero per molti anni (ASR, Fondo Giustiniani, b. 2, fasc. 36; b. 4, fasc. 20; b. 5,
fasc. 51; b. 8, fasc. 35; b. 24, fasc.10; b. 26, 28, 29; DANESI SQUARZINA [2001]). Altri
legati erano destinati a Maurizio q. Giovanni ed a Vincenzo Giustiniani q. Antonio, suoi
esecutori testamentari, e ai domestici. Di particolare interesse sono i legati in favore
di istituzioni religiose, in quanto permettono di comprendere a quali ambienti il marchese
fosse più vicino. Al primo posto sono senz'altro la Congregazione o Albergo dei
Giustiniani di Genova, alla quale Vincenzo destinò centomila scudi, da versare a rate di
duemilacinquecento scudi annui, e l'Arciconfraternita della SS. Annunziata presso la
chiesa di S. Maria sopra Minerva di Roma, alla quale furono legati duecentocinquanta scudi
annui in perpetuo. Legati più modesti il marchese destinò ai Padri Zoccolanti, ai
Gesuiti, ai Teatini, ai Carmelitani Scalzi, all'Arciconfraternita del SS. Crocifisso in S.
Marcello, alla Congregazione di S. Girolamo della Carità, all'Ospedale della Madonna
della Consolazione, all'Ospedale e Compagnia di S. Giovanni Battista dei Genovesi, ai
Padri Domenicani della Minerva, alla Compagnia dei SS. Apostoli, alla Parrocchia di S.
Eustachio, all'Ospedale degli Incurabili ed all'Offizio dei poveri di Genova. Attenzione
particolare fu rivolta dal marchese alla sua terra di Bassano, raccomandando al suo erede
di completare la chiesa di S. Vincenzo martire, spendendo mille scudi annui finché fosse
finita, curando poi di mantenervi tre cappellani, dei quali qualcuno fosse in grado di
insegnare non solo la dottrina cristiana, ma anche a scrivere e far di conto, e
preferibilmente anche la grammatica, a chiunque volesse, di Bassano, dei luoghi vicini o
forestiero, gratuitamente. Completata la chiesa, l'erede doveva spendere mille scudi annui
per venti anni nel fabbricare un borgo "con buon disegno e regole
d'architettura" oppure altre fabbriche utili al popolo di Bassano (PORTOGHESI [1957],
pp. 237 e ss.; TUDERTI [1997]). Il marchese istituì inoltre una dote per una giovane
povera e forestiera che volesse stabilirsi a Bassano con il marito pure forestiero.
Interessanti sono anche le raccomandazioni che Vincenzo Giustiniani rivolgeva ai suoi
eredi, affinché il patrimonio fosse mantenuto integro, curando di reinvestire annualmente
una parte delle rendite, spendendo con moderazione e prendendo esempio "dalla persona
del Signor Giuseppe mio padre, il quale nella perdita dello Stato di Scio et altre
avversità si diportò con molta costanza e magnanimità e poi con molta prudenza in tutte
le sue attioni con molta riputatione appresso li principi et a tutti gli altri e che
provino imitare le sue curate attioni con le quali a tutti noi ha lasciato stimolo et
occasioni di provare d'imitarlo e particolarmente nell'esquisita professione che egli fece
di onestà nell'essere e nell'operare, d'inviolabile osservanza nel promettere e nel
contrattare e di purissima verità nel parlare". Inoltre Vincenzo ricordava con
orgoglio che, a sua memoria, nulla di quanto lasciava in eredità era stato acquisito con
modi illeciti e nemmeno accumulato "con avanzi d'entrate e beni ecclesiastici",
dei quali Giuseppe e Vincenzo Giustiniani erano stati per molti anni depositari (DANESI
SQUARZINA [2001]), ma che anzi "la nostra casa è stata solita far comodi alla Sede
Apostolica et ultimamente a 6 d'ottobre dell'anno 1629 prossimo passato e seguito de scudi
cinquanta milia moneta gratis et amore, per far cosa grata a Nostro Signore Papa Urbano
Ottavo il quale me gli ha fatti restituire a 23 di decembre prossimo passato dell'anno
1630, e di piu ho preso mille lochi de monti non vacabili del Sale e Religione, seconda
erettione, richiesto da Sua Santità". Esecutori testamentari vennero nominati:
monsignor Bartolomeo Giustiniani, vescovo di Avellino, il signor Vincenzo Giustiniani q.
Antonio, il padre Orazio Giustiniani, futuro cardinale, il signor Camillo Massimi,
monsignor Nicolò Monaldeschi, il signor Luca Giustiniani di Alessandro, il signor Cassano
Giustiniani q. Andrea, il signor Maurizio Giustiniani q. Giovanni ed i governatori della
famiglia Giustiniani di Genova. (Luisa Capoduro)
Hestia Giustiniani, statua muliebre in peplo - Ignoto scultore di
età adrianea
La statua, attestata presso la collezione Giustiniani sin dai primi anni Trenta del XVII
secolo, costituisce l'unica replica intera - e di grandi dimensioni - di un originale in
bronzo databile agli anni 470-460 a.C., ascritto di norma ad un maestro di scuola
peloponnesiaca. A. Giuliano (GIULIANO [1987], vol. II, pp. 671-672) ha proposto di
riconoscervi la mano di Kalamis, autore della celebre Sosandra, con la quale in effetti
questo esemplare sembra condividere una intensa espressività nel riserbo del volto
ombreggiato da ciocche dense e pesanti sotto il velo, ma anche nella volumetrica
esecuzione del panneggio che avvolge il corpo senza mortificarlo ed esaltandone anzi le
forme vigorose. Altri ha tentato di riferire l'originale ad un artista argivo
(Hageladas?), sia pure influenzato dalle più recenti conquiste della plastica attica;
mentre la Tölle Kastenbein (TÖLLE KASTENBEIN [1986], p. 33 ss., n. 51a) ha proposto
addirittura il nome di un maestro attico del calibro di Alkamenes. Il prototipo, di grande
importanza per l'evoluzione della figura muliebre nella scultura greca, è conosciuto col
nome convenzionale di Hestia, conferito a questa copia sulla base delle interpretazioni
antiquarie sei-settecentesche, forse da riportare all'ambiente erudito in cui aveva
operato anche Cassiano dal Pozzo. È infatti in un disegno (oggi conservato nella
Biblioteca Reale di Windsor, RL 8812; VERMEULE [1966], p. 57, fig. 238) sul fol. 29 del IX
album del suo celebre repertorio noto come Museum Chartaceum, che troviamo la prima
attestazione del tipo in questione, cui fa seguito l'incisione alla tav. XVII del I volume
della Galleria Giustiniana, eseguita fra 1635 e 1636, ancor prima quindi che l'esemplare
fosse registrato negli inventari della collezione, dove compare difatti menzionato per la
prima volta nel 1638 all'interno della galleria come "vergine vestale vestita, di
marmo greco tutta antica alta palmi 9 inc.a", secondo una denominazione ricorrente
anche in successivi regesti. Contemporanea, e sostanzialmente non dissimile da quella
della Galleria Giustiniana (da cui forse verosimilmente deriva), con il braccio sinistro
piegato e la mano volta verso l'alto, restaurata ma con un evidente errore interpretativo
nei riguardi dell'attributo, all'epoca ovviamente mancante, è la riproduzione che ne
diede F. Perrier (PERRIER [1638], tav. LXXII). L'identificazione quale Hestia (peraltro
avvalorata dalla presenza di un tipo molto simile dipinto su una coppa oggi nei Musei di
Berlino attribuita al pittore di Sosias) è suscettibile oggi di una revisione in favore
di Demeter o di Hera (Borbein ipotizzava invece un'eventuale Eirene ante litteram), anche
per la presenza di un lungo scettro sorretto lungo il fianco (e non diagonalmente come
pensava Ch. Picard) dalla sinistra sollevata, secondo quel che inequivocabilmente attesta
la replica dal Ginnasio di Vedio a Efeso (TÖLLE KASTENBEIN [1986], n. 51b, tavv. 39-41).
Lo scettro appare funzionale non soltanto alla statica della figura, ma anche
all'equilibrio interno e strutturale della medesima: ne assesta la leggera torsione verso
destra del busto, giustificandone l'asimmetria dei seni, in accordo col gesto del braccio
flesso dalla mano poggiata col dorso sul fianco, gesto frequente - sia pure ancora solo in
forma sperimentale - in piccoli bronzi di produzione ateniese (soprattutto sostegni di
specchi o figurine di genere decorativo) databili in età severa. L'opera, caratterizzata
da una solida struttura d'insieme, sorretta da una forte linea di contorno e animata da
un'innegabile tensione interna, si articola in due parti ben distinte e quasi
giustapposte: in senso orizzontale quella che va dal capo velato alla ricaduta del kolpos;
più sobria e rigorosa invece l'altra, sottostante alla prima, con la fitta cadenza di
pieghe verticali, appena movimentate nella parte posteriore dal ritrarsi del piede
sinistro, che attesta una evoluzione rispetto alla rigida sintassi formale delle opere di
matrice dorica, come le peplophoroi o l'Auriga di Delfi. Dell'antico originale, la replica
Giustiniani, oggi Torlonia, riproduce fedelmente le superfici ampie e levigate, con poche
pieghe a cannello la cui esecuzione appare molto curata soprattutto nell'interno delle
stondature, mentre nella parte posteriore risulta senz'altro più andante. Particolare il
trattamento dei capelli, soprattutto nella frangia che ricade sulla fronte (da cui la
separa un netto solco di trapano) e le cui ciocche fitte sono rese a solchi paralleli,
analogamente a quanto riscontrabile in calchi in gesso rinvenuti nel complesso monumentale
di Baia, altrimenti noto come Terme della Sosandra. Con essi (e in particolare con la
cosiddetta Aspasia) l'Hestia condivide anche l'esecuzione di molti particolari. Si è
pensato perciò che questo esemplare - sebbene con tutta probabilità trovato lontano
dall'area flegrea - potesse provenire dalla medesima officina di copisti attiva nei pressi
di Baia, che dopo aver adottato calchi di opere in bronzo mai eseguiti in precedenza,
produsse in età adrianea - e per una committenza di rango sicuramente imperiale - tutta
una serie di opere di altissima qualità formale. Esse furono realizzate in quel marmo
pario che caratterizza appunto anche il reperto in questione, e che consentiva di
raggiungere effetti di straordinario nitore nelle superfici o fedeli riproduzioni di
dettagli (quali il contorno degli occhi, la linea incisa delle labbra, l'orlo profilato
delle unghie già sopra ricordato, ecc.), mettendole in grado di competere con i prototipi
metallici di avanzata età severa, appositamente prescelti in quanto sintomatici e
rappresentativi al massimo grado di un patrimonio formale, ma in realtà ideologico e
religioso, sentito dai greci come comune e fondante della propria nazione e civiltà, e
non a caso riproposto intenzionalmente da Adriano dopo il suo viaggio ad Atene attorno al
130-131 d.C. Suggestiva infine l'ipotesi, avanzata da C. Gasparri, di una correlazione tra
l'Hestia e la peplophoros della collezione Ludovisi (Palma in GIULIANO [1983], vol. I, 5,
p. 185, n. 78, con altra bibliografia), che fa anch'essa la sua comparsa nei primi anni
Trenta del XVII secolo negli inventari di famiglia, insieme con un pendant costituito
dalla replica oggi a Copenhagen. La peplophoros proveniva con tutta probabilità dall'area
della Villa Ludovisi presso Porta Pinciana, che - com'è noto - sorgeva sopra l'antico
complesso degli Horti Sallustiani, e non si può escludere che in origine anche l'Hestia
potesse aver fatto parte di un'antica "galleria" di figure affini tra loro come
stile e iconografia nell'area pinciana di pertinenza imperiale, e che dopo la scoperta,
magari in prossimità della statua già accolta nella raccolta Ludovisi, venisse ceduta ai
Giustiniani, con i quali la famiglia del "cardinal padrone" intratteneva
amichevoli rapporti. Tale proposta sembra aprire cautamente uno spiraglio sul buio che
tuttora avvolge le origini di questa statua che peraltro nella Roma seicentesca dovette
favorire un forte recupero d'interesse e la successiva riflessione sulla figura muliebre
ammantata nel peplo, così vicina alla concezione dell'antico promossa dalla chiesa e ai
principi formativi della cultura antiquaria diffusa nel corso del XVII secolo. Va detto
tuttavia che già alla fine del Cinquecento una testa analoga a quella della Hestia, oggi
a Berlino in proprietà privata (TÖLLE KASTENBEIN [1986], pp. 34 ss., n. 51e, tav. 45;
SISMONDO RIDGWAY [1988], p. 525), all'epoca a Roma presso la raccolta Garimberti
(BROWN-LORENZONI [1993], p. 205, fig. 67), fu apprezzata per le sue caratteristiche
formali, sebbene rilavorata per adattarla come ritratto di Antinoo, data la forte
struttura del mento e la ricca capigliatura sulla fronte: il disegno del Ciacconius (Roma,
Biblioteca Angelica, ms. 1564, fol. 199v: cfr. GASPARRI-UBALDELLI [1991], pp. 57 ss.) che
di essa rimane, attesta il precoce risvegliarsi di un'attenzione nei confronti di queste
manifestazioni stilistiche di epoca severa da parte di eruditi e collezionisti, che
indubbiamente dovette preparare la via alle ricerche e agli studi sviluppatisi nel secolo
successivo. (Sul tema, vedi anche ROMA [2000a], sub cat. XV, 42, con la menzione di un
altro esemplare di peplophoros noto a Roma nel palazzo-giardino Soderini). La grande
statua di Hestia passò per acquisto dai Giustiniani ai Torlonia nel corso dell'Ottocento;
portata nel palazzo alla Lungara dove fu allestito il celebre museo di scultura descritto
dal Visconti, vi rimase fino a quando nella seconda metà del XX secolo fu trasferita
nella Villa Albani, da dove uscì nei primi anni Novanta per essere collocata nel cortile
del palazzo di famiglia, ex Giraud, su via della Conciliazione. (Lucilla de Lachenal)
I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori
Roma - Musei Capitolini,
Villa Caffarelli (dal 14 ottobre 2020 al 26 giugno 2021)
Dopo anni di oblio,
è finalmente esposta al pubblico fino al 21 giugno 2021 a Roma
a Palazzo Caffarelli (Musei Capitolini) la “collezione Torlonia” di arte classica è la più importante collezione privata di opere antiche. La mostra è il risultato di un’intesa del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo con la Fondazione Torlonia; e nello specifico, per il Ministero, della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio con la Soprintendenza Speciale di Roma. Il progetto scientifico di studio e valorizzazione della collezione è di Salvatore Settis e Carlo Gasparri, curatori della mostra.
La mostra proporrà circa 60 opere tra cui l'Hestia Giustiniani, la Fanciulla Torlonia, l’Atleta di Mirone ed il Diadumeno di Policleto.
L'accordo per la valorizzazione della collezione Torlonia, è stato firmato
tra l'amministratore della Fondazione Torlonia e il Ministero dei Beni Culturali. La Fondazione sosterrà le spese per il restauro dei reperti, mentre il Ministero, tramite la Soprintendenza Speciale Archeologica di Roma, provvederà a realizzare la mostra.
La collezione Torlonia, composta da: busti, ritratti, rilievi, con capolavori come le pitture parietali della tomba François di Vulci, considerate fra gli esempi più alti dell'arte etrusca, testimonianza della storia dei Tarquini e della nascita di Roma, è formata da 620 sculture greche e romane provenienti in parte dalle collezioni private dei Caetani-Ruspoli, dei Carpi, dei Cesarini e di Bartolomeo Cavaceppi ed in gran parte da quella dei Giustiniani (ben 115 sculture, in pratica i migliori pezzi), venduta ai Torlonia nel XIX secolo. Opere acquistate dalle grandi famiglie romane decadute, tutte indebitate con i Torlonia, che spesso saldavano i debiti svendendo le loro collezioni d’arte.
Altri capolavori della collezione invece provengono dagli scavi archeologici nei terreni degli stessi Torlonia, tra cui la Villa dei Quintili e la Villa di Massenzio sull’Appia antica. In particolare venne saccheggiata la "Villa dei Quintili", la più grande villa del suburbio romano, che lo Stato Italiano ha acquistato solo nel 1985. Era conosciuta come "Statuario", per la ricchezza delle opere d'arte, o anche come "Roma Vecchia", perché era talmente grande che le rovine monumentali richiamavano un'antica città.
Fin dal 1948 palazzo Torlonia che conteneva il nucleo principale della collezione, è stato sottoposto a vincolo, ma all’inizio degli anni ottanta il principe Alessandro ottiene l'autorizzazione a restaurare il palazzo e trasformarlo in 93 miniappartamenti, mentre le sculture vengono imballate e trasferite in tre stanzoni del Palazzo in via della Lungara.
Da quel momento è cominciata una vera guerra legale tra lo Stato italiano e il principe
Alessandro, ma senza trovare nessuna soluzione soddisfacente per tutti.
Una collezione che ha rischiato più volte di disperdersi o di essere venduta, che finalmente sarà raccolta e catalogata per il grande pubblico. Una collezione in un certo senso fantasma, in quanto essendo privata , gli eredi Torlonia ne disponevano eventuali visite a loro assoluta discrezione, tanto è che si narra che il grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1947 si travestì da spazzino per poterla ammirare di nascosto.
Pezzo forte della mostra sarà sicuramente la Hestia Giustiniani, appartenuta alla collezione del marchese Vincenzo Giustiniani sin dai primi anni Trenta del XVII secolo, in cui viene descritta nel suo inventario come una "vergine vestale vestita, di marmo greco tutta antica alta palmi 9 inc.a". La statua costituisce l'unica replica intera, di grandi dimensioni, di un originale in bronzo databile agli anni 470-460 a.C., di mano di un maestro di scuola peloponnesiaca. Alcuni critici hanno proposto di riconoscervi la mano di Kalamis, autore della celebre Sosandra, altri ad un artista argivo o addirittura il maestro attico Alkamenes.
La statua è di grande importanza per l'evoluzione della figura muliebre nella scultura greca. Rappresenta una dea a figura intera, con il braccio sinistro piegato e la mano volta verso l'alto ed il volto ombreggiato da ciocche dense e pesanti sotto il velo. Un panneggio avvolge il corpo senza mortificarlo ma ne esalta le forme vigorose. Lo scettro appare funzionale non soltanto alla statica della figura, ma anche all'equilibrio interno e strutturale della medesima: ne assesta la leggera torsione verso destra del busto, giustificandone l'asimmetria dei seni, in accordo col gesto del braccio flesso dalla mano poggiata col dorso sul fianco.
La grande statua di Hestia passò dai Giustiniani ai Torlonia nel corso dell'Ottocento; portata nel palazzo alla Lungara dove fu allestito il celebre museo di scultura descritto dal Visconti, vi rimase fino a quando nella seconda metà del XX secolo fu trasferita nella Villa Albani, da dove uscì nei primi anni Novanta per essere collocata nel cortile del palazzo di famiglia, ex Giraud, su via della Conciliazione.
Nella raccolta di antichità Giustiniani
ora confluita nella Collezione Torlonia anche il "Ritratto maschile, detto
Eutidemo di Battriana". Questo ritratto raffigurante un uomo dall’espressione severa, segnato da un fervido realismo, compariva come “servo pileato”, ovvero recante il pileo, berretto comunemente indossato da individui di umile estrazione. Prediligendo una diversa lettura del copricapo, simile alla kausia macedone, considerata con il diadema insegna regale e simbolo di potere a partire da Alessandro Magno, la figura
virile ritratta è stata tradizionalmente identificata con Eutidemo I, dinasta ellenistico che ha regnato sulla Battriana, terra anticamente parte dell’impero di Alessandro Magno.
Altro pezzo della collezione Giustiniani in mostra "il Caprone di Gian Lorenzo Bernini"
Le zampe distese, la testa leggermente inclinata a sinistra, il morbido modellato delle ciocche frutto di un mirabile intervento seicentesco, che i restauri moderni hanno permesso di ricondurre alla prodigiosa mano di Gian Lorenzo Bernini.
Nella Sala 8 la Statua di caprone dalla collezione Giustiniani incanta con il suo sguardo decisamente umano. Accanto a lui, la statuetta di Artemide Efesia (II secolo d.C.), con la testa e le mani moderne in marmo nero o la Statua di Afrodite accovacciata, replica degli inizi del I secolo d.C. da originale della metà del II secolo a.C., con testa moderna attribuita a Pietro Bernini. Forse la scultura di questo possente animale, risalente all’età imperiale, avrebbe dovuto arredare una dimora romana.
Il Marchese Vincenzo Giustiniani l’acquistò per la celeberrima Galleria di Palazzo Giustiniani, edificio frequentato sin da giovane da Bernini, profondo conoscitore della statuaria romana ed ellenistica. Fu lui a dedicarsi con estrema perizia al restauro dei marmi presenti nella raccolta di antichità voluta dal marchese, che sarebbe confluita più tardi nella Collezione Torlonia
La monumentale statua rappresentante Cristo risorto con la croce, pubblicata per
la prima volta da DANESI SQUARZINA [1998a], p. 112, fig. 54, è stata identificata da
BALDRIGA [2000a] come la prima versione del Cristo commissionato nel 1514 a Michelangelo
da Metello Vari per la chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva a Roma. A causa di una
vena nera rivelatasi sul volto del Cristo durante la lavorazione ("... reuscendo nel
viso un pelo nero hover linea
", GOTTI [1875], vol. I, p. 143), lo scultore fu
costretto ad abbandonare il marmo per poi donarlo, qualche tempo dopo, allo stesso Vari
che lo collocò nel giardino della propria residenza romana dichiarando di conservarla
"come suo grandissimo onore, come fosse d'oro". È qui che, alla metà del
Cinquecento, ne testimonia ancora la presenza l'erudito Ulisse Aldrovandi che la descrive
con queste parole: "In una corticella overo orticello, vedesi un Christo ignudo con
la Croce al lato destro no[n] fornito per rispetto d'una vena che si scoperse nel marmo
della faccia, opera di Michel Angelo, & lo donò à M. Metello, & l'altro simile
à questo, che hora è nella Minerva lo fece far à suo spese M. Metello al detto Michel
Angelo" (ALDROVANDI [1562, ed. 1975], p. 247). Dell'opera si perde ogni traccia
documentaria fino al 1607, quando alcune lettere inviate da Roma da Francesco Buonarroti a
Michelangelo il Giovane ne segnalano la presenza sul mercato dell'arte ("... il
Signor Passignano [...] vuole ch'io vadia a vedere una borza di marmo di mano di
Michelangelo del Cristo della Minerva dello stesso, ma in diversa positura, et a lui gli
piace, e crede che il prezzo sarà poco più che la valuta dello stesso marmo, la figura
come sapete è grande al naturale..."; vedi SEBREGONDI FIORENTINI [1986]). L'opera
viene descritta come "una borza di marmo" e paragonata, per il suo stato di
incompiutezza, ai Prigioni ed al S. Matteo di Firenze. Di fronte al prezzo elevato
richiesto dall'ignoto venditore (300 scudi), Francesco Buonarroti rinuncia all'acquisto
dopo essersi consigliato con Ludovico Cigoli e con il Passignano. Le lettere del 1607
assumono nel contesto della presente attribuzione un'importanza essenziale poiché, oltre
ad informarci della possibilità di acquistare il marmo michelangiolesco in questi anni,
aggiungono due notizie cruciali per la sua identificazione: il fatto che la prima versione
presentasse una "diversa positura" rispetto al Cristo oggi visibile nella Chiesa
della Minerva, ed il fatto, peraltro già implicito nella descrizione dell'Aldrovandi, che
Michelangelo aveva abbandonato il blocco ad uno stato di lavorazione piuttosto avanzato o
comunque tale per cui la figura della statua era già ben delineata. A tutto ciò va
aggiunto il fatto che negli stessi anni in cui l'opera risulta in vendita i Giustiniani
andavano costituendo la loro collezione di statue antiche e moderne e che per il tramite
del Passignano, molto legato alla famiglia, avrebbero potuto acquistarla con facilità.
Volendo inoltre considerare l'ipotesi che al momento della vendita la statua sia rimasta
nel giardino del Vari, ovvero a pochi passi dalla chiesa della Minerva, vi sono altri
elementi a conferma dell'ipotesi qui esposta (su questo vedi, soprattutto, DANESI
SQUARZINA [2000b]). Innanzitutto, vi è un dato puramente topografico: palazzo Giustiniani
si trova proprio nei pressi del convento domenicano della Minerva e il trasporto della
statua sarebbe stato piuttosto agevole. Ma ben più rilevante è il fatto che nei
confronti della Minerva la famiglia Giustiniani aveva un rapporto molto stretto, che
risaliva già al cardinale Vincenzo, zio di Benedetto e del marchese Vincenzo, e che si
era poi protratto con lo stesso Benedetto. Quest'ultimo oltretutto dispose numerosi
lasciti in favore della Confraternita della SS. Annunziata, tra le cui carte è registrato
il testamento del nostro Metello Vari, già proprietario della "borza"
michelangiolesca (ASR, Rubricellone della SS. Annunziata, 7 aprile 1554, cfr. PARRONCHI
[1975] , che delinea le vicende dell'eredità di Metello Vari). La statua viene citata
nell'inventario della statue di palazzo Giustiniani stilato nel 1638, dopo la morte del
marchese Vincenzo: "(Nella stanza abaso canto alla Porta [grande del palazzo] verso
San Luigi [àll'uscir à man dritta, dove sono de bassi rilievi]), Un Christo in piedi
nudo con panno traverso di metallo moderno, che abbraccia con la dritta un tronco di Croce
con corda e Spongia e trè pezzi di Croce in terra alto palmi 9. in circa". L'ipotesi
più probabile è che, dopo avere acquistato il marmo non finito, Vincenzo lo abbia fatto
completare da uno scultore di sua fiducia (forse uno dei tanti che lavorarono per lui in
qualità di restauratori) che ne coperse la nudità ormai divenuta "oltraggiosa"
per i canoni del decorum seicentesco. Le menzioni della statua che negli anni successivi
si ritrovano puntualmente negli inventari di palazzo Giustiniani non vanno prese in
considerazione: questi, infatti, riportano pedissequamente quanto elencato nell'inventario
del 1638. Ben più importante, invece, è il fatto che il Cristo venga citato nei
documenti relativi alla chiesa di S. Vincenzo Martire a Bassano Romano sin dal 1644: qui
l'opera fu certamente portata da Andrea, figlio adottivo di Vincenzo, in osservanza alle
disposizioni lasciate dal marchese (DANESI SQUARZINA [2000b]). Come noto, fu lo stesso
Vincenzo, "architetto dilettante", a progettare la costruzione della chiesa che
ancora oggi si impone visivamente sulla valle sottostante: la statua del Cristo di
Michelangelo, originariamente posta sull'altare maggiore del Santuario all'interno di una
gigantesca nicchia riprodotta nella Galleria Giustiniana, poteva dominare così l'intero
paesaggio. Numerosi sono gli interrogativi che questa scoperta può suscitare, soprattutto
rispetto alle implicazioni che essa comporta in termini di storia del collezionismo. Il
fatto che negli inventari Giustiniani la statua non venga mai menzionata come opera di
Michelangelo non deve affatto sorprendere: non soltanto era prassi che tali inventari,
redatti fondamentalmente come documenti fiscali, sottacessero informazioni importanti
relative al valore economico dei beni, ma nel caso specifico della collezione Giustiniani
le statue vengono semplicemente indicate come "moderne" o "antiche"
(unica eccezione a questa regola è il nome di François Du Quesnoy). Che il Cristo della
Minerva avesse per Vincenzo un significato particolare è dimostrato da un breve passo del
Discorso sopra la scultura, nel quale il marchese paragona l'opera di Michelangelo al
cosiddetto "Adone dei Pichini" (ovvero il Meleagro dei Musei Vaticani): in
questo confronto tra antico e moderno è l'Adone ad affermarsi poiché la sua bellezza è
tale che la statua sembra respirare: "
come si vede in alcune statue antiche, e
particolarmente nell'Adone de' Pichini ch'è una statua in piedi, ma con tanta proporzione
in tutte le parti, e di squisito lavoro, e con tanti segni di vivacità indicibili, che a
rispetto dell'altre opere, questa pare che spiri, e pur è di marmo come le altre, e
particolarmente il Cristo di Michelangelo, che tiene la Croce che si vede nella chiesa
della Minerva, ch'è bellissima, e fatta con industria e diligenza, ma pare statua mera,
non avendo la vivacità e lo spirito che ha l'Adone suddetto, dal che si può risolvere,
che questo particolare consista in grazia conceduta dalla natura, senza che l'arte vi
possa arrivare" (BANTI [1981], p. 70). È davvero interessante, allora, constatare
(come Silvia Danesi Squarzina aveva già suggerito nel 1998) che nel Cristo Giustiniani,
forse completato su indicazione di Vincenzo, la statua presenta, differentemente da quella
della Minerva, la bocca aperta. Poiché il volto del Cristo appare come una delle parti
maggiormente rimaneggiate dell'opera, è assai probabile che per la sua finitura il
marchese abbia fornito delle precise indicazioni. Al di là dei dati storici e documentari
sin qui delineati, il Cristo Giustiniani presenta - a un'analisi ravvicinata - numerosi
elementi di conforto per l'attribuzione michelangiolesca. Innanzitutto il lato sinistro
del volto del Cristo è segnato da una lunga venatura nera che dalla guancia scende fin
sotto alla barba. L'evidenza di questo elemento, notato anche da Serenella Rolfi ma da lei
ritenuto una fortuita coincidenza (ROLFI [1998] e [2000]), è a mio parere tale da
costituire di per sé una prova significativa per l'identificazione dell'opera. Tracce di
non finito sono ravvisabili nella parte posteriore della statua, mentre impronte
plausibili di gradina a tre denti si possono distinguere sulla mano sinistra. È inoltre
interessante confrontare la somiglianza della serie di forature riscontrabili nella
fessura che separa la parte bassa della gamba sinistra dal tronco d'albero con quelle
lasciate frequentemente da Michelangelo sul contorno di molte sue sculture, come nello
Schiavo ribelle del Louvre (anche in quest'ultimo una linea di forature si trova nella
fessura posta tra la gamba e l'elemento naturalistico; cfr. HARTT [1969], p. 18). Poiché
rimane sconosciuta l'identità dello scultore chiamato a completare l'opera ed è in ogni
caso molto rischioso cercare di determinare su basi puramente stilistiche il grado di
finitura raggiunto da Michelangelo al momento in cui decise di abbandonare il blocco di
marmo, è bene limitarsi a cercare di riconoscere l'intervento del grande scultore nella
semplice impostazione della statua, nel suo equilibrio e nelle sue proporzioni. Tuttavia,
se, come credo, Michelangelo poté definire il contorno dell'opera e cominciare a
modellare la figura (non altrimenti si spiegherebbero le descrizioni delle fonti, che
parlano chiaramente di un "Cristo nudo con la croce" e dunque di una scultura
già "leggibile" benché incompiuta), è comunque legittimo avanzare alcune
ipotesi di carattere formale. L'articolazione degli arti, evidentemente esemplata sul
modello classico del contrapposto policleteo, impone alla figura una solennità
tipicamente rinascimentale: il solido appoggio la inchioda al terreno e conferisce alla
statua un equilibrio da eroe antico. È questa, peraltro, la concezione che sottende allo
stesso David, ove un analogo contrapposto di braccia e gambe definisce la postura della
statua. Sul piano del confronto stilistico è molto interessante rilevare la forte
analogia riscontrabile tra il particolare della mano sinistra del Cristo Giustiniani,
premuta contro la coscia a trattenere la veste, e quella del Bacco (Firenze, Museo del
Bargello), immersa leggermente in un morbido panno. Come rilevato da Silvia Danesi
Squarzina, il confronto rasenta la quasi sovrapponibilità nel caso di un disegno a
sanguigna oggi conservato al Louvre, inv. 717 (63522), datato da Tolnay agli anni
precedenti il Cristo della Minerva e rappresentante proprio il particolare di una mano
distesa su un tessuto (TOLNAY [1975 ], vol. I, p. 84, tav. 93). A queste considerazioni,
vanno aggiunte le importanti riflessioni di carattere iconologico elaborate da Silvia
Danesi Squarzina (DANESI SQUARZINA [2000b]). L'iconografia del Cristo Giustiniani, con il
braccio sinistro disteso lungo la gamba e il destro piegato a stringere gli strumenti del
martirio, si può ben ricollegare all'immagine del cosiddetto "Uomo dei dolori":
in segno di mortificazione Cristo abbassa gli occhi e volta il capo a distogliere lo
sguardo dalla propria nudità (WEINBERGER [1967], vol. I, p. 209). È di grande interesse
sottolineare il fatto che esiste una tradizione iconografica del Cristo-Uomo dei dolori
chiaramente derivata dal Cristo michelangiolesco alla Minerva, ma caratterizzata da una
"diversa positura". Una incisione tratta da Rosso Fiorentino (CARROLL [1987];
CIARDI [1994], p. 55) rappresenta il Cristo con la Croce e gli strumenti del martirio che
distende però il braccio sinistro verso il basso, lasciando scorrere, con chiaro
significato eucaristico, il sangue che sgorga dal costato verso un calice posto ai suoi
piedi. Allo stesso modo, una scultura di Raffaello da Montelupo (Orvieto, Duomo) ripropone
il Cristo con la Croce e il braccio disteso verso il basso. È dunque possibile che
l'impostazione della prima versione del Cristo della Minerva si sia in qualche modo
diffusa nell'ambito degli allievi di Michelangelo e che si sia poi perpetuata con
l'aggiunta di alcune contaminazioni iconografiche. Il fatto che una "diversa
positura", ora confermata anche dalle lettere del 1607, dovesse in qualche modo
differenziare la prima dalla seconda versione del Cristo della Minerva, era stato già
ipotizzato da autorevoli studiosi come lo Hartt (HARTT [1971], p. 215) ed il Weinberger
(WEINBERGER [1967], vol. I, pp. 202 e ss.). Quest'ultimo, in particolare, riteneva che non
soltanto la prima versione dovesse necessariamente differenziarsi dalla seconda per
l'ovvia ragione che Michelangelo non avrebbe mai realizzato due statue di identica
impostazione, ma che l'elemento che a suo parere doveva distinguerle era necessariamente
la posizione del braccio sinistro. Nel 1514 Michelangelo non avrebbe utilizzato una
soluzione tanto ardita come quella poi adottata nella sua versione definitiva: più
probabilmente, afferma Weinberger, lo scultore avrebbe optato per una scelta più
convenzionale, lasciando cadere il braccio lungo la linea della gamba sinistra. (Irene
Baldriga)
Da Michelangelo a Michelangelo
La sessualità di Cristo censurata
Ricollocazione della statua
del redentore di Michelangelo Buonarroti Bassano Romano novembre 2001 a cura di
Silvia Danesi Squarzina e Don Cleto Tuderti
L’Accademia Nazionale di San Luca ha dedicato (il 20-21 novembre 2014) due
giorni di studi a Michelangelo, in occasione del quattrocentocinquantesimo anniversario della sua morte e a cinquanta anni dalla storica mostra del 1964, un incontro internazionale per celebrare il Maestro,
a cui hanno relazionato alcuni tra i maggiori studiosi buonarrottiani a fare il
punto sull’architettura michelangiolesca e sui suoi rapporti con le altre arti.
Sul Cristo Giustiniani due preziosi interventi:
Intervento di Silvia Danesi Squarzina - Accademia di San Luca sul Cristo Giustiniani
Intervento di Christoph L Frommel - Accademia di San Luca sul Cristo Giustiniani
Michelangelo e l’Antico nel Seicento: il Cristo risorto visto da Annibale Carracci, Gian Lorenzo Bernini e Vincenzo Giustiniani di Stefano Pierguidi (in dal Razionalismo
al Rinascimento per i quaranta anni di studi di Silvia Danesi Squarzina a curi di M. Aurigemma - Campisano Editore)
Michelangelo, Bernini e le due statue del cristo risorto di Christoph L Frommel
Dal 3 settembre 2011 al 9 gennaio 2012
(IL PRIMATO DEI TOSCANI NELLE VITE DEL VASARI )
In occasione del quinto centenario della nascita di Giorgio Vasari (1511 – 2011) la Soprintendenza per i beni Architettonici paesaggistici storici, artistici ed etnoantropologici di Arezzo
ha presentato “Svegliando l’animo di molti a belle imprese – Il primato dei toscani nelle Vite del Vasari” un percorso espositivo realizzato con opere di maestri Toscani per ricostruire la linea di “evoluzione” delle arti tracciata dal Vasari nelle Vite.
La mostra è stata allestita nella Basilica inferiore di San Francesco, sede espositiva prestigiosa, realizzata grazie alla collaborazione di Banca Etruria. Il percorso
ha preso il via da coloro che Giorgio Vasari considerava “precursori” della maniera moderna e prosegue sino al trionfo di quest’ultima con Michelangelo. Il senso del divenire, tipico dell’evoluzionismo vasariano è reso dall’allestimento che darà l’idea delle “tappe” ideali che collegano il punto di partenza “Cimabue” con quello di “arrivo” rappresentato da Michelangelo.
Una mostra didattica e prestigiosa con circa 60 opere dei principali autori toscani quali Giotto, Duccio, Masaccio. «È come se il curatore della mostra fosse lo stesso Giorgio Vasari – dice Paola Refice – Perché in realtà è stato lui a generare il nostro gusto. Le cose che ci piacciono adesso, e soprattutto le cose che sono in primo piano nel mondo dell’arte, sono scelte e studiate con uno spirito ancora influenzato dai giudizi che ha dato il Vasari». La suggestione evocata dalle opere esposte aumenta grazie a un testo registrato e sincronizzato con il percorso museale e fruibile con degli iPod.
Sarà come ascoltare la voce dello stesso Vasari che suggerisce e commenta attribuzioni che, in parte, non sono condivise dagli attuali orientamenti critici. Alla definizione del progetto hanno collaborato con Paola Refice i colleghi della Direzione Regionale della Toscana e delle Soprintendenze di Firenze, Siena, Urbino, Perugia. Il comitato scientifico, presieduto da Antonio Paolucci è composto da Cristina Acidini, Gabriele Borghini, Maria Brucato, Lia Brunori, Agostino Bureca, Alessandro Cecchi, Aldo Cicinelli , Vittoria Garibaldi, Anna Maria Guiducci, Michele Loffredo, Mario Scalini, Maria Rosaria Valazzi.
DAL 27 MAGGIO AL 14 SETTEMBRE 2014 AI MUSEI CAPITOLINI
Michelangelo ritrovato torna a casa
Tra le opere anche il Cristo Portacroce di Bassano Romano. Disegni, dipinti e
manoscritti in mostra (1564-2014 MICHELANGELO
Incontrare un artista universale )
In occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti, avvenuta a Roma il 18 febbraio
1564, un’esposizione che ripercorre la vita e l'opera di questo titano di tutti i tempi. Scultura, pittura,
architettura e poesia, le quattro arti in cui si espresse il genio di Michelangelo, saranno raccontate in nove
sezioni espositive, focalizzando così i temi cruciali della sua poetica. La Madonna della Scala, la Leda, il
Crocifisso del Bargello, il Bruto e il Cristo Risorto di Bassano Romano, sono solo alcuni dei capolavori
michelangioleschi ospitati ai Musei Capitolini
Dopo 400 anni il «Cristo Portacroce» di Michelangelo conservato a Bassano Romano tornerà nella Capitale. Per quattro secoli la statua di marmo è stata custodita nel Monastero di San Vincenzo, dove l’ha portata il principe Andrea Giustiniani per collocarla nella chiesa-mausoleo della sua famiglia.
La statua sarà uno dei pezzi forti della mostra che verrà inaugurata martedì 27 maggio ai Musei Capitolini di Roma e resterà aperta fino al 14 settembre. Intitolata «Michelangelo - Incontrare un artista universale», l’esposizione sarà suddivisa in nove sezioni, legate dal tema degli opposti.
Tra le sezioni principali della mostra ci saranno moderno/antico, vita/morte, battaglia/vittoria/prigionia, regola/libertà, amore terreno/amore spirituale. Oltre alla statua del «Cristo Portacroce» di Bassano Romano, ai Musei Capitolini arriveranno opere in prestito dagli Uffizi, dai Musei Vaticani e dall’Albertina di Vienna.
Dalla collezione del British Museum di Londra arriveranno persino disegni del genio toscano. Ogni tema sarà analizzato mettendo a confronto disegni, dipinti, sculture e modelli architettonici, oltre a una selezione di scritti autografi fra lettere e componimenti poetici. Il progetto prevede di fare un faccia a faccia tra una studiatissima scelta di autografi scritti, lettere e rime.
Tra gli altri, ai Capitolini ci saranno la Madonna della Scala, la «Leda» e il modello ligneo di San Lorenzo, provenienti direttamente da Casa Buonarroti. Senza dimenticare il Crocifisso del Museo nazionale del Bargello di Firenze. E ancora la Caduta di Fetonte dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e lo Studio di testa di Sibilla Cumana dalla Biblioteca Reale di Torino.
Non c’è dubbio che gli occhi saranno puntati soprattutto sul Cristo Portacroce, scultura attribuita a Michelangelo Buonarroti una decina d’anni fa dalla docente di Storia dell’Arte Silvia Danesi Squarzina e dalla sua allieva Irene Baldriga.
Le due studiose stavano mettendo a punto il materiale per allestire una mostra a Palazzo Giustiniani, quando scovarono un documento che non lasciava adito a dubbi: l’autore del Cristo Portacroce di Bassano Romano è proprio Michelangelo. Da allora, il valore del marmo cinquecentesco è lievitato a dismisura, passando da un valore assicurativo di due fino agli attuali dieci miliardi.
Il giovane Michelangelo cominciò a lavorare all’opera tra il 1514 e il 1516 su commissione di Metello Vari all’epoca del suo soggiorno romano. Michelangelo la lasciò incompiuta perché sulla guancia del Cristo Portacroce affiorò una venatura nera che ne inficiò la qualità. Fu allora che la consegnò a Metello Vari in cambio di un cavallo.
Ma il vero colpo di scena doveva ancora arrivare. Il colpaccio lo avrebbe fatto il professor Frommel, ricercatore d’arte tedesco. Lo studioso ipotizza che la statua sia stata ritoccata non da un anonimo scultore del ’600 ma da Gian Lorenzo Bernini che modificò leggermente l’espressione del volto e delle labbra. Tutto questo si potrà ammirare da martedì prossimo dalle 9 alle 20. La biglietteria chiuderà un’ora prima e resterà chiusa il lunedì.
(Carlo Antini - Il Tempo 22 maggio 2014)
Se la statua del Cristo Portacroce di Bassano Romano potesse parlare ne avrebbe di storie da raccontare. Entrando nel Monastero di San Vincenzo, oggi la si trova in una cappella riservata ma la sua casa non è stata sempre quella. E non è l’unico cambiamento che il marmo ha dovuto affrontare in cinque secoli di vita.
Solo da una decina d’anni la statua ha finalmente un padre riconosciuto e non è uno qualunque. Dopo secoli nei quali era stata attribuita a un anonimo scultore del XVII secolo, nel 2001, mentre allestivano una mostra a Palazzo Giustiniani, la docente di Storia dell’arte Silvia Danesi Squarzina e la sua allieva Irene Baldriga portarono alla luce un documento che svela il vero papà del Cristo Portacroce di Bassano: il giovane Michelangelo.
Tra il 1514 e il 1516 l’artista toscano soggiornò a Roma, dove Metello Vari gli commissionò la scultura. Michelangelo l’aveva quasi terminata quando scoprì nel marmo della guancia un difetto, una venatura nera che vanificava il lavoro di mesi. Preso dallo sconforto l’artista decise di abbandonare l’opera e la regalò a Metello che, in cambio, gli donò un cavallo. Da allora il Cristo Portacroce restò a Roma, incompiuto, nel palazzo di Metello Vari. Proprio a due passi dalla Chiesa sopra Minerva dove, vent’anni più tardi, lo stesso Michelangelo avrebbe scolpito una seconda versione del Cristo Portacroce, visibile ancora oggi.
La statua, però, era solo all’inizio della sua avventura. All’inizio del ’600 venne venduta sul mercato antiquario e attirò l’attenzione del Marchese Vincenzo Giustiniani, mecenate e intenditore d’arte, che la volle per arricchire la sua già cospicua galleria di statue antiche.
Il Marchese se l’assicurò alla modica cifra di trecento scudi, praticamente poco più del costo del marmo grezzo. Ma quelli erano gli anni della Controriforma e così un Cristo nudo era ritenuto osceno a tal punto che il Marchese decise di farla coprire con un perizoma e ultimare nelle parti mancanti. Giustiniani fece apportare qualche modifica alla parte frontale del corpo e alle labbra che, secondo il suo gusto, dovevano essere semichiuse e non serrate come le aveva precedentemente scolpite Michelangelo.
Ed è a questo punto che entra in gioco il secondo colpo di scena nella storia del Cristo Portacroce di Bassano. Per secoli, infatti, si è ritenuto che l’opera fosse stata completata da un anonimo scultore del Seicento. Fino ai giorni nostri. Fino a quando il ricercatore d’arte tedesco, professor Frommel, ipotizzò che il Marchese Giustiniani avesse affidato la rifinitura della bozza michelangiolesca a Gian Lorenzo Bernini, allora stella nascente della scultura. Per la prima volta nella storia dell’arte, dunque, la stessa opera porterebbe la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini. «Non ci sono documenti ufficiali - precisa il professor Frommel - ma c’è l’evidenza stilistica. La superficie della statua non può essere di Michelangelo e ci sono tante somiglianze tra quest’questa e quelle giovanili del Bernini. Tutta la storia resta, comunque, avvolta da un alone di mistero».
Nel 1644, dopo il completamento dell’opera, il principe Andrea Giustiniani, successore del Marchese Vincenzo, trasferì il Cristo Portacroce nella chiesa-mausoleo di famiglia, a Bassano Romano, dov’è visibile ancora oggi.
«La scoperta della mano di Michelangelo – spiega don Cleto Tuderti, priore del Monastero di San Vincenzo a Bassano Romano - è stata accolta da tutti con grande soddisfazione. Non capita tutti i giorni di avere un’opera d’arte così importante in un Paese quasi sconosciuto al resto d’Italia come il nostro. L’altro effetto immediato è stato sul valore assicurativo della statua. Prima era di due miliardi, subito dopo la scoperta è schizzato a dieci».
L’altro effetto immediato è che la Soprintendenza ai Beni culturali ha deciso di proteggere la statua del Cristo Portacroce di Michelangelo con eccezionali misure di sicurezza e una cancellata artistica.
«Con la speranza – conclude don Cleto Tuderti – che quest’anno il Comune di Bassano voglia celebrare i 500 anni della statua come si conviene a un’opera d'arte di questa importanza».
Staremo a vedere. La storia continua. (Carlo Antini - Il Tempo 20 febbraio 2014)
Celebrazione del V centenario del Cristo portacroce di Michelangelo (1514-2014) - Giornata di Studi Bassano Romano 27-28 settembre 2014
L’evento, organizzato dal Comune di Bassano Romano e dal Monastero dei Padri Benedettini Silvestrini di San Vincenzo M. di Bassano Romano con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo, vuole rappresentare un momento di alto valore culturale. L’evento non avrà solo uno scopo celebrativo,ma anche quello di ridare la giusta collocazione nel panorama culturale italiano a un’opera di così alto valore artistico, rimasta per secoli sconosciuta al pubblico e agli stessi studiosi . Un’opera di tale valenza, oggi esposta e resa visibile a tutti, merita di essere meglio pubblicizzata attraverso tutti i canali informativi che interagiscono con i flussi turistici. Il Turismo culturale quale elemento trainante dell’economia di Bassano e di tutta la Tuscia è uno dei temi che verranno trattati nella seconda parte delle celebrazioni: esperti del settore studieranno il modo di implementare il sistema turistico della Tuscia, fornendo dei suggerimenti sulla creazione di circuiti per il collegamento e la valorizzazione di siti e monumenti di alto interesse storico-culturale presenti nella zona. I rappresentanti delle Istituzioni sia provinciali che regionali sono invitati, insieme ai sindaci dei comuni interessati, a dar vita ad una tavola rotonda per confrontarsi su questo tema di grande interesse.
Exposición Miguel Angel Buonarroti - Un artista entre dos mundos
(26 giugno - 27 settembre, 2015)
Il Cristo Portacroce di Michelangelo vola alla national Gallery di Londra -
"Michelangelo & Sebastiano: The Credit Suisse Exhibition"
(15 Marzo – 25 Giugno 2017)
A 500-year-old marble statue of Christ will form the centrepiece of a blockbuster exhibition on Michelangelo at the National Gallery after curators negotiated a deal to bring it to London from its permanent home in a monastery in Italy.
The statue of the Risen Christ, weighing almost a ton, is one of almost 30 works which will go on show at the National Gallery next year in its first major exhibition on perhaps the greatest of all Renaissance artists in more than 20 years.
The Michelangelo exhibition, two years in the making, could set new visitor records. The show, which opens in March 2017 and runs until the end of June, will focus on Michelangelo’s friendship and collaboration with the artist Sebastiano del Piombo and their acrimonious falling out.
Il “Cristo Portacroce” di Michelangelo, conservato nella Chiesa del Monastero San Vincenzo Martire di Bassano Romano, insieme alla “Pietà” di Sebastiano del Piombo, conservata nel Museo Civico di Viterbo, sono i tesori della Tuscia protagonisti dal 15 marzo al 25 giugno
2017 della mostra “Michelangelo e Sebastiano” alla National Gallery di Londra.
“Non è la prima volta che la statua del Cristo Portacroce di Bassano Romano varca i nostri confini – dichiara l’Assessore al Turismo e alla Promozione del Territorio di Bassano Romano, Yuri Gori – e questa nuova partenza conferma il grande valore dell’opera. Ricordo la presenza della statua di Michelangelo in Messico, a Berlino e a Roma. L’ultima esposizione è stata proprio a Roma, ai Musei Capitolini, in occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti con la mostra ‘Michelangelo. Incontrare un artista universale’, dove la nostra Statua, anche per la sua particolare storia, ha riscosso un grande successo di critica. E dopo Londra, dovrebbe partire alla volta del Giappone per un’altra mostra di carattere internazionale. Conosciamo il suo valore – continua l’Assessore Gori – ed il fatto che viene richiesta da tutto il mondo ci rende assolutamente fieri. Dall’altra parte, proprio il Cristo Portacroce può e deve essere uno dei nostri punti di forza per attrarre turisti a Bassano Romano e su questo stiamo lavorando.
La statua, infatti, ci consente di promuovere il nostro paese per un turismo di qualità e culturale. E anche la presenza dell’opera di Michelangelo in diversi paesi consente una promozione proprio di Bassano Romano. Abbiamo avviato un percorso di promozione territoriale che sta raccogliendo i primi risultati, con la consapevolezza che sarà lungo ma sul quale stiamo puntando in maniera strategica”.
“Siamo convinti – commenta ancora Yuri Gori – che la cultura ed il nostro patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico costituisce una delle risorse fondamentali per uno sviluppo sostenibile del turismo e del nostro territorio. Accanto alla statua del Cristo Portacroce, infatti, possiamo contare sulla Villa Giustiniani, che contiene pregevoli affreschi del Seicento ed un parco di circa 24 ettari, sulla faggeta e su altri beni che possono offrire un itinerario turistico di assoluto interesse e di qualità. E’ un patrimonio che rappresenta, inoltre, una importantissima testimonianza della nostra storia”.
Nude Christ by Michelangelo, Long Forgotten, Will Be Shown in London
(By Elisabetta Povoledo)
It might seem odd that a nearly seven-foot-tall statue of Christ by Michelangelo — and a nude one at that — would go unnoticed for centuries.
But that’s what happened to “Risen Christ,” a monumental figure that was transferred to a country church about 35 miles from Rome in the 17th century and that fell into oblivion until 1997, when scholars attributed it to the Renaissance master.
“It was thought to be an imitation” of a Michelangelo, and “not a faithful one at that,” said the Rev. Cleto Tuderti, prior of the San Vincenzo Monastery on the outskirts of Bassano Romano, near Viterbo, where the statue was taken in 1644. “Certainly, no one thought it was by Michelangelo.”
Father Tuderti says he is convinced that the unknown provenance of the work ensured its salvation through the ages.
When Napoleon’s troops invaded Italy at the end of the 18th century, they sacked Bassano Romano but did not touch the statue, he said. During World War II, the Germans “set up a command post in Bassano,” but they did not loot the statue, he continued. And when the Odescalchi family donated the badly dilapidated monastery to Father Tuderti’s predecessor in 1941, they removed other artifacts, but not the statue, he said cheerfully.
“Fortunately, no one knew it was an original,” said Father Tuderti, who belongs to the Sylvestrine Benedictine order. “That’s what saved it, and preserved it here, in situ.”
Since the statue was identified as a Michelangelo, however, the monastery has gladly shown off its treasure, allowing the statue to travel to exhibitions around the world, including in Rome, Berlin and Mexico City.
Soon, it will be one of the showpieces of an exhibition on Michelangelo and the painter Sebastiano del Piombo that is set to open at the National Gallery in London on March 15 and to run through June 25.
“Risen Christ” was commissioned in 1514 by Metello Vari, the nephew of a wealthy Roman patrician, Marta Porcari, whose will required her heirs to build a chapel in her memory in the church of Santa Maria Sopra Minerva in Rome. Documents show that Vari asked Michelangelo to sculpt a life-size figure of a standing, nude Christ holding a cross.
But Michelangelo abandoned work on the statue after finding a deep, black vein cutting through the left cheek. He returned to Florence and fretted over the aborted commission. “I’m dying of anguish,” he wrote to Leonardo Sellaio, a bank agent, in December 1518.
Soon after, the artist began a second version of “Risen Christ,” which he completed in 1521. That work is still in the church of Santa Maria Sopra Minerva.
But Michelangelo also gave Vari the first, incomplete statue, which fell into obscurity after Vari’s death in 1554. It was acquired in Rome roughly 50 years later by the Giustiniani family, wealthy collectors — and famously patrons of Caravaggio — who presumably did not know the statue’s genesis.
Another artist was commissioned to finish the statue, and in 1644, the Christ was transferred to the recently built church of San Vincenzo Martire in Bassano Romano, where it remained on the main altar until 1979.
The prior at the time, the Rev. Ildebrando Gregori, chose to dedicate the main altar to devotion of the Holy Face of Jesus, and he moved the “Risen Christ” to the sacristy.
The “Risen Christ” was known only from writings describing Michelangelo's work on a statue of that description until Dr. Irene Baldriga and Prof. Silvia Danesi Squarzina of La Sapienza University in Rome, who were working on the Giustiniani archives, tracked down the statue in 1997.
After other documents emerged and the attribution to Michelangelo was confirmed, there was some discussion about where the statue should go and in what guise. Michelangelo had sculpted a nude Christ because, in 1514, “reverence for classical antiquity and the timeless beauty of the human body” still held sway, Professor Squarzina said. Later, in keeping with the mores of the Counter-Reformation, a bronze cloth was added to cover the Christ’s groin.
“The monks didn’t want a nude statue on the main altar, but we wanted to display it as Michelangelo had created it, so we arrived at a compromise,” said Professor Squarzina, who had the backing of the state’s art authorities. The bronze cloth was removed, and the statue was placed in a side chapel where it is protected by alarms and a heavy metal grate.
Both versions of the statue will be exhibited at the National Gallery (the Minerva one in a plaster cast), so that they can be studied side-by-side for the first time.
“The evolution between the two versions is fascinating and ties into Michelangelo’s relationship with Sebastiano,” the focus of the exhibition, said Matthias Wivel, the National Gallery’s curator of 16th-century Italian paintings. The statues “help us tell this story,” he said.
Sebastiano, moreover, was involved in the haphazard installation of the second version of the statue in the Minerva, which he described in panicky letters to Michelangelo. Those letters will also be included in the London show.
Father Tuderti says he hopes that the statue’s notoriety will bring more visitors to the monastery, which runs a bed-and-breakfast. Few locals come to the site, he said, perhaps not knowing that there was a Michelangelo to behold.
“Viterbo is closed mentally, like their Etruscan forbears, they’re more appreciative of what’s on the table” and in their farms, Father Tuderti said. “I hope they don’t hear me,” he joked.
After London, the statue is set to travel to Japan for other exhibitions, he said.
Some art experts fear that the statue — which weighs around a ton and has to be transported using military planes — has been traveling more than it should, putting it at risk of damage or loss.
But Father Tuderti says that the attribution to Michelangelo has been a godsend, and that the money the monastery makes from lending it for exhibitions has paid off large tax debts and is helping to finance the construction of a monastery in the Republic of Congo.
“The statue was identified at the right time,” he said. “We were in financial difficulty, and this statue now brings us a little help every once in a while.”
Il Cristo Portacroce di Michelangelo a Tokyo (Mitsubishi Ichigokan Museum) -
Leonardo e Michelangelo
(17 Giugno 2017 – 24 settembre 2017)
Grandissimo successo di
pubblico per la mostra "Leonardo e Michelangelo" a Tokyo, dove per la prima volta in Giappone viene esposta una statua di Michelangelo di grandi dimensioni.
La statua è posta praticamente a terra ad altezza d'uomo. L'allestimento
permette di ammirarne la grandezza (il Cristo è alto circa due metri) ed avere
una visione a 360 gradi della statua (inserita in una nicchia nella sua sede a
Bassano Romano e quindi apprezzabile solo di fronte).
In questo link in Giapponese (testo
in Italiano con google-traduttore) le varie fasi dell'allestimento della statua per la mostra,
oltre un attenta analisi storica e soprattutto "anatomica" della statua: korokoroblog.hatenablog.com/entry/レオナルド×ミケランジェロ展-ミケランジェロ―十
Questo è un breve sunto:
レオナルド×ミケランジェロ展:ミケランジェロの「十字架を持つキリスト」を見逃すな!
ということで、 ミケランジェロに見放され、名もない(?)彫刻家が手を加えてくれたようですが、その後、売却されて行方不明に。 ところが2000年! ローマ郊外のバッサーノ・ロマーノのサン・ヴィンチェンツォ修道院 修道院で納められていたキリスト像が、 ミケランジェロによるものだった! とわかりました。 ミケランジェロによるものだと判定した経緯をもう少し知りたいと思いました。
宗教改革 、第二次大戦などの戦禍を乗り越えて400年の眠りが解けて現れたという数奇な運命たどったミケランジェロの「十字架を持つキリスト」そんな彫刻が今度は日本にやってくるという奇跡を起こしました。 このキリスト像は、災いを乗り越える力を与えてくれるかもしれません。 また不可能かに思えるようなことも、コツコツと努力を重ねることで、実現に導くことができるという象徴的な展示とも言えます。 現地ではキリストの背を拝むことはできないようです。 360度、ぐるっと回って全周し、巨匠の手から引き継がれ、今の時代に至った彫刻をじっくり観察するチャンスです。
ぶらぶら美術館を見ていたら、残された作品もミケランジェロの手で破棄してしまったものも多いとのことでした。 またレオナルドの馬の像は、戦禍のあおりを受けて、射撃の的になってズタズタにされてしまった話などを聞くと、500年という時を経て、今に至ったことは、軌跡的です。 そして日本にやってきたことも・・・・
レオナルド×ミケランジェロ展7月11日からミケランジェロ彫刻展示のお知らせ - Il Cristo Giustiniani
Michelangelo in tour … una vera …. “rock – star” di Enrico Giustiniani (www.hde.press)
Il Cristo Portacroce di Michelangelo a
Gifu (Gifu City Museum of history) -
Leonardo e Michelangelo: la Scuola del mondo
(5 novembre 2017 – 23 novembre 2017)
L'importanza del Cristo Risorto nella produzione artistica di Michelangelo
- Giornata di Studi Bassano Romano
3 febbraio 2018
E' questo il titolo del convegno organizzato dal Comune di Bassano Romano in collaborazione con il Monastero San Vincenzo Martire e l’Associazione Pro Loco. L’appuntamento è sabato 3 febbraio dalle ore 10,00 alle 12,30 presso la Chiesa Monumentale di San Vincenzo. Ad aprire i lavori don Cleto Tuderti del Monastero San Vincenzo, e Claudio Canonici, professore ordinario di storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore delle Scienze Religiose di Civita Castellana. La relazione, invece, è affidata a Sandro Barbagallo, curatore delle collezioni storiche dei Musei Vaticani e Direttore del Museo del Tesoro Lateranense.
L’evento ha ottenuto anche il patrocinio del Senato della Repubblica, della Regione Lazio e della Provincia di Viterbo.
Un clima di percepibile serenità quello che ha atteso l’apertura dei lavori, avviati dal sindaco Emanuele Maggi: “Si tratta di un convegno di forte spessore in cui la protagonista è l’arte, un’arte che molti possono invidiarci. Cerchiamo di essere consapevoli dell’enorme valore storico-culturale che il nostro paese possiede. Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha destinato 4 milioni di euro per il recupero e per la valorizzazione di Palazzo Giustiniani, una notizia che ci spinge a fare di più. Verranno ampliati gli orari di visita nonché il numero dei visitatori. A febbraio, inoltre, giungerà a Bassano Romano il ministro Dario Franceschini”.
Ho sentito chiamare la scultura in svariati modi – afferma Claudio Canonici – Cristo Portacroce, Cristo Risorto ma preferisco denominarlo Cristo Salvatore.
Le immagini che l’artista ha dipinto sono legate alla sua visione ideologica. Nel 2002 uscì il libro (Einaudi) di Antonio Forcellino intitolato “Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica”. Leggendo accuratamente alcune pagine, emerge immediato il pensiero dell’autore, secondo cui, il Michelangelo, avrebbe fatto ruotare la testa del suo “Mosè” per non guardare l’altare. Se egli può essere considerato un eretico, questo non è dovuto all’adesione a modelli misterici, piuttosto ad una lettura che ha voluto dare sulla storia della salvezza. Michelangelo arriva a Roma in un periodo in cui l’Italia è scossa da un desiderio di riforma della Chiesa. Egli è vicino alla lettura teologica di Reginald Pole, alla nobile Vittoria Colonna, al cappuccino Bernardino Ochino ma la sua non è una conversione.
Con Girolamo Savonarola – prosegue – poniamo al centro due elementi:
la necessità di dover risarcire Dio del peccato che l’uomo che ha commesso; Cristo ha soddisfatto il debito che l’uomo ha contratto con Dio. Esattamente qui, in queste ultime delicate righe, risiede la lettura Michelangiolesca. E’ la visione che ha nutrito l’artista nelle sue opere giovanili, nella realizzazione dell’incantevole Cappella Sistina, nei suoi disegni.”
Le “Rime”, lette al termine dell’intervento, confermano tale pensiero.
E’ il relatore Sandro Barbagallo a tracciare la storia del Cristo, nonché quella della famiglia che ha permesso alla scultura di pulsare nel cuore del paese: i Giustiniani.
“E’ nel 1590 che i Giustiniani, giunti a Bassano Romano, decidono di costruire il Palazzo, esaltazione della storia imperiale romana. I due busti mastodontici sulla facciata non sono altro che una sottolineare la fastosità che la famiglia s’attribuiva. Questa statua “purtroppo’ è stata rilevata solo nel 2001. Le sua tardiva scoperta ha fatto perdere al territorio enormi oppoedfasdfdfidero rivolgermi al Comune e ai cittadini tutti – incalza Barbagallo – “Non siate gelosi dell’opera. Ammiratela e fatela ammirare, permettete alle persone di conoscerla, fotografarla, pubblicizzarla”
“Un amore o meglio un idillio, quello di Michelangelo con il marmo bianco di Carrara, iniziato con la Pietà. Parlando del Cristo qui esposto, egli lo inizia nel 1513 ma, a lavoro avviato, nota quel “pelo” nero sul volto della scultura. Impazzisce, è in preda alla disperazione. La abbandona. Inizia a fare altro e a realizzare, in seguito, una seconda versione del Cristo, a mio fredda e completamente diversa dalla precedente, una creazione svogliata (oggi nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva)”
. Nel 1606 la statua del Cristo finisce sul mercato e viene offerta al nipote di Michelangelo, il fiorentino Francesco Borromini, per 300 scudi. La ritiene una bozza di poco valore, quindi la rifiuta. Saranno i Giustiniani ad acquistarla, portandola a Bassano Romano nel 1644. Nel passaggio viene rifinita ed ultimata.
“A mio parere – confida Barbagallo – l’opera Michelangiolesca qui presente è più importante di quella di Roma. E’ la prima, di conseguenza rappresenta il momento in cui l’artista realizza il suo amore. Dal punto di vista statico, è eccelsa e massiccia. La croce sta in piedi quasi da sola, a differenza dell’altra che ha bisogno di entrambe le braccia per essere sorretta. Il volto non è dolente, non notiamo nessun lineamento ricollegabile alla sofferenza o alla preoccupazione ( vengono mostrati, a paragone, dipinti di Antonello da Messina). C’è eleganza, c’è serenità.”
«La storia dell’arte non è solo storia di opere, ma anche di uomini …». Una straordinaria folla, accorsa al richiamo dell’arte, ha potuto ammirare l’eccelsa mostra fotografica allestita per l’occasione nella Chiesa di San Vincenzo Martire curata da Anna Moroni e Deborah Pozzoli. Una serie di immagini raffiguranti il Cristo, disposte con gusto e delicatezza, accanto al luogo dove la scultura continua a regnare sovrana.
Il Cristo Portacroce di Michelangelo a
ai Musei San Domenico di Forlì - L’eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio
(10 febbraio - 17 giugno 2018)
Tra il Rinascimento e il Barocco. La grande mostra al San Domenico di Forlì
del 2018 mette in scena per la prima volta in maniera compiuta e in un nuovo percorso espositivo il fascino di un secolo compreso tra un superbo
tramonto, l’ultimo Rinascimento, e un nuovo luministico orizzonte, l’età barocca.
Il periodo che intercorre tra il compimento del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina (1541) e la breve affermazione a Roma di Michelangelo Merisi da Caravaggio è per la storia dell’arte uno dei più avvincenti e stimolanti.
La pittura della Maniera aveva messo in campo le ragioni di un’“arte per l’arte”, in cui a prevalere erano il capriccio e la “licenza”, ovvero una sorta di trasgressione che stesse dentro alla regola: un’arte colta, rivolta a una ristretta élite in grado di compiacersi del gioco di sottili rimandi ai grandi modelli di Raffaello e di Michelangelo, sentiti come insuperabili.
A mettere in crisi questo modo di intendere l’arte era stata la polemica dei riformatori protestanti che, contro il lusso della corte pontificia, si richiamavano al rigore della Chiesa delle origini. Ma, ancora prima che il Concilio di Trento teorizzasse il valore didattico delle immagini – “da venerare secondo ciò che rappresentano”, sventando così il rischio iconoclasta – gli artisti avevano autonomamente elaborato una nuova figurazione in cui le esigenze del racconto prevalessero sullo sfoggio di un virtuosismo fine a sé stesso.
Uno dei pezzi forti della esposizione forlivese è stato il Cristo Risorto di Michelangelo in collezione Giustiniani a Bassano Romano
a detta del curatore Benati: «Una scultura questa, rimaneggiata nel '600 che non si vede quasi mai e che è importante perchè
con il Cristo nudo, Michelangelo, che, come già detto precedentemente, sentiva
l'urgenza del rinnovamento della Chiesa e aveva preso posizione in tal senso, in
seguito a questo nudo è stato accusato di fare un'arte contraria ai dettami
cristiani. Esporre questo lavoro in questo contesto espositivo, sarà, pertanto,
carico di significato».
Il Cristo Portacroce (背负十字架的基督 ) di Michelangelo a
Nanchino (Tianjin Art Museum) -
Renaissance Masters: The Art of Leonardo da Vinci, Michelangelo and Raffaello
(18 settembre 2018 - 18 novembre 2018)
Un'altra tappa in estremo oriente per il "Cristo porta Croce" che approva al Nanjing Museum
a Nanchino poco a sud di Pechino, nella mostra dedicata al Rinascimento Italiano
allestita dalla Fondazione culturale italiana Metamofus. La mostra presenta 68
opere dei tre "campioni" del rinascimento Italiano, tra cui "Il libro della
Vergine "il padre e il figlio", "Bella principessa", "Ritratto di giovani donne"
e altre sculture, tra cui il "Cristo porta croce". Inoltre, vi sono un gran
numero di manoscritti di schizzo nelle esposizioni, che mostrano il processo
creativo degli artisti creati da Leonardo, Michelangelo e Raffaello.Il Museo di Nanchino è stato il primo museo a livello nazionale istituito dal governo cinese. Fondato nel 1933, è tuttora uno dei più grandi musei in Cina e nel mondo.
Michelangelo ritrovato”
Pietrasanta(30 agosto 2019)
Si è tenuto il 30 agosto 2019 al MuSA di Pietrasanta il quarto dei sei appuntamenti del ciclo “Sulle orme di Michelangelo: dal passato alla contemporaneità”, volti a celebrare i 500 anni dall’arrivo di Michelangelo in Versilia.
L’incontro dal titolo “Michelangelo ritrovato?” si è sviluppato attraverso il dialogo tra Irene Baldriga, storica dell’arte e presidente dell’Anisa (Associazione nazionale insegnanti di storia dell’arte) e Claudio Capotondi, artista.
Irene Baldriga ha parlato della sua personale scoperta nel 2000 della prima versione del “Cristo della Minerva”, oggi “Cristo Portacroce” parte della Collezione Giustiniani.
La scoperta dell’opera, che Michelangelo lasciò incompiuta, avvenne mentre eseguiva sopralluoghi in preparazione di una mostra a Roma nel 2001 (Toccar con mano una collezione del Seicento a cura di Silvia Danesi Squarzina).
Era il Duemila quando, dopo secoli di oblio, riaffiorava il Cristo Portacroce di Michelangelo, quella prima versione eseguita tra il 1514 e il 1516, e lasciata incompiuta dal Buonarroti per l’emergere improvviso nel marmo lattiginoso della guancia di una vena nera. Scolpita 500 anni fa, è la prima copia del Cristo Portacroce di Santa Maria sopra Minerva a Roma.
Ricorda Irene Baldriga: “Fui fortunata, quel giorno incontrai un monaco che mi fece entrare in sacrestia. Lì notai la statua: era cementata su un altarolo e impolverata. Da vicino notai la vena nera che caratterizza il volto. Immediatamente la ricollegai alle fonti che parlano dell’abbandono da parte di Michelangelo per quel difetto”.
Claudio Capotondi, artista di fama internazionale che oggi vive e lavora a Pietrasanta, ha parlato invece dell’ultima Pietà, cosiddetta Rondanini, scolpita nel 1563 a Via Macel de Corvi pochi mesi prima di morire.
Il convegno ha il supporto scientifico di Promo PA Fondazione e il patrocinio dei comuni di Pietrasanta, Forte dei Marmi, Seravezza, Stazzema.
"Michelangelo divino artista"
Genova - Palazzo Ducale (dal 21 ottobre 2020 al 11 luglio 2021)
E'
durata quasi un anno dal 21 ottobre 2020 all'11 luglio 2021, per le chiusure
legate alle note
vicende COVID19, la mostra "Michelangelo, divino artista" a Genova nelle sale di Palazzo Ducale.
L’esposizione, curata da Cristina Acidini, con Elena Capretti e Alessandro
Cecchi, si è concentrata, con sezioni dedicate, su alcune delle fasi cruciali
della lunga vita del Buonarroti. Un itinerario nel quale le sculture e i disegni
originali del grande artista sono state intervallate dalle opere dei suoi
collaboratori, eseguite sotto la sua supervisione. Scultore, pittore, architetto
e poeta, tra i massimi autori dell’arte mondiale di tutti i tempi, Michelangelo
Buonarroti visse quasi 90 anni. Fin dagli esordi della sua straordinaria
carriera entrò in contatto con personalità di indiscusso rilievo, appartenenti
alla politica, alla religione, alla cultura. Una condizione presa in esame
dall’imminente mostra genovese, con un invito a riflettere su alcuni particolari
episodi. Michelangelo, infatti, ebbe l’opportunità di frequentare in gioventù
due futuri papi ‒ Leone X e Clemente VII, di stirpe medicea ‒; ottenne incarichi
da ben sette pontefici; fu in rapporti diretti con i grandi mecenati del suo
tempo, da Lorenzo il Magnifico ai reali di Francia. Nonostante l’inamovibilità
di gran parte della produzione autografa dell’artista, il progetto espositivo
Michelangelo divino artista risulta interessante per la presenza a Genova di due
importanti sculture. Si tratta del capolavoro giovanile Madonna della Scala,
proveniente da Casa Buonarroti a Firenze, e del monumentale Cristo redentore
(1514-1516) di Bassano Romano. Circa sessanta, inoltre, i disegni autografi
e i fogli del carteggio esposti, che insieme a ulteriori scritti originali
consentono di gettare nuova luce anche sul suo talento letterario. Per la prima
volta in Liguria e tra i primi esempi a livello nazionale la mostra dilaterà i
propri confini verso altre città, sulle tracce di una delle frequentazioni più
importanti di Michelangelo, Giulio II che come Sisto IV, apparteneva alla
famiglia Della Rovere di origine savonese. Questa esposizione è stata quindi il
mezzo per la promozione e la riscoperta di autentici tesori nascosti, monumenti,
palazzi e opere d’arte sparsi sul territorio Ligure; una mostra quindi che non
catalizza esclusivamente verso di sé il patrimonio storico artistico, ma che
diventa motivo di ricerca di quel patrimonio, dando al proprio visitatore un
motivo per spostarsi e conoscere.“
"La vena nera - una storia michelangiolesca"
Romanzo storico di Enrico Giustiniani e Gianni Donati (Sagep Editori, Genova, 2021)
Il diario di un prete corso rivoluzionario, vissuto nel XVII secolo, narra le vicende di un “Cristo Portacroce” iniziato da Michelangelo e poi da lui abbandonato per la presenza di una “vena nera” apparsa nel biancore del marmo a livello del volto. La statua fu poi rifinita nel 1620 da un giovane Gian Lorenzo Bernini per conto del marchese Vincenzo Giustiniani. Nel 1644 fu portata nella Chiesa di San Vincenzo a Bassano Romano e lì rimase dimenticata, ignorata perfino dai nazisti in ritirata nel 1944, fino al 1999 quando fu finalmente
riattribuita a Michelangelo.
Intorno alla Statua ruoterà una storia d’amore tra una giovane ex prostituta di nome Clelia e Gian Lorenzo Bernini.
Nell’estate del 2016, due giovani: Åsa e Davide, con l’aiuto di un anziano abate, riusciranno a riannodare i fili spezzati che legarono una grande scoperta e una storia d’amore incompiuta che avrà un ultimo atto di… “resurrezione”.
Il libro è stato presentato a Genova il 29 giugno 2021 a Palazzo Ducale nella Sala del Minor Consiglio,
in concomitanza della mostra "Michelangelo Divino Artista" dove era presente la
statua del Cristo Giustiniani. Oltre gli autori, è intervenuta Serena Bertolucci direttrice del Palazzo Ducale, la violinista Katarzyna Wanisievicz
e lo scultore
Pablo Damian Cristi. Durante la presentazione sono stati letti alcuni brani del libro da Claudia Pavoletti.
recensione "La vena nera, una storia michelangiolesca" su www.HDE.press
La vena negra, una historia Miguelangelesca
Novela histórica de Enrico Giustiniani y Gianni Donati (Phasar Editori, Firenze, 2024)
Una estatua “magnética” que se quedó intacta tras el paso de los Lansquenetes en el siglo XVI, de las hordas Jacobinas, de las tropas napoleónicas y, sobre todo, de los nazis del general Kesserling…¿Por qué?
El diario de un cura corso revolucionario que vivió en el siglo XVII cuenta la historia de un Cristo Portacruz empezado por Miguel Ángel y por él mismo dejado inacabado por la presencia de una veta negra en el mármol a la altura del rostro. La estatua fue acabada en 1620 por Gian Lorenzo Bernini por cuenta del marqués Vincenzo Giustiniani. En 1644 fue colocada en la Iglesia de San Vincenzo en Bassano Romano y allí se quedó, olvidada y abandonada hasta 1999, cuando fue atribuida a Miguel Ángel. En torno a la estatua se desarrollará una historia de amor entre Clelia, una joven ex prostituta, y Gian Lorenzo Bernini.
En el verano de 2016, dos jóvenes, Asa y Davide, con la ayuda de un anciano abad volverán a juntar todas las piezas de un gran descubrimiento, sacando a la luz también una historia de amor inacabada que florecerá como un acto de resurrección…
The black vein. The Michelangelo mystery
Historical novel by Enrico Giustiniani and Gianni Donati (Phasar Editori, Firenze, 2024)
A "magnetic" statue, which remained intact during the passage of the Landsknechts in the sixteenth century, then of the Jacobin hordes, of Napoleon's troops but, above all, of General Kesserling's Nazis... Why?
The diary of a revolutionary Corsican priest, who lived in the 17th century, tells the story of a Christ Carrying the Cross begun by Michelangelo and then abandoned by him because of the presence of a "black vein" which appeared in the white marble at the level of the face. The statue was later finished in 1620 by a young Gian Lorenzo Bernini on behalf of the Marquis Vincenzo Giustiniani. In 1644 it was taken to the Church of San Vincenzo in Bassano Romano and there it remained forgotten and ignored until 1999 when it was finally attributed to Michelangelo.
Interwoven with the story of the statue will be a tale of love between a young ex-prostitute named Clelia and Gian Lorenzo Bernini.
In the summer of 2016, two young people: Åsa and Davide, with the help of an elderly abbot, will reconnect the broken threads that linked a great discovery and an unfinished love story that will have a final act of resurrection...
Il Cristo Porta Croce di Gravina
La Concattedrale di Santa Maria Assunta è il principale luogo di culto cattolico di Gravina in Puglia, sulla sommità del timpano del portale del lato sud della Basilica Cattedrale di Gravina di Puglia è posto come elemento decorativo il Cristo risorto o Cristo
Portacroce.
L’incisione latina riporta la seguente frase: "Dopo esser morto, ridestandomi dalla tomba, ascesi al cielo e quella che voi chiamate "morte" per me fu la vita".
Fonti storiche più o meno accreditate asseriscono, senza aver mai, purtroppo, fornito elementi certi sulla sua datazione, sulle maestranze che la realizzarono, che quella statua fu collocata dove, ancora, attualmente la si può ammirare, dopo il crollo della torre campanaria avvenuto nel 1558. Cosa abbia di tanto particolare o di tanto fulgido retaggio storico quel manufatto in pietra è presto detto. Replica, modestamente, senza forzature di sorta, senza esagerazione campanilistica e retorica, l'opera che, Metello Vari, nel 1514, commissionò a Michelangelo Buonarroti, per la Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, retta dai figli di San Domenico, dell'Ordine dei Predicatori, e dove sono custodite le spoglie mortali del gravinese Papa Benedetto XIII.
La storia delle “due” statue Michelangiolesche è ormai nota, qui vogliamo evidenziare che nello stesso periodo si inserisce questo Cristo gravinese che si lega ai Giustiniani per la presenza di mons. Vincenzo Giustiniani, vescovo della Diocesi di Gravina dal 1593 al 1614, che fece costruire, tra l'altro, il primo Seminario vescovile, la chiesa della Madonna delle Grazie, con la maestosa facciata, che riproduce il suo stemma episcopale e la chiesa di Santa Cecilia.
L'opera iniziale, inserita nell'alveo di alterne vicende storiche, finisce col ricollegarsi e ricongiungersi a momenti salienti della vita Gravinese religiosa e sacra.
Durante l'annuale celebrazione della festa in onore della Madonna delle Grazie dal 30 agosto all'8 settembre 2021,
è stato presentato dal giornalista Giuseppe Massari, presso il salone parrocchiale,
il libro "Discorso sopra il Cristo Giustiniani di Michelangelo Buonarroti"
di Nicoletta Giustiniani. E' intervenuto il parroco Giovanni Bruno e
l'artista Gravinese Massimo Loglisci autore di un pregevole modello in scala, in
pietra locale, del Santuario della Madonne delle Grazie
Si ripete l'annuale e tradizionale festa in onore della Madonna delle Grazie
Gravina Life del 30 agosto 2021
Il Terzo Cristo Giustiniani il progetto di Pablo Damian Cristi Pablo Damián Cristi intraprende un viaggio internazionale per presentare il Terzo Cristo Giustiniani al mondo, attraverso eventi dal vivo e conferenze.
il progetto scultoreo di Pablo Cristi Damian (nella foto a sinistra) consiste nella realizzazione di una scultura in marmo statuario di Carrara con inserimenti di dettagli significativi in ardesia di Lavagna
raffigurante un Cristo Porta croce sullo stile di quelli Michelangioleschi della Minerva e di Bassano Romano.
Arte: il terzo Cristo Giustiniani di Michelangelo sarà realizzato a Carrara da Pablo Damian Cristi
La Gazzetta di Massa Carrara (31 luglio 2021)
Pablo Cristi erede di Michelangelo: dopo 500 anni finirà l’opera incompiuta del maestro
La Voce Apuana (1 agosto 2021)
Pablo Damian Cristi realizzerà a Carrara il Cristo incompiuto di Michelangelo
Il Tirreno (3 agosto 2021)
Arte: il terzo Cristo Giustiniani nascerà a Carrara
La Gazzetta di Massa Carrara (3 agosto 2021)
"Torano Notte e Giorno" dà la notizia: a Carrara la presentazione del Cristo commissionato da un'antica famiglia genovese
La Gazzetta di Massa Carrara (7 agosto 2021)
Pablo Damien Cristi come Michelangelo «Ho trovato il mio blocco di marmo»
Il Tirreno (13 novembre 2021)
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