Alcune note introduttive sul libro di MEROPE (tratto da: www.atuttascuola.it
)
Destinate a costituire il libro IV delle Laudi, Merope, le dieci canzoni della Gesta
d'oltremare (inizialmente pensate come Nuove odi navali) furono composte da D'Annunzio
durante l'esilio francese per esaltare l'impresa imperialistica della guerra di Libia e
pubblicate, quasi contemporaneamente alla stesura, sul « Corriere della Sera », tra l'8
ottobre 1911 e il 14 gennaio 1912. Sfortunata e complessa la vicenda editoriale di Merope:
la prima edizione del volume, sequestrata in tipografia dalle autorità il 24 gennaio
1912, fu sostituita in un paio di giorni dalla seconda edizione, soppresse alcune terzine
della Canzone dei Dardanelli, ritenute 'ingiuriose' nei confronti dell'imperatore
Francesco Giuseppe. La terza edizione, del 1915, ripropone la versione integrale.
Dalla canzone d'oltremare all'Ultima canzone, i dieci componimenti in terzine - significativamente corredati di un denso apparato di note a carattere documentario (storico e biografico) - intrecciano la rievocazione di antiche e gloriose gesta dì uomini e città marinare d'Italia attinte da molteplici fonti aneddotiche e cronachistiche, dalle cronache comunali dei tardo medioevo italiano ai diari di bordo di memorabili spedizioni o battaglie navali, all'esaltazione delle imprese eroiche della guerra italo-turca. Accolto dal significativo silenzio di una critica tutt'altro che favorevole alla retorica pseudocivile e nazionalistica dei vate, ma piuttosto interessata all'inaugurata stagione dannunziana dell'«esplorazione d'ombra », Merope rappresenta uno degli esempi meno felici dell'esperienza poetica dell'autore, dove la scrittura, seppur ricca di ingredienti storici, letterari e lessicali ricercati, sembra restare quasi integralmente confinata a livello propagandistico.
Alcune note introduttive sulla Canzone dei dardanelli (tratto da: www.atuttascuola.it )
Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli». L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico. Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach. Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena. Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso. Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali. I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore! Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi. Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae». Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai. Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli. Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila. Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345. Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea. Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani. Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo. Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis». I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis. Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle. I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia. Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto». Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare. La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano». Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.». La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
MEROPE Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra e per
le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte
le stirpi, aroma di tutta la terra, Italia, Italia, sacra alla nuova Aurora con l'aratro e
la prora! Canto augurale per la nazione eletta [1901] La canzone d'oltremare I miei lauri
gettai sotto i tuoi piedi, o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora. Tu sorridi alla terra che
tu predi. Italia! Dall'ardor che mi divora sorge un canto più fresco del mattino, mentre
di te l'esilio si colora. Oggi più alta sei che il tuo destino, più bella sei che la tua
veste d'aria; e di lungi il tuo vólto è più divino. Odo nel grido della procellaria
l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro nel vento della landa solitaria. Con tutte le tue
prue navigo a ostro, sognando la colonna di Duilio che rostrata farai d'un novo rostro. E
nel cuore, oh potenza dell'esilio, il nome tuo m'è giovine e selvaggio come nel grido
delle navi d'Ilio. Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio, nella città del Fiore e del
Leone quando ogni fiato era d'amor messaggio, sì novo come questa tua stagione
maravigliosa in cui per te si canta con la bocca rotonda del cannone. Questa è per te la
primavera santa che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena e frutto ha in sé che di
là non si schianta». Oggi nova tu sei per ogni vena sopra l'oblìo dell'onta; e nelle
Sirti ucciderai l'ultima tua sirena. Come vivremo, o bella, per servirti? come morremo, o
fior delle contrade, perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti? Del miglior sangue fa le tue
rugiade e serba la promessa d'Oriente, se il paradiso è all'ombra delle spade. Siamo
cinti d'oblìo. Siamo una gente fresca e spedita, immemore dei giorni squallidi, paziente
e impaziente, immemore dei sonni e degli scorni quand'ella mendicava il suo preconio dal
ciompo, tempestando il pan ne' forni, e la pace era femmina da conio che per ruffian
s'avea qualche Bonturo e un Zanche per mezzano al mercimonio. Giorni senz'alba, il rullo
del tamburo, lo squillo della tromba, e questa sorte che turbina alle soglie del futuro,
vi disperdono. Tuonano sì forte le volontà, che nella rossa aurora non s'ode il crollo
delle cose morte. Ecco il giorno, ecco il giorno della prora e dell'aratro, il giorno
dello sprone e del vomere. O uomini, ecco l'ora. È venuta col rombo del tifone pel Mar
Mediterraneo, più fiera che l'astro su la spalla d'Orione, più colorata che la
messaggera della Celeste. E al grido «Issa! Issa!» già tutta l'aria è sola una
bandiera. Emerge dalle sacre acque di Lissa un capo e dalla bocca esangue scaglia
«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa. E il Mar Mediterraneo, che vaglia le stirpi alla
potenza ed alla gloria, in ogni flutto freme la battaglia. «Ch'io mi discalzi» dice la
Vittoria, simile a grande mietitrice albana, fosca sotto la fronda imperatoria «Ch'io mi
discalzi presso la fiumana di Rumia bella, dove il suo meandro nutre l'olivo a Pallade
romana. Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro in Lebda, nella cuna di colui che
suggellò la tomba d'Alessandro. Ch'io m'abbeveri là dove già fui, non per l'umide
argille alla caverna onde il Lete discende i regni bui, ma per l'aride sabbie alla
cisterna di Roma, che nell'ombra una silente linfa conserva e una memoria eterna. Con me,
con me verso il Deserto ardente, con me verso il Deserto senza sfingi, che aspetta l'orma
il solco e la semente; con me, stirpe ferace che t'accingi nova a riprofondar la traccia
antica in cui te stessa ed il tuo fato attingi, con me là dove chi combatte abbica,
perché nella corona io ti connetta la foglia della quercia con la spica! Se tu mi veda
oggi nell'armi eretta sopra la prua, tu mi vedrai domani da presso curva al suolo che
t'aspetta, quando pacata come i Decumani acerrimi, con nude ambe le braccia, tu rempierai
di semi le tue mani. Troppo vegliai, avverso la minaccia del sonno e della febbre, in
Ostia morta, volta al limo del Tevere la faccia, tra gli stipiti alzati della Porta Marina
dove a vespero s'aduna luce fatale dalle pietre assorta, io sola con l'anelito, se alcuna
ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare nella foce la Nave e la Fortuna. Ah, se tanto
vegliai sul limitare terribile, ch'io dorma un sonno lene e breve, sotto l'Arco
d'oltremare! Ch'io sogni il greco sogno di Cirene, sotto l'Arco del savio Imperatore
sgombro della barbarie e delle arene, schiuso al Trionfo, mentre dalle prore splende la
pace in Tripoli latina, recando i dromedarii un sacro odore. O incenso del Deserto alla
marina, profumo delle incognite contrade fulvo come la giubba leonina; aròmati e metalli,
armenti e biade, e Berenice dalla chioma d'oro! Il paradiso è all'ombra delle spade. La
palma è la sorella dell'alloro.» Dice la grande Vergine che squilla simile a Clio nel
grande aonio coro. E per noi dalla libica Sibilla, sotto il cielo voltato dal Titano, la
sentenza di Dio si disigilla. Preparate l'aratro cristiano, preparate la falce per la
mèsse, il frantoio e la macina al Soldano, l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse, i
gran magli e le macchine forbite simili a moltitudini indefesse; i forni vasti come le
meschite pel ferro dissepolto, le magone ov'aspro strida nell'assidua lite; le fornaci per
cuocere il mattone dei costruttori, in cui porrem l'impronta che piacque a Nerva: Roma col
timone. Ogni tristezza dietro a noi tramonta. Chi latra ancóra nella lorda fossa, quando
il fato con l'anima s'affronta? Italia, alla riscossa, alla riscossa! Ricanta la canzone
d'oltremare come tu sai, con tutta la tua possa, come quando sorgeva sopra il mare in
sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio «Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,
scrosciando la galèa, preso il vantaggio e infisso il cuor del capitano al rostro, con le
vele e coi remi all'arrembaggio. «Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro! Dienai', Dienai' e
'l San Sepolcro!» cantava la galèa sul Mare Nostro. Nel croscio de' tuoi secoli io
t'ascolto. «Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!» Alza nel grido il tuo raggiato
vólto, e in terra e in mare tieni la tua guerra. La canzone del sangue In Cristo Re o
Genova, t'invoco. Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldo vento, gridarti che tu guardi
il fuoco. Non Spinola né Fiesco né Grimaldo trae con la stipa. Il sangue del Signore
bulica nella tazza di smeraldo. S'invermiglia a miracolo d'ardore il tuo bel San Lorenzo,
come quando tornò di Cesarèa l'espugnatore. Tornò Guglielmo Embrìaco recando ai
consoli giurati, in sul cuscino, tra la sesta e il bastone di comando, tra la coltella e
il regolo, il catino ove Giuseppe e Nicodemo accolto aveano il sangue dell'Amor divino.
Era desso, l'Embrìaco, figliuolto, quei che fece al Buglione il battifredo onde il vóto
santissimo fu sciolto. Con le mani che diedero a Goffredo la scala invitta, sopra il popol
misto levò la tazza. E il popol disse: «Credo». E ribolliva il sangue ad ogni acquisto
di Terrasanta; e n'eri tutta rossa, il popolo gridando: «Cristo, Cristo! Cristo ne preste
grazia che si possa andar di bene in meglio». E la Compagna incastellava cocca e galèa
grossa. Così tu veleggiasti alla seccagna di Tripoli, con uno de' tuoi Doria buon
predatore, o Genova grifagna; ché padroni e nocchieri di Portoria e di Prè, stanchi
d'oziare a bordo, tentarono l'impresa per galloria. Ed era un vile tirannello ingordo
quivi, nato d'un fabbro saracino; e l'ebbero per palio in sul bigordo. Ogni roba
condussero a bottino, ogni uom prigione. E pieno di tesoro fu l'ammiraglio quanto il
pilotino. La terra spoglia come piacque a loro poi la vollero vendere a vergogna. per
cinquanta e più milia doble d'oro. Poi cattarono altrove altra bisogna; e stettero tre
mesi in su la guerra per le marine della Catalogna. O Genova, ma non l'istessa terra presa
dalle tue quindici galere è quella ch'oggi il nostro acciaro serra; né di preda in
pecunia ed in avere sottile, se il sangiacco dà la volta come l'altro, sarem noi per
godere; né, quando bene glie l'avrem ritolta, a quetare i tribuni dell'Erario la
venderemo noi un'altra volta. Odimi, pel sepolcro solitario del tuo Lamba colcato in San
Matteo lungi al figlio che s'ebbe altro sudario; pel fonte del tuo picciol Battisteo donde
al mare t'escì la grande schiatta sperta di mille vie come Odiseo, di mille astuzie
aguta, assuefatta ai mali, contra i rischi pronta, a scotta tesa, a voga arrancata, a
spada tratta, ìmproba e col gabbano e con la cotta, usa il giaco fasciar di mal entragno
come di cuoia crude la barbotta, indomita a periglio ed a guadagno, or tutt'ala di remi al
folle volo, or piantata nel sodo col calcagno; odimi, Mercatante, dal tuo molo, Guerriera,
dal naval tuo sepolcreto, Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo, per l'ombra di quel
semplice Assereto che, distolto da rògito o caparra e posto sopra il cassero, l'abeto
trattò meglio che il calamo, la barra di battaglia assai meglio che il sigillo, contra il
fior d'Aragona e di Navarra, vincitore di re su mar tranquillo, con gli infanti coi duchi
e coi gran mastri aggiugnendo al trionfo un codicillo; odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli
astri d'un'altra state, tutti i tuoi rosai aulendo ne' tuoi chini orti salmastri, tal si
partì coi rossi marinai, con l'Amore e la Morte, del fraterno stuolo facendo un spirito,
e giammai volse il bel capo verso il lido eterno, dubitoso di perdere Euridice che dietro
sé traeva dall'Inferno; se t'ebbe inconsapevole nutrice l'esule smorto, tutto fronte e
sguardo, il fuoruscito senza Beatrice, quegli che nel crepuscolo infingardo eresse il suo
dolore come un rogo, il suo pensiero come uno stendardo, e nella carne stracca sotto il
giogo il soffio ansò di quella terza vita ch'or freme ferve splende in ogni luogo, con te
sì presso all'opera fornita è quel dèmone vindice che forma il suo mondo nell'anima
infinita. Ben a tal piaggia, ove non è che l'orma dell'Immortale, o Madre delle Navi,
ieri approdò la nostra prima torma. Non all'antica terra che forzavi con la balestra e
col montone, dura in mettere a bottino, in trarre schiavi; ma alla terra che chiamano
futura i messaggeri, alla terra dei figli, alla terra dell'Aquila futura. Come di tra i
riversi orli vermigli delle pàlpebre gli occhi del piloto s'aguzzavano sotto i
sopraccigli! Ché divinava egli per entro al vòto gorgo dell'aria un che di virginale e
di sublime, quasi monte ignoto, simile al nudo culmine ove sale lo spirito, ov'edifica
imminente lo spirito la grande arce spirtale. E chiuse, per veder profondamente, e chiuse
egli le pàlpebre infiammate su le pupille insonni; e fu veggente. Per ciò, serva del
Ciel, per ciò, primate del Mare santo, la Reliquia vedo ardere ed arrossar le tue navate.
Con le mani che diedero a Goffredo la scala invitta, il rude espugnatore levò la tazza. E
il popol disse: «Credo». O parola novissima d'amore, trascorri in nembo tutto l'Apennino
e fa crosciar le selve al tuo clangore! Ecco il vaso di vita, ecco il catino ove Gesù nel
vespero pasquale ai Dodici versò l'ultimo vino, e lor disse: «Quest'è il mio sangue; il
quale è il sangue del novel patto, ed è sparso per molti». E s'indiava sopra il male.
Quando clamò «Eloi!» dal cor riarso, nell'ora nona, un uom d'Arimatea venne; e in quel
vaso accolse il sangue sparso. Quindi per alta grazia un'assemblea di Puri s'ebbe lo
smeraldo sculto in custodia; e di loro il mondo ardea. Pari l'ebrezza del convito occulto
era ad una immortalità precoce, ed il trapasso era un divino indulto. L'anima era
visibile; la croce era senz'ombra; il pianto era rugiada; il silenzio era un inno senza
voce. L'avversario era in capo d'ogni strada; la battaglia era un serto di faville; la
giustizia era l'occhio della spada. Il futuro era un carme di sibille come di tessitrici
glorianti; e la gloria era d'uno contro mille. O Mistero del Sangue! I duomi santi
crollarono in un vespero, i templari furon sepolti sotto i marmi infranti. E un'orda
venne, che coi limitari divelti, col rottame dei lavacri perfetti, con le mense degli
altari, con le schegge dei grandi simulacri costrusse le sue case. Ed il porcile era
murato di frammenti sacri. Ma i bianchi Astori lungi all'orda vile avean rapito il segno
del reame. Odimi tu, latin sangue gentile! Odimi; ché di te sotto il velame io dico, e
del miracolo repente onde un spirito fai di tanto ossame. Quale improvviso nella notte
ardente di Cesarèa l'Embrìaco la tazza di salute rinvenne alla sua gente e, quella
pósta su la galeazza come il palladio fu su la trireme, ricelebrò la gloria della razza,
tal forse un genio indìgete del seme d'Enea ritorna a noi col divin segno dallo splendore
delle sabbie estreme. Tra le palme invisibili arde il pegno del novo patto. Innanzi ch'Ei
si sveli giura fede al Signor del novo regno, Italia, per gli aperti tuoi vangeli, e per
la grande imagine che invoco, e per la gesta che t'allarga i cieli! «Chi stenderà la
mano sopra il fuoco?» grida il Signore ai primi eroi comparsi «Chi stenderà la mano
sopra il fuoco avrà quel fuoco per incoronarsi.» La canzone del Sacramento INTROIBO AD
ALTARE DEI. Sul cassero era fitto un pavese quadro in otto battagliòle forcute, e v'era
un assero di timone per grado, e paliotto un panno di bastita era, tovaglia era ferzo di
trevo o marabotto; e quivi con un càmice di maglia l'asta di croce in pugno avea
l'accolito. Sì fatto era l'altare di battaglia. E fu silenzio ed isplendore insolito su
tutto il mare, al segno del Primate. E tutte le galèe stavano in giolito, con le pale
fuor d'acqua affrenellate su la bonaccia. E il giorno di San Sisto era per i Pisani, a
mezza state. Tenean quelli di Genova il sinistro corno con navi e saettìe, l'opposto le
genti di Campania unite in Cristo. Rosse le prore come tinte in mosto avea Salerno,
d'indaco Gaeta, d'oro Amalfi alla Vergine d'agosto; ché que' mercanti a battere moneta
intendevano sol per far naviglio e cambiavano in gómene la seta. KYRIE, ELEISOS. Il
bianco ed il vermiglio ondeggiavan con l'Aquila pisana che già temprato in Bona avea
l'artiglio; e la Rosa dei vènti amalfitana, già fatta croce irsuta d'otto punte, si
consecrava presso la campana. CHRISTE ELEISON. Ché s'erano congiunte nel lor Signore le
città tirrene la prima volta a lega; avevan unte di novo spalmo a caldo le carene per la
lega, cresciuto il palamento, rinforzato il cordame e le catene, ai lor Vescovi dato
sacramento di riscattare dal predone immondo le tolte navi, il cristiano armento; e parea
quivi il comun corpo al mondo latino annunziar le sante imprese, prima che si crociasse
Boemondo. KYRIE, ELEISON. Le guardie del calcese trasognando vedean nell'acqua i bianchi
marmi fiorir delle lor dolci chiese. Tutti in corazza i rematori franchi, allacciati i
giglioni coi frenelli, pregavano a ginocchi sopra i banchi; ma i prodieri, di sotto i lor
cappelli di cuoio, con un piede alla pedagna, guatavano la costa pei portelli. AGNUS DEI.
E per tutta la compagna fremito corse; ché, splendor d'Iddio, splendé nella raggiera
l'Ostia magna. E i prossimi gridarono: «Te, Dio, lodiamo, Te, Signore, confessiamo!». Ed
anelavan di ricever Dio nella specie del Pane. «Te lodiamo, Te confessiamo, unico Iddio
vivente. Del corpo di Gesù comunichiamo. Dacci il Pane dei forti!» E incontanente
s'apprese la divina bramosia, corse di poppa in prua, di gente in gente. E il Vescovo
rispose: «Così sia». E per tutto il naviglio fu gran serra al grido: «Eucaristia!
Eucaristia!». Ed era il grido della santa guerra. Poi fu silenzio. Il rugghio d'un leone
udito fu venire dalla terra. E dal cassero come dall'ambone il Vescovo parlò: «Fratelli
in Dio, udite, udite il rugghio del leone!». E sopra la coverta un balenìo passò, dalle
garitte alle rembate; le carte del Vangelo sul leggìo si volsero, le lunghe fiamme issate
garrirono, stridé l'alberatura carica delle vele ammainate; ché si levava il vento di
Gallura per i Pisani. E il console Uguccione dietro il Vescovo apparve in armatura. E il
Vescovo parlò: «Egli è il leone di Ieronimo, o quel che pien di miele fu rinvenuto in
Timna da Sansone, o quel che nella fossa Daniele mansuefece, ond'egli disse al re:
«L'Iddio mio mandò l'Angelo fedele il qual compresse le fauci, talché non m'hanno
guasto». E sì voi confidate, ché molta in cielo è la vostra mercé, e l'Angelo di Dio
dalle rembate vi guarda, e su dal gorgo i vostri morti risalgono perché vi ricordiate,
perché più non isforzi ai vostri porti le catene il feroce rubatore». Gridaron tutti:
«Dacci il Pan dei forti!». E, come fu sedato il gran clamore, tanto crebbe la romba dei
ruggiti per quelle rupi rogge dall'ardore, che parve avesser chiuso i re ziriti quivi
l'intiera possa del Deserto a difendere i culmini turriti. Sorgevano le sette torri in
serto sopra il ciglione, e la muraglia spessa le collegava; e il fosso era coperto dal
barbacane; e sola era lungh'essa la muraglia una porta verso terra, ché la cerchia marina
era inaccessa. Ismisurata macchina di guerra, la nemica città feriva il cielo mentre il
suo cor parea ruggir sotterra. «O Cristiani, in duomo pel Vangelo voi giuraste, toccata
la scrittura, per le Reliquie sante, per il velo di Nostra Donna e per la sua cintura, pei
vostri fuochi e per le vostre fonti, e per la culla e per la sepoltura!» Miravano i
Pisani Ugo Visconti ch'era il lor fiore, e rivedeano corca la dolce Pisa in ripa d'Arno ai
ponti, e dove la fiumana si biforca l'orme di Piero, e alzata in pietre conce la preda di
Palermo e di Maiorca. Misurar si sognavano a bigonce i Genovesi e il console Gandolfo
l'oro ch'avean pesato a once a once. Quei di Salerno il lor lunato golfo, gli archi
normanni, tutta bronzo e argento la porta di Guïsa e di Landolfo aveansi in cuore, e
l'arte e l'ardimento onde tolse lo scettro ad Alberada Sigilgaita dal quadrato mento. Ma
quei d'Amalfi, cui la lunga spada era misura, a patria più lontana andavano; ché già
s'avean contrada e forno e bagno e fondaco e fontana per tutto, e Mauro Còmite dal Greco
mattava il Doge al libro di dogana. «Fratelli in Cristo, dietro il muro bieco a mille a
mille anime battezzate penano; e solo il pianto hanno con seco. Non vi croscia nel cor, se
l'ascoltate? Sono i fanciulli, sono i vecchi, gli avi e i padri, son le donne violate,
schiavi alla mola, schiavi al remo, schiavi al carico, sepolti nelle gune del grano come
in cemeterii cavi, muffi nelle cisterne e nelle mude, riarsi dalla sete e dalla fame,
rotti dalla catena e dalla fune. Bevono pianto, màsticano strame. Vivi non sono più né
sono morti. Sono un cieco dolore in un carname. Se non vincete, ecco le vostre sorti,
fratelli in Cristo.» E il tuono fu sul mare. «Allarme! Allarme! Dacci il Pan dei
forti!» E l'Ostia sfolgorava su l'altare a tutti i marinai come la spera del sole. E Dio
ricamminò sul mare. Ed issò lo stendardo ogni galera; e volse d'Occidente ad Oriente con
le mani velate la raggiera il Vescovo, e dal petto suo potente AGNUS DEI QUI TOLLIS
PECCATA MUNDI clamò tre volte sopra la sua gente. Ed Uguccione e i consoli congiunti in
Cristo e tutta la capitanìa AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI conclamarono. E lungo la
corsia e nelle balestriere e su i castelli risposero gli armati: «Eucaristia!». E i
vogavanti sciolsero i frenelli, al sìbilo dei còmiti; e due vanni il legno fu dai cento
suoi portelli. «La croce a poppa, messer San Giovanni a prua, la Vergin Donna Nostra in
vetta all'albero di mezzo: e Dio li danni!» Gridavano i prostrati «Affretta! Affretta!»
vedendo i lor adusti cappellani frangere a gara l'Ostia benedetta. E alfine s'ebber
l'Ostia nelle mani essi i prostrati; assolti l'ebber tocca i feditori con le dure mani
indurite alla lieva ed alla cocca, e la fransero e diedero ai compagni; e ricevuta fu di
bocca in bocca. E l'un l'altro pregava: «Sì la fragni che basti a me, che basti anco a
fratelmo!». E tremavagli il fondo degli entragni, ché non bastava. Allora nello schelmo
saltò quell'uno, armato; si scoperse il capo, empié d'acqua marina l'elmo; e l'alzò,
come calice l'offerse gridando: «Valga a noi per sacramento, o Vescovo di Cristo!». E
quei converse in ispecie divina l'elemento indomito, col segno, dall'altare gridando:
«Valga a voi per sacramento». E si comunicarono del mare sol con quel segno i fanti:
ginocchioni contra i pavesi, udìan Màdia rugghiare. Poi forzaron le rupi ed i leoni. La
canzone dei trofei O Pisa, or tu sei vedova del mare, che stavi notte e dì per tener
fronte in Tersanaia a fare, a racconciare, quando un bando di Chìnzica o di Ponte valeva
a trarre in corso dai sessanta scali ben unti le galere pronte! Pende dal muro la catena
infranta nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri e i tuoi morti fiorìan la terra santa. La
Porta a Mare è triste. Ma pur ieri nel tuo Vescovo il cor di Daiberto balzò, verso i
trofei de' Cavalieri. O Salerno, nel duomo dove offerto ti fu da Gian di Procita l'avorio
e l'oro sovra i marmi di Ruberto, nell'ombra dove il settimo Gregorio grandeggia, non
fanal di capitana, non stendardo d'emiro pel mortorio, non insegna, non spoglia musulmana
hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi al tuo giovine eroe la coltre vana? Non egli è
su la bara che inghirlandi; ma tu lo vedi, quasi fosse apparso. E lo chiami per nome e
l'addimandi. Verginità del primo sangue sparso! Ne bevano le sabbie un più gran flutto;
ma pur quel primo che sembrò sì scarso risplenderà sul giubilo e sul lutto più
vermiglio e più fervido a Colei che sa pianger gli eroi con viso asciutto. O Gaeta, se in
Sant'Erasmo sei a pregar pe' tuoi morti, riconosci il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei,
toglilo alla custodia perché scrosci come al vento di Lepanto tra i dardi d'Ali, mentre
sul molo tristi e flosci sbarcano i prigionieri che tu guardi e che non puoi mettere al
remo. O Cagliari, i quattrocento archibusieri sardi, che Don Giovanni d'Austria alla
battaglia sotto il Vessillo nella sua Reale s'ebbe per incrollabile muraglia, hanno veduto
verso il mare australe ardere il fuoco sopra Teulada e nella sera accorrono al segnale;
ché vien pel mare d'Africa e dirada l'ombra con la bellezza della morte un che fu degno
della lor masnada. Egli ha per buon compagno, o Carloforte che il ferro e il fuoco sai del
predatore e la sferza e la stanga e le ritorte, un de' tuoi figli che nel suo furore se ne
sovvenne e, per i mille schiavi di quel settembre, ebbe di mille il cuore. Marinai,
marinai, sopra le navi e dentro le trincere, a bordo e a terra, in ogni rischio e con ogni
arme bravi, fatti dalla tempesta per la guerra, nel silenzio mirabili e nel grido,
infaticati sempre, a bordo e a terra, di voi s'irraggi e palpiti ogni lido d'Italia mentre
per la mia più grande Italia qui la vostra gloria incido. Non le piagge che adorna di
ghirlande amare il flutto ove le sue melodi Undulna dea dal piè d'argento scande, ma oggi
loderò con le mie lodi l'acqua oleosa lungo le banchine sonanti per gli imbarchi e per
gli approdi, l'acqua opaca ove colan le sentine e nuotano i tritumi del carbone, le fecce
dei cavalli, le farine delle sacca sventrate, il bariglione rotto, la buccia putrida, la
lorda schiuma che ingialla il piede del pilone, mentre alla gru che cigolando assorda
l'aria imbracato il bove da macello pencola come botte che sciaborda. Canto l'acqua dei
porti. Odo l'appello rude, il commiato, il grido. I reggimenti partono. Ogni uomo armato
è il mio fratello. Veggo gli occhi brillare, veggo i denti rilucere. Odo il lastrico del
molo rombar sotto la marcia. Sono ardenti i vólti come se li ardesse un solo riverbero, o
il sorriso d'una sola madre, di quella grande. Ogni figliuolo oggi ha sol quella, e in
cuore la parola che alfine irruppe dalla bocca forte. Guerra! È il croscio dell'Aquila
che vola. Guerra! Una gente balza dalla morte, s'arma, s'assolve nell'eucaristia del mare,
e salpa verso la sua sorte. Non più si volge indietro. Guerra! Sia per giorni, sia per
mesi, sia per anni ella combatterà nella sua via. Canto la libertà. Quali tiranni furono
uccisi? quali mostri vinti? Qual forza li atterrò? di quanti inganni, di che frodi senili
erano cinti? Chi diede al falso tempio il grande crollo? Le colonne piegarono su i plinti.
Il precone stampato fu col bollo rovente nella palma della mano e nel dosso restìo, sino
al midollo. Strascicandosi contra l'uragano gioioso che lo tratta come balla di cenci, or
vocia nella piazza in vano. E marchiatelo ancóra su la spalla e su la fronte! Poi gli sia
concessa la buona greppia nella buona stalla. Altra parola è data, altra promessa. Canto
il domani e canto la canzone dei secoli; ché l'anima è trasmessa. A mira di balestra o
di cannone l'occhio è ben quello, che non batte ciglio. Dritto è il silùro come lo
sperone. Canto la forza antica e nova, figlio d'una carne vivente e d'infinita progenie. O
tu che m'odi, io ti somiglio. Ma il balestriere, chino alla bastita o alzato sul
carroccio, anco in me vive. L'anima eterna è il vaso della vita. Canto le stive, le
profonde stive piene d'armi, di viveri, di tende, di bottame; le maestranze attive su i
ponti apparecchiati ove risplende forbito ogni metallo. I battaglioni giungono. Il cielo
è prode, con vicende di nubi e di chiarìe, con padiglioni immensi, con falangi
impetuose. E tutta la città par che si doni. E diffuso è l'amore su le cose come un ciel
più vicino, simigliante al vólto delle madri coraggiose. Non sul vólto, nell'anima son
piante le lacrime divine e trionfali, mentre il silenzio fa le labbra sante. Gloria della
città! Passano l'ali ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni di Dedalo, le macchine campali
fatte di tesa canape e di legni lievi, che porteran l'uomo e l'atroce sua folgore su i
fragili sostegni. E le gole d'acciaio senza voce passano, che laggiù nel lor linguaggio
conciso parleranno, dal veloce affusto tratte al ciglio del villaggio, lungo il palmeto,
sopra le trincere, davanti ai pozzi. Romba il carriaggio su la selce. Seduto è
l'artigliere sul cofano. Conduce a coppia a coppia i cavalli gagliardi il cavaliere.
L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia. Repente il sole batte su la faccia
giovenile, sul pezzo, su la doppia groppa. E l'affusto trascinato a braccia nella sabbia
ove il mare s'impantana vedo! Chi mai cancellerà la traccia dentro le dune della
Giuliana? Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota. Gloria a te, batteria
siciliana! Canto il selvaggio anelito, la gota che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,
i polsi tra le razze della rota, le spalle che sollevano la cassa e la portano, l'ordine
del fuoco, la mira, il primo colpo nella massa nemica, il suolo raso, l'urlo roco delle
strozze riarse ad ogni schiera abbattuta, l'allegro ardor del gioco; o Ameglio, e il ferro
freddo; e la bandiera tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata su la Berca nel soffio
della sera. Canto la Morte, alata e illuminata come la prima legge della luce. La vita è
meno fertile. È rinata da lei l'alta bellezza. Ella produce le semenze che noi nella
ruina seminerem cantando. Ella conduce le Muse, conduttrice più divina d'Apollo. Non ha
tombe ma trofei. È tutt'avvolta d'aria mattutina come la messaggera degli dei. I più
giovini eroi sono i suoi gigli. O Gloria, ed ella è là dove tu sei. O Primavera, e tu le
rassomigli. Mentre che soffia il vento del Deserto, ella infiamma gli anemoni vermigli.
Canto la Gloria cerula, dal serto alternato di rostri e di muraglie, che ride se il
combattimento è incerto. Immune dall'orror delle battaglie, è bella come Roma nel suo
trono e Siracusa nelle sue medaglie. Come sul mar risponde il tuono al tuono, il presente
al passato in lei risponde; e la mia corda duplice è il suo dono. Conculcate le stirpi
moribonde ella fa dell'Italia dai tre mari la grande Patria dalle quattro sponde. Quando
nei nostri porti gli alti fari s'accendono, ella sfolgora da ostro sola nelle foschie
crepuscolari. E, vòlto verso lei notturna, il nostro sogno ansioso vigila il mattino. E
il mattino per noi sorge da ostro. Sorge con uno strepito marino, tra le grida gioiose dei
messaggi che gridano il gentil sangue latino: gridano i reggimenti e gli equipaggi,
gridano i morti, gridano i feriti le vittorie da' bei nomi selvaggi, gli eroi dai nomi
oscuri ingigantiti. Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara- Sciat, Henni! Par che al lauro si
mariti la palma. Tutta l'oasi è un'ara fumante. Verri, Granafei, Briona, Orst, Bertasso,
Gangitano, Fara, Moccagatta, Spinelli! Un nome suona la morte, l'altro la vita. E la morte
e la vita son come una corona sola composta di due fronde attorte. Severo dal suo grande
Arco sorride: il battaglione è come la coorte. Foss'io come colui che i nomi incide col
ferro aguzzo nella nuda stele ad eternar la gesta ch'egli vide! O Roma, almen quello del
tuo fedele inciderò nel fulvo travertino, e il tuo modo: «Coi remi e con le vele». O
Roma, e mentre al giovine Latino «Velis remisque» nella pietra intaglio, scorgo l'Ombra
del grande suo vicino. Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio, quegli che fece co' suoi nervi
soli a San Giorgio di Lissa il suo travaglio. «Gittai buon seme» ei dice. Si consoli per
quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto la madre di Riccardo Grazioli. E tu resta, o
Canzone, in camposanto. Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba; e veglia, incoronata
d'amaranto. Alla diana sonerai la tromba. La canzone della Diana Tutti i cipressi fremono.
O Canzone, squilla! I corvi dall'arco tiburtino s'alzano andando verso il Teverone.
Altrove è l'alba. Un pascolo marino è l'Agro. L'Urbe è un'isola. Si spande la più gran
luce sopra l'Aventino, verso la Porta d'Ostia, in sette bande. Nell'ombra del Gianicolo
tre vele rosse rimontan verso Ripa Grande. Sul Mausoleo l'Arcangelo Michele sfolgora.
Ritto sta su l'altra mole a cavallo il secondo Emanuele. Ninfa perenne dalle mille gole
l'acqua canta le origini del Lazio. Niuna cosa mai tu veda, o Sole, maggior di Roma! Il
numero d'Orazio a quando a quando par, tra l'Arce e il Fòro, riecheggiato nel divino
spazio. Pieno di nume è l'aere sonoro. Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia un eroe
sul Gianicolo l'alloro? Riarde ai Quattro Vènti la battaglia sublime? ancóra fumiga il
Vascello? ancóra il sangue bulica e s'accaglia? ancóra ai giovinetti ebri il mantello
bianco del condottiere è l'ala intatta della Vittoria? il Dandolo l'appello ultimo fa su
la scalea scarlatta ove sopra i cadaveri il cavallo del gran Masina dà l'ultima stratta?
Irto di furia è il muto piedestallo. I bersaglieri di Lucian Manara disperati empion
d'animo il metallo. Laggiù, guatano il ciel che si rischiara dietro il muro di fango, nel
palmeto, i bersaglieri di Gustavo Fara. Laggiù, sotto la cupola che sgretola, arde
l'araba lampada al bivacco e la vedetta sta sul minareto. Pietro Ari laggiù tra sacco e
sacco spia l'Oasi, con l'occhio a mira certa, tranquillo masticando il suo tabacco. I
mozzi, come fossero in coverta, stanno alla guardia della batteria sopra il sabbione; e
l'un per gioco «Allerta a proda!» grida. E vien dalla Menscìa, con l'afa dei cadaveri,
odor d'erbe arse nel vento, odore di gaggìa. Poggiato al pezzo il morituro imberbe, che
morderà la sabbia, i denti bianchi ficca nel pane e nelle frutta acerbe. Odesi il canto
dei soldati stanchi che scavan le trincere nelle tombe dei Caramanli. Il canto li
rinfranchi. S'ode nel cielo un sibilo di frombe. Passa nel cielo un pallido avvoltoio.
Giulio Gavotti porta le sue bombe. Laggiù, presso la mola d'un frantoio o presso i
tronchi d'un'antica noria onde pendon consunti e corda e cuoio, sorride un morto
all'invisibil gloria. Il paradiso è all'ombra delle spade e la delizia è il fior della
vittoria. Ulula per i campi senza biade il duolo delle donne beduine alterno, ed or
s'inalza ed ora cade. All'ombra d'una palma, sul confine dell'Oasi, una croce rude è
fitta in un tumulo cinto dalle spine. Nome inciso non v'è, non lode inscritta: altro
segno non v'è se non l'eterno. Sola una nudità vi splende invitta. Un dal tuo più
profondo sen materno escito, Italia, un figlio tuo vi dorme; che s'ebbe anch'egli forse il
pianto alterno là nell'isola dove l'ombra enorme del Passato covar sembra il nuraghe
perché ne sorga un popolo conforme. Non la madre mortal toccò le piaghe, né le lavò,
né le lasciò di bende, già consunta dall'ansie sue presaghe. Ma tu guardasti le ferite
orrende e componesti il corpo in quel sepolcro. Sola una invitta nudità vi splende. E la
terra fu tua per quel sepolcro, tutta la terra inclusa tra la Sirte e il Deserto fu tua
per quel sepolcro! Canto l'azzurro e l'oro della Sirte, l'azzurro che nel grande oro
s'insena, ove non dagli scogli ma dall'irte navi con l'urlo lungo la sirena lacera l'aria
pregna dell'aroma che inebria i prodi; e bianca su l'arena Tripoli infida cui la guerra
schioma come femmina presa per le trecce dalle pugna del maschio che la doma. Le sue palme
schiantate, le sue brecce fumide canto; canto i suoi villaggi rasi che brucian come in
luglio secce di Maremma, onde fiutano i selvaggi poledri il dubbio odore dalle chiatte ben
costrutte e nitriscono ai foraggi salini che pascean lungo le fratte di tamerici, presso i
sepolcreti sonori dove il mare etrusco batte. O terra di sepolcri e di forteti, Maremma,
canto la tua razza equina, la ben crinita razza che disseti nel sarcofago tolto alla ruina
di Saturnia o di Volci e che rinfreschi con un germoglio roscido di brina. Salute, o terra
degli Aldobrandeschi! Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera, come l'ocra e la robbia ai
barbereschi, arrossano finché di primavera tu non li marchi all'anca e alla ganascia per
arrolarli sotto la bandiera. La chiatta a fondo stagno il mastro d'ascia chioda, coi
sacchi d'aria e con le botti l'aiuta, con i canapi la fascia. I cavalli s'impennano,
condotti alla gru; cinti dell'imbraca, appesi al paranco, paventano. Interrotti sibili,
canti di fatica ai tesi canapi, voci di comando, liti di battellieri, gergo di Maltesi,
schianti d'assi e di tavole, nitriti e scàlpiti nel vento che ridonda, sudore e schiuma,
urti d'abbordo, attriti di ferramenta; e tutta l'aria è bionda come su Talamone; ed agli
approdi i maremmani giungono con l'onda. Maremma, canto i tuoi cavalli prodi. Tra sangue e
fuoco ecco un galoppo come un nembo. E la cavalleria di Lodi, la schiera della morte. So
il tuo nome, o buon cavalleggere Mario Sola. Giovanni Redaelli, so il tuo nome; Agide
Ghezzi, e il tuo. "Lodi" s'immola. E veggo i vostri visi di ventenni ardere tra
l'elmetto e il sottogola o dentro i crini se il caval s'impenni contra il mucchio.
Gandolfo, Landolina, alla riscossa! Tuona verso Henni. Tuona, da Gargarèsch alla salina
di Mellah, su le dune e le trincere, su le cubbe, su i fondachi, a ruina, su i pozzi, su
le vie carovaniere. La casa di Giammìl ha una cintura di fiamma. Appiè, appiè,
cavalleggere! Vengono di Taruna e di Tagiura, vengon di Gariàn e di Misrata; e dal
Deserto un'altra massa oscura s'avanza già sotto la cannonata. Or biancheggiano al vento
i baracani: s'arrossano se scoppia la granata. Occhio alla mira ferma, o cristiani. Solo
chi sbaglia il colpo è peccatore. Vi sovvenga! Non uomini ma cani. Per secoli e per
secoli d'orrore, vi sovvenga! Dilaniano i feriti, sgozzan gli inermi, corrono all'odore
dei cadaveri, i corpi seppelliti dissotterrano, mùtilano i morti, scempiano i morti.
Straziano i feriti, gli inermi, i prigionieri, i nostri morti! Vi sovvenga. Dovunque è il
tradimento, nelle case, nei fondachi, negli orti, nel verde d'ogni palma, nell'argento
d'ogni olivo, allo svolto d'ogni via. I marinai lo fiutan sottovento. O Tripoli, città di
fellonìa, tu proverai se Roma abbia calcagna di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.
Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna, Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara vi guarda.
Cresce il sangue e mai non stagna. Tutti in piedi. Nessuno si ripara. Chi cade, si rialza;
e poi stramazza. La spalla del soldato è la sua bara. Immune su la grandine che spazza
l'Oasi atroce, splendido nell'alto cielo un alato spia. Salute, o Piazza, Mòizo, Gavotti
dal tuo lieve spalto chinato nel pericolo dei vènti sul nemico che ignora il nuovo
assalto! Anche la morte or ha le sue sementi. La bisogna con una mano sola tratti, e
strappi la molla con i denti. Poi, come il tessitor lancia la spola o come il frombolier
lancia la fromba (gli attoniti la grande ala sorvola) di su l'ala tu scagli la tua bomba
alla sùbita strage; e par che t'arda il cuor vivo nel filo della romba. Non guarda il
cielo Pietro Ari. Guarda tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia. Sceglie, tira, non
falla. È testa sarda. Non si volta, non grida né motteggia. Mira e tira. Una palla
squarcia un sacco. Una rimbalza su la canna e scheggia la cassa. Un'altra viene a tiro
stracco e un po' lo pesta. Un'altra vien di schiàncio e lo strina. Egli morde il suo
tabacco. È a testa nuda, testa quadra. A un gancio pende l'elmetto. Intorno è pien di
bòssoli. Ancor nella gamella è caldo il rancio. Anima, corpo e patria son nel fosso come
in un focolare più capace che l'arborense. Una man sacra ha smosso col ferro nella cenere
la brace dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.
Ei dormirà, come le prime stelle tremino, su la stuoia stesa in terra. Or è nella
mislèa. «Pelle per pelle» dai padri suoi che dormono sotterra fu comandato. Or contro
questi cani sta con fegato buono a mala guerra. Quante grandùre, quanti baracani colcò,
sotto la grandine che scroscia! Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani e mai sempre. Una
palla nella coscia gli spezza il taglio della baionetta cinta al fianco, e nell'osso della
coscia il mozzicon del ferro gli s'imbietta forte così che sola una tanaglia o la mano
del Sardo in una stretta cruda lo possa svellere. Ei travaglia seduto su lo zàino. Alfin
lo svelle. S'alza nel sangue, e torna alla battaglia. Non torna al focolare? Le sorelle
cuciono in sogno il suo gabban d'orbace. Or tinto è il panno, e l'opre son più belle.
Ancor uno! Ancor uno! Non è pace ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza. Il sangue
scorre e l'anima è tenace; ché rugge in piedi tutta la sua razza ora nel suo coraggio,
su quell'osso scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza. Ancor uno! Due tre gli sono
addosso, lo prendono, gli strappano il fucile, lo forzano, lo traggono dal fosso. Non son
que' cani, sono i suoi! Le file de' suoi vede in ginocchio ai parapetti, i pacchi di
cartucce nel barile; gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti; ode il tonfo d'un corpo
che si piega, la rabbia che stridisce su gli elmetti. E il taciturno supplica, diniega,
minaccia, si dibatte. Il sangue scorre per la barella. Ei rugge ancóra, e prega! Verso
Messri, un eroe nomato Astorre ha tolto all'orda lo stendardo verde; e tutto il fronte
alla riscossa accorre. Su, compagnia dello stendardo verde, Ottava! Su, la Settima, col
prode Orsi! L'inferno di Giammìl si perde. Spinelli, alla riscossa! Ala dell'Ode, non
batti se non come il chiuso cuore. Chiusa fremi, e il tuo numero non s'ode. Come quella
d'Atene, per amore della mischia, t'allacci i tuoi calzari, Ode, e ricalchi l'orme del
valore. Dal ciglio dei ridotti e dei ripari sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi gli
oscuri eroi pel cor di Pietro Ari. A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi della Corsina e
quelli di Marsala. Su la mischia feroce, su i selvaggi urli, sul mucchio, sul baglior
ch'esala dall'animo scagliato a tutta possa, subitamente par che passi l'ala di quel
mantello e la camicia rossa rilampeggi e racceso per la duna il riverbero sia di
Gibilrossa. Croce d'argento contro mezzaluna! Undecimo, con l'ugne riafferri pe' capegli
di dietro la fortuna. Chi balza con lo stuolo irto di ferri di là dalle trincere e dai
destini verso la sua bellezza? È Pietro Verri. «Avanti, marinai, garibaldini del mare!»
Par che su lo scarno viso l'ardente ombra del Sìrtori s'inclini. Rotta la fronte che fu
pura, ucciso cade. Par che l'alfiere da Camogli su le spalle si carichi l'ucciso.
«Avanti!» Non è tempo di cordogli. Il pericolo ondeggia. Il tradimento è dietro i
muri, è dietro i tronchi spogli che la grandine schianta; è in tutto il vento del
Deserto e dell'Oasi. La sorte balena. Alla riscossa! Ei non son cento, e la bandiera
sventola. Ora, o Morte, ei son cinquanta. E la bandiera sventola. Dov'è Giacomo Medici?
Ora, o Morte, non son che dieci. E la bandiera sventola. La canzone d'Elena di Francia
Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti, e voi, Pleiadi, lacrime divine d'amori eterni e di
dolori ignoti; e tu, fra le sorelle oceanine, che sola amasti un triste eroe mortale, e ti
celi il tuo vólto nel tuo crine, o Merope d'Atlante, mia navale Musa; e tu, Vega, e tu,
bacca di luce, Perla della corona boreale; o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce, Càstore,
plenitudine di spirti che la corusca melodìa conduce; Notte, e Galàssia effusa per
crinirti, Nube, e il dio che ti lacera, scorgete la bianca nave uscente dalle Sirti! Sul
guerreggiato mare alta quiete regna. Il silenzio del Risorto incombe, come quando Simon
gittò la rete. Quasi un dolce candore di colombe illumina la tolda della nave che reca i
morti alle materne tombe. E su l'assi che chiudono il cadavere e sul letto ove sanguina il
ferito arde una sola santità soave. La figura di prua non è scolpito legno ma un
sovrumano Essere intento, con un sorriso eguale all'Infinito. E quegli ch'ebbe stritolato
il mento dalla mitraglia e rotta la ganascia, e su la branda sta sanguinolento e
taciturno, e i neri grumi biascia, anch'egli ha l'indicibile sorriso all'orlo della benda
che lo fascia, quando un pio viso di sorella, un viso d'oro si china verso la sua guancia,
un viso d'oro come il Fiordaliso. Sii benedetta, o Elena di Francia, nel mar nostro che
vide San Luigi armato della croce e della lancia fare il passaggio coi baroni ligi su le
navi di Genova e prostrato sotto i suoi gigli attendere i prodigi, sii benedetta; ché
ritorna il fato d'amore all'acque istesse e in te rigiura il santo Re di lacrime beato. Ti
sovviene dei morti di Mansura che putivan nel limo, su le rive del Nilo, ignudi, senza
sepoltura, mentre per tutta l'oste le malvive genti ululavan come donne in parto di tra il
marciume delle lor gengive, e i feriti, colcati su lo sparto come buoi, la Cappella e il
suo Tesoro deprecavano in van pel sangue sparto e lungi travedean dal lor martoro
splendere, dietro la criniera ardente di fuoco greco, la celata d'oro, la gran spada
alemanna ben tagliente, e udian sonar la prece su la zuffa: «Bel sire Iddio, tu guarda la
mia gente!». Allora il Re levavasi la buffa dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,
sfangava solo per l'orribil muffa. Per quel carnaio givasi carponi piangendo, a
riconoscere i suoi cari morti, i suoi fanti come i suoi baroni. E i Vescovi, che in campo
dagli altari assolvevano l'anime, al divino officio si turavano le nari. Ma il Re, toltosi
l'elmo e il gorzerino, portava i corpi in su le braccia e in dosso quand'altri li traeva
per l'uncino. E con quella pia man che avea riscosso Carlo d'Angiò di sotto il fuoco
greco (in arme d'oro sul cavallo rosso che ardea per la criniera, ei fatto cieco e invitto
dal suo Dio corse a traverso l'inferno avendo un grande Angelo seco) con quella mano
l'ulcero perverso medicava, tagliava intorno ai denti la carne enfiata, ungeva il taglio
asterso. Pane afflitto partia con le sue genti nelle fami. Parlava col lebbroso. Portava
invidia agli uomini piangenti. «Bel sire Iddio, richieder non son oso fonte di pianto.
Alcuna stilla basta all'alidore del mio cor penoso.» Le lacrime colando per la casta
bocca, ei gustava nell'amaro sale la dolcezza che ad ogni altra sovrasta. Ma non tu
piangi, o Amàzone regale. Una intrepida forza t'azzurreggia negli occhi, sotto il lino
monacale, se il braccio lacerato dalla scheggia sostieni o la man tronca fasci o bagni le
labbra al sitibondo che vaneggia. Non lacrime, non gemiti, non lagni. Quegli che vinse
fuor della trincera, vuol col silenzio vincere i compagni. E quegli che di vivere non
spera già fiammeggiar nel gelido lenzuolo sente i tre ferzi della sua bandiera. Qual novo
giorno splenderà sul molo popoloso, laggiù? La Patria è tutta pallida, in piedi, con un
vólto solo. Pallida, in piedi, con la gota asciutta, serra nel petto i nomi de' suoi
morti. Guarda lontano. E il mar non li ributta. Quale mistico approdo è atteso? I porti
sono solenni come cattedrali. Donna di Francia, or sai quel che tu porti. Tu porti con la
nave i sogni e l'ali e le rose future e il novo canto in quel cumulo d'anime e di mali.
L'angioino vascello non più santo era allorché recava il grande spoglio del Re che volse
in cenere il suo manto. Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio venìa così pel Mar
siciliano con l'oste e col navile in gran cordoglio. E il Re col suo soave Gian Tristano
stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto in Fiorenza, il cordiglio francescano nell'una
man tenea forse e di sotto al drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligi avea su l'ossa il
càmice incorrotto. Era lontano in Santo Dionigi il sepolcro, guardata dalla morte la via
lunga di Trapani a Parigi. Re Tibaldo morivasi alle porte dell'Invitta, Isabella d'Aragona
sentiva già l'orrore della sorte imboscata ne' monti ove risuona giù per la costa
calabra il maligno guado che lei travolse e la corona. E il Nasuto, il carnefice ulivigno
de' biondi Svevi, in terra di baldoria gli usci franceschi tinti di sanguigno non si
sognava già, né la sua boria vedeva il lunedì di Risurresso e le galere di Rugger di
Loria, quand'ebbe offerto in pegno di possesso eterno a Monreale il Cor beato e in Palermo
il Lambello ebbe rimpresso. Ora a Palermo per divino fato il Fiordaliso ed il Lambel
vermiglio raddotto hai tu, non in vessillo issato, o Elena di Francia, ma in naviglio
ricrociato d'amore e di dolore ove tu splendi come il più gran giglio. «Così è
germinato questo fiore!» par sorrida colui che su la roccia del sacro balzo, ove l'umano
errore si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia suo seme ha visto tutto vòlto in giuso
fonder per gli occhi il male a goccia a goccia. «Nuova luce percote il viso chiuso» dice
la Voce. E dice: «Qui si monta». Ed ovunque il suo spirito è diffuso. La sua forza
gentile austera e pronta è la tempra dell'aria. O Italia bella, or sei fissa al tuo Sol
che non tramonta. O dolce Francia, o unica sorella, per la muta speranza che s'inclina su
le chiare acque della tua Mosella, per la memoria pia di Valentina che, fedele al suo
lutto, patir volle senza tregua nel cor l'acuta spina, pei campi onde l'allodola tua folle
balza chiamando, e i pioppi della Mosa fremono, e il sangue grida nelle zolle, Francia,
ricevi e serba la gioiosa promessa che ti fa, d'una vendetta più grande, questa carne
sanguinosa. Taglia per noi con la tua vecchia accetta un ramo della quercia di Lorena, sul
colle ove Giovanna è alla vedetta, intreccia al ramo rude la verbena già sacra ai nostri
padri, ed a noi manda. Su le Statue velate il ciel balena. Balena anche per noi da quella
banda. Sul Campidoglio senza Feziali sospenderemo noi la tua ghirlanda. E tu òccupa il
ciel con le tue ali, guerriera alata. Noi le navi forti spingeremo nel mar dai nostri
scali. O Elena, che in fronte ai nostri morti impressa vedi la virtù di Roma, pel gran
patto latino oggi tu porti la verbena augurale entro la chioma. La canzone dei Dardanelli
Taranto, sol per àncore ed ormeggi assicurar nel ben difeso specchio, di tanta fresca
porpora rosseggi? A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio muro che sa Bisanzio ed
Aragona, che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio? Non balena sul Mar Grande né tuona.
Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte gira, e del ferro il tuo Canal rintrona. Passan così
le belle navi pronte, per entrar nella darsena sicura, volta la poppa al ionico orizzonte.
Sembran sazie di corsa e di presura, mentre nel Mar di Marmara e nel Corno d'oro imbozzate
l'ansia e la paura sognano fumi al Tènedo ogni giorno apparsi e invocan l'altro Macometto
che scenda in acqua col cavallo storno come quando alla Blanca un vascelletto greco e tre
saettìe di Genovesi con lor pietre manesche e fuochi a getto, conficcate le prue sino ai
provesi, nell'arrembaggio, presero battaglia contra il soldano e i suoi visiri obesi e
contra una ciurmaglia e soldataglia innumerabile in dugento buoni legni; e vinsero; e con
la vettovaglia sotto Costantinopoli, tra suoni e cantici, a rimurchio in salvamento li
ricondusse Zaccaria Grioni. Eran tre saettìe contra dugento sàiche fuste e galèe!
Taranto, Alfieri d'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento su la duna a Bengasi ove tu
eri mista al suo sangue allor che cadde eletto dalla gloria tra i bianchi cannonieri, ben
si mostrò di quella tempra; e il petto, come quando le navi avean di legno il fasciame,
fu ben di ferro schietto. Ma non pur anco il giovincello Regno, fior di modestia, escito
è di tutela. I pedagoghi suoi stanno a convegno. Adoprano con trepida cautela la bilancia
dell'orafo in pesare il buon consiglio; e, se il timor trapela, appoggiandosi al muro
famigliare stranutano e tossiscono. O Senato veneto! O prisca Libertà del Mare! Il sobrio
Talassòcrate dentato, il pudico pastor dai cinque pasti che si monda con l'acqua di
Pilato, immemore dei fasti e dei nefasti suoi dì vermigli, cigola e s'indigna a tanto
scempio, e torce gli occhi casti! E quei che verso il Reno ora digrigna ed or sorride
livido di bile col ceffo nella sua birra sanguigna, l'invasor che sconobbe ogni gentile
virtù, l'atroce lanzo che percosse vecchi e donne col calcio del fucile, il saccardo che
mai non si commosse al dolore dei vinti e lordò tutto del fango appreso alle sue suola
grosse, l'Ussero della Morte vela a lutto Stinchi e Teschio per la pietà fraterna di
tanto musulman fiore distrutto! Ma uno più d'ogni altro si costerna. Egli è l'angelicato
impiccatore, l'Angelo della forca sempiterna. Mantova fosca, spalti di Belfiore, fosse di
Lombardia, curva Trieste, si vide mai miracolo maggiore? La schifiltà dell'Aquila a due
teste, che rivomisce, come l'avvoltoio, le carni dei cadaveri indigeste! Altro portento.
Il canapo scorsoio che si muta in cordiglio intemerato a cingere il carnefice squarquoio
mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato da quella mozza man piena d'anelli che
insanguinò la tasca del Croato! Son questi i cristianissimi fratelli del protettor
d'Armenia, ond'è rifatta pia la verginità dei Dardanelli. La vecchia Europa avara e
mentecatta che lasciò solo il triste Costantino, solo a cavallo nella sua disfatta ultimo
imperatore bisantino combattere alla Porta Carsia e spento dar la porpora e l'aquile al
bottino, dessa or soccorre del suo pio fomento lo smisurato canchero che pute tra Mar
Ionio e Propontide nel vento. Oh Alleanza mistica, salute! Cantar voglio le tre sotto il
posticcio turbante auguste Podestà chercute e d'austriaco sevo unto il molliccio soldan
che ascolta il suo martirologio col bianco pelo irto per raccapriccio. Alla Consulta
attendono l'elogio tutorio i pedagoghi del pupillo demente; e spiano il tempo ch'è
balogio su la piazza ove ride lo zampillo romano tra gli equestri Eroi gemelli palpitando
qual limpido vessillo. Come sul fulvo mare dei camelli sta la Sfinge, una intorta
Pitonessa senza tripode guarda i Dardanelli. La licenza è concessa e non concessa, se
guarentita sia la libertà al sapone di Caffa e al gran d'Odessa. Ahi cieca ambage! Ed ei
non sono già discepoli di Mosca de' Lamberti che disse: «Cosa fatta capo ha». Vanno
librando i pesatori esperti la bilancia dell'orafo sì vana con once dramme scrupoli
malcerti. Meglio rozza stadera di dogana ove per dar tracollo il ferreo Cagni gitti la
spada di Bu-Meliana. La nave, col desìo che il sangue bagni le torri e il ponte per
ribattezzarsi, richiama a sé gli intrepidi compagni che troppo a lungo per le dune sparsi
e nelle fosse tennero la guerra dediti a superare e a superarsi come quando l'eroe, che di
sotterra ancor gli incìta, disse oltre la morte: «Io con mille di voi prendo la terra».
Stefano Testa, l'òmero tuo forte è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio; o
Montella, e il tuo femore. E la sorte, o Gaudino, t'amò quando un vermiglio fiore ti pose
presso il cor tra costa e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio di Bari vecchia ove una
santa esposta al popolo si chiama Serafina, e il popol tutto innanzi a lei fa sosta; o
Carmineo, di un'umile eroina anche tu primo nato tra il Leone di San Marco e la Chiesa
palatina; o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone, che in sogno ancor la piaga del tuo piede
strascichi per servire il tuo cannone; voi tutti, ardenti della vostra fede e della vostra
febbre nella lunga corsìa triste, con l'anima che crede e vede or ascoltate se non giunga
un grande annunzio, sussultando al cupo urlo che nella notte si prolunga. Dante de Lutti
forse in un dirupo giace coi prodi a Derna, e la vendetta ride ne' denti suoi di giovin
lupo come quando a Tobrucca su la vetta della ruina issava il tricolore, più agile che
mozzo alla veletta. E la notte par piena di clamore. E la corsìa d'occhi sbarrati e fissi
riarde, e ucciso è il sonno dall'orrore. Taluno i suoi compagni crocifissi rivede, là,
nella moschea di Giuma, i corpi come ciocchi aperti e scissi con la scure, conversi in
nera gruma senza forma, sgorgando le ventraie per gli squarci; e le bocche ove la schiuma
dell'agonia tersero l'anguinaie recise, intruse fra le due mascelle; e i viventi infunati
alle steccaie, alle travi dei pozzi, con la pelle del petto per grembiul rosso, con trite
le braccia penzolanti dalle ascelle dirotte, con le pàlpebre cucite ad ago e spago, o
fitti sino al collo nel sabbione che fascia le ferite, le vene stagna. Odio, che sei
midollo della vendetta e lièvito del sangue, ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.
Talun disse: «Spargete poco sangue. Deh non vogliate esser micidiali! Quasi pace è la
guerra, quando langue». O dolci eroi sognanti su i guanciali penosi, udiste l'ordine di
guerra? «Le navi scorreranno gli ospedali I marinai combatteranno a terra.» Sognando,
andiamo incontro all'Ombre sole mentre il ponte di Taranto si serra. La notte sembra viva
d'una prole terribile. La grande Orsa declina. Infaticabilmente il mar si duole. Un vento
di dominio e di rapina squassa il vasto Arcipelago schienuto. Chi vien da Scio con la
galèa latina? Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto, a capo del naviglio tuo di corsa, o
duca dell'Egeo Marco Sanuto. Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa. Dietro i pavesi sta la
compagnia pronta allo sforzo: la minaccia è corsa. Eri una via calpesta, eri la via dei
Barbari che andavano alla guerra in Occidente, allora, o Austria pia. E l'onta di Giovanni
Senzaterra stava su te, la crudeltà del basso vassallo d'Innocenzo, o Inghilterra, quando
al libero Doge dava il passo l'Imperatore sul diviso Impero, e la Morea dal Tènaro a
Patrasso e Salamina con il suo cimiero di gloria non immemore d'Aiace, e il Sunio col suo
tempio roso e il nero Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace, le Cicladi fulgenti,
tutto il lido curvo dal Mar dalmatico al Mar trace erano un sol dominio sotto il grido di
San Marco; e Gallipoli, Eraclea, Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido il Doge tutto
l'Ellesponto avea; quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali quivi, e le darsene e le ròcche
aveano i Veneti; lanciavan dagli scali nel Corno d'oro le galèe costrutte, al Leone ogni
dì crescendo l'ali. Ecco, o Mediterraneo, su tutte l'isole, ecco i tuoi dèspoti.
Rischiaro col mio cuore le impronte non distrutte. Ecco un Sagredo principe di Paro, a
Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo, a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro. Presso
Blacherne publica il suo bando Ranieri Zeno, e quasi Imperatore ha tutta Romania nel suo
comando. Il genovese Enrico Pescatore conte di Malta usurpa il fio di Creta. In regia
potestà l'Asia Minore ha Martin Zaccaria, batte moneta, leva milizie e navi, si travaglia
a Focea per allume, a Chio per seta, a traffico imperversa e a rappresaglia, stermina
Catalani e Musulmani, tutt'armato da re muore in battaglia. O dura schiatta dei
Giustiniani, nova sovranità della Maona libera, dinastia di popolani magnifici, di re
senza corona, che profuman di mastice la bianca scìa o la segnan d'una rossa zona, quando
nell'isola Andriolo Banca orna templi, deduce carmi, venera Omero, èduca lauri, schiavi
affranca! Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia,
l'Ombre cantano come le sirene. Un Querini è signore di Stampàlia, di Nanfio un
Foscolo, un Navigaioso di Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia, ecco il mare operoso e
sanguinoso di noi, le rive con le nostre impronte, le mura impresse del Leon corroso. Un
Barozzi è signore a Negroponte, un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio. Navarca è un Longo
ed un Adorno è arconte. Fendo i secoli, lacero l'oblìo, ritrovo le correnti della gloria
nell'acqua ove portammo il nostro Dio. Levo sul mar l'onda della memoria e col soffio
dell'anima la incalzo, che ferva sotto il piè della Vittoria, che schiumi e fumi sotto il
piede scalzo volante in sommo come quando accorse precipitosa dal marmoreo balzo a te,
Cànari. O Grecia, o Grecia, forse anche i tuoi fari pendono. E lo scotto sarà pagato.
Chiedi l'ora all'Orse come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriotto quando muti ridean nel cuor
selvaggio, acquattato ciascun nel suo brulotto, con alla mano i raffii d'arrembaggio, con
alle coste il demone del fuoco, messo fra i denti il fegato per gaggio. Anche nel nostro
cuore arde quel fuoco, sorella. Vien d'Ipsara Costantino Cànari, arsiccio, ancor più
pronto al gioco. Andrea Miàuli vien sul brigantino ch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a
Modóne. Ma chi è mai quel grande suo vicino? Riconosco la chioma del leone e l'affilato
viso dell'audacia e l'occhio inesorabile. O Canzone, piègati sotto l'ala acuta e bacia
per tutti i marinai la fronte fessa del Capitan che vien dal mar di Tracia. Viene dai
Dardanelli su la stessa galèa cui non restò se non l'orrore dell'annerito arsile, su la
stessa galèa che vide volgere le prore e orzare a terra Mehemet codardo, viene dai
Dardanelli il vincitore Lazaro Mocenigo. E lo stendardo del calcese, che gli spezzò con
l'asta il cranio, or croscia al maestral gagliardo su l'erto capo cinto della vasta piaga,
su la criniera leonina che per corona nautica gli basta. Chiuso è il destr'occhio che
nella marina di Scio barattò egli contro vénti navi di Kenaàn tratte a rapina. Ma il
freddo astro di tutti gli ardimenti è l'occhio manco, specchio dei perigli. Lazaro
Mocenigo ha le sue genti? Guardalo, Cagni, tu che gli somigli. La canzone di Umberto Cagni
Cagni, colui che a te negli anni eguale patì l'ignavia delle vane carte, morso il cuore
dall'aquila immortale, e vendicò nello stridor dell'arte la forza che sognar faceagli il
fato e il pallore del giovin Bonaparte quando credea nel suo silenzio armato essere il
messo della nova vita e della nova gloria il primo nato, colui t'onora come la scolpita
imagine del sogno suo più forte, si ch'ei disdegna l'opera fornita e, gittando sul vólto
della sorte le sfrondate corone, or solo spera nell'ultima bellezza della morte. Non per
la forza, o anima guerriera, non pel fàscino invitto onde rapivi ltre la forza l'èsile
tua schiera quando fendevan quattro cuori vivi l'immensa ghiaccia, e più del buio trista
la notte senza tènebra era quivi; non pel fertile ardire onde fu vista una manata
d'uomini discesa dalle navi tenére la conquista della terra ed accrescersi, sospesa nel
pericolo come nel bagliore d'un nume, onnipresente alla difesa; ma per l'amore, ma pel
solo amore onde due volte già trasumanasti, eroe, t'invidio sopra il tuo valore. Eroe di
due deserti, dei più vasti geli e delle più vaste sabbie, in quali eroiche immensità
l'Italia amasti! Ogni altro umano amor sembra senz'ali e senza lena e inglorioso e impuro,
congiunto alla viltà dei nostri mali. Come il fiore d'un mondo nascituro il tuo fu,
schiuso all'orlo d'un'estrema Tule che dentro te, nell'uomo oscuro, avevi, incognita. E la
man mi trema, quasi eternassi la mia smania ignava celebrandoti, eroe, nel mio poema.
Penso la mano tua che dolorava cominciando a morire, il ferro atroce, l'anima indenne su
la carne schiava; la volontà spietata e senza voce che ti facea lo sguardo come il taglio
della piccozza; il piede più veloce come più duro era il cammino; il maglio invisibile
che schiacciava i blocchi enormi, con un tuono ed un barbaglio di prodigio pel bianco Ade
ove gli occhi seguivano i silenzii oltre i fragori; le dighe che rompevano i ginocchi e i
gomiti; le slitte tratte fuori dalle crepe improvvise; la costretta man dolorosa ai ruvidi
lavori; e la fame in attesa della fetta crudigna presso il cane ancor fumante scoiato su
la neve, la galletta muffita per panatica, all'ansante sete il sorso dell'acqua fetida,
ogni penuria, ogni miseria; e, se il sestante segnava il punto suo, tutti i bisogni
conversi in riso lieve e nelle stanche ossa inserte le invitte ali dei sogni. Ti sovviene?
Su le pianure bianche una vita recondita bruiva, nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche
s'alzavano, crollavano; la riva si saldava alla riva, il monte al monte. Tutta la
solitudine era viva di ghiacci sino all'ultimo orizzonte, fulgida sotto il sol di mezza
notte. Tra l'infinito e le tue brevi impronte era la prova, augusta fra le lotte
dell'uomo. E tu dicevi a te: «Più oltre». L'Oceano era un bàratro di rotte isole. E tu
dicevi a te: «Più oltre». Sparivano i due solchi in un tumulto raggiante informe
immenso. E tu: «Più oltre!». Ché ti parea da uno scalpello occulto nell'eterno
cristallo solitario quell'altro nome ovunque fosse sculto: lo scandinàvo. «Non è
necessario vivere, sì scolpire oltre quel termine il nostro nome: questo è necessario.»
E la virtù dei quattro uomini inermi fu per un'ora il vertice del mondo. Ti sembrò tutto
fervere di germi immortali l'Oceano infecondo. Sommosso ti sembrò tutto il deserto artico
dal tuo palpito profondo. Poi fu silenzio, sotto il segno certo. Fu la cerchia terribile
del gelo alla tua gioia adamantino serto. L'anima tua su te diffuse il cielo d'Italia.
Fosti immemore e sparente come l'Ombra sul prato d'asfodelo. Allora, come l'inno fa
presente l'iddio, l'amor creò l'imagin vera della Patria. Nel gran silenzio algente parve
con l'alito una primavera sublime ella diffondere. Il tuo santo amore volse in luce la
preghiera. Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto eroico rilucea più che il polare
meriggio. Sol per una, ecco il mio canto. O messo della gesta d'oltremare, o precursore
degli eroi rinati sul lido ove rosseggia il nostro altare, o tu che primo fosti ai primi
agguati, l'indice tronco della man virile, quel che impone i comandi o addita i fati, non
fu debole all'elsa. E il puro aprile della tua gloria parve ad altra ebrezza rifervere nel
sangue tuo gentile. Ah, da qual sacro mare di bellezza, da qual divino anello d'orizzonte,
da qual non vista aurora escì la brezza vigile che soffiava su la fronte de' tuoi, là
presso i Pozzi dove forse Roma avea coronata la sua fonte? Nella notte d'ottobre ardevan
l'Orse alte coi sette e sette astri fatali su i marinai, quando la luna sorse. Tutta bella
tra il golfo dei corsali e il Deserto, levava al gran ritorno l'Oasi le sue palme
trionfali. Simile all'invocata alba d'un giorno mistico era il notturno effuso lume; e
l'annunzio e l'attesa erano intorno. Parea, spirato dall'antico nume, intra il libico
monte e l'apennino spander il ciel di Dante il suo volume. Da qual nascosto vortice marino
la colonna rostrale era polita perché splendesse al novo eroe latino? Quali mai braccia
avean diseppellita da secoli di sabbia e di barbarie Minerva, chiarità di nostra vita? Di
sotto l'oro della sua cesarie spiava ella gli imberbi, dalla vetta cerula delle palme
solitarie? Era forse Ebe la parola detta, come nella battaglia di Micale vinta col nome
d'Ebe giovinetta? Tutto era senza limite, eternale ed imminente, nell'abisso cieco del
tempo e in sommo della vita frale. Carme romano ed epinicio greco passavano con tuono di
tempesta, e la canzone italica era teco. E la canzone italica di festa e di guerra, di
vóto e di riscossa, la sua face scotea su la tua testa. Tu, come le midolle son nell'ossa
eri in quel pugno d'uomini. L'odore del coraggio era nella sabbia smossa, Ferìan la notte
fasci di splendore dalle grandi pupille delle navi insonni; e la potenza delle prore
pareva entrar nei parapetti cavi a rendere invincibili i tuoi pochi. In piedi tu, come sul
ponte, stavi. Tutta l'Oasi rossa era di fuochi scroscianti. I cani urlavano alla morte.
L'assalto era un inferno d'urli rochi. La città senza spalti e senza porte avea
l'inespugnabile cintura: te, giovinezza, amore della sorte! Ti canto, aurora; e la tua
mano pura come la rosa, piena di semente. Ti canto, eroe, per l'anima futura; e la
battaglia presso la sorgente. La canzone di Mario Bianco Giovine, so che vuota è la tua
tomba là nella cerchia ove le primavere della morte una candida colomba reca, Medea nata
del Condottiere di bronzo, quella che i suoi rosei marmi disfoglia come rose di verziere.
Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmi ti sorridesse come ad un fanciullo gentile, non
l'adunco irto nell'armi Colleoni, sì ben Francesco Nullo era, la buona lancia, il grande
e fermo alfier di Libertà, col viso brullo ancóra delle fiamme di Palermo, rotto dal
piombo slavo il vasto petto offerto alla Giustizia ultimo schermo. Risorrideva nel virile
aspetto il primo sogno che per il selvaggio Agro trasse il lanciere giovinetto quando la
giovinezza era l'ostaggio d'ogni patto segnato col Destino ed ogni giorno era
calendimaggio? Dov'egli cadde, cavalier latino in terra strana, ivi restò. La spoglia
dell'eroe sola è mèta al suo cammino. Tu fosti tolto, su la nave in doglia alla Patria
raddotto e alla soave madre che t'attendea su la sua soglia. Tinta in minio la prora della
nave non era, né corona avea d'oliva né la mannella delle spiche flave; né sopra v'era
teoria votiva che il virginal tuo sangue, libamento di guerra, offrisse alla divina riva.
Ma la mistica voce era nel vento, ma sparso era il libame. «È questo, Italia, è questo
il tuo fermento e il tuo cemento.» E non era solenne la paràlia a Delo come il funebre
vascello che radduceva il Giovine d'Italia. Ed all'approdo ognun t'era fratello sentendo
in sé l'immobile tuo cuore ripalpitare come un cuor novello. E dal silenzio fùnebre un
dolore nascea possente come la radice della virtù. Quest'inno era il suo fiore. E la
morte era quasi Beatrice che ci purificasse in una santa onda per trarci a un regno più
felice. E tu non una giovinezza infranta eri, ma la promessa e il pegno. Aroma era del
cuor la lacrima non pianta. E passasti i deserti ove arde Roma or d'altra febbre, e lungo
il mar toscano le salse macchie che il libeccio schioma. Oh t'avessero almen per il
Gargano procelloso raddotto al bel nativo colle scisso dal vomere frentano, al chiaro
colle onde il palladio ulivo guarda il gregge dell'isole nomate dal nome del
guerreggiatore argivo e i nostri monti quinci, le nevate imagini dei nostri alti custodi,
e il grande Sprone, e il cerulo Nicate! Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odi qui
fragor di battaglia né ti sazia l'effuso dopo te sangue di prodi, ben odi qui, sepolto
nella grazia di San Giovanni, le tue querci cave vaticinare al vento di Dalmazia». Ma tu
rivalicato hai senza nave il mar d'Africa. Vuota è la tua tomba che t'infiora la madre
tua soave. Per Santa Barbara, alla prima romba del mortaio, già vigile tu eri; e Gian
Muzzo sonava la sua tromba. Ed eran teco i primi cannonieri della morte, i tuoi Sardi e i
tuoi Pugliesi; e tutti eran più bianchi e più leggeri. E parea che la gran Vergine
accesi avesse i fuochi dell'aurora eterna alla festa e spiegato i suoi pavesi. Ardeva a
Tripoli, a Bengasi, a Derna la festa del mortaio e del cannone, per Santa Barbara, in
vicenda alterna. Senza pausa correva la canzone dall'una gola nera all'altra rossa:
rugghio d'incendii le tenea bordone. L'odor divino della terra smossa, fra tanta afa, lo
spirto della terra uomo e pezzo allenava nella fossa. Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,
dèmoni della vampa e del fragore, àlacri sinfoneti della guerra! Tutte le batterie un
solo ardore. Tutte le volontà un nervo istesso. La massa era contratta come un cuore; la
fila era flessibile qual nesso di tèndini. Fin l'ombra su l'arena tra l'uomo alzato e
l'uomo genuflesso era un legame vivo. La catena unanime giocava agile e dura come i nodi
nell'osso della schiena. Ove il ferro faceva una radura i superstiti in sùbito retaggio
raccoglievan la forza moritura. I morti si drizzavan nel coraggio moltiplicato dei
viventi. L'aria era come un ignito beveraggio. Roma apparìa. L'anima legionaria col vasto
afflato dilatava i petti. Nel cielo spaziava l'ala icaria. Oh date gli asfodeli violetti
d'Aïn-Zara, per tesser le ghirlande della gloria primiera ai primi eletti, ch'io li mesca
ai narcissi della grande Berenice, ai nettunii gigli nati su l'orlo delle sabbie memorande
ove tinse gli affusti trascinati a braccia il primo sangue virginale in libamento della
Patria ai Fati. Guardiamarina, cippo sepolcrale in Tobrucca ti sia l'un dei cannoni
ammutoliti, tolti nel campale giorno di Santa Barbara ai ciglioni d'Aïn-Zara che videro i
fuggenti. Gli altri sei diamo agli altri sei leoni Ché dove noi poniamo i fondamenti
della potenza, là poniam de' nostri morti l'ossa per consacrar gli eventi. Non nelle
antiche ombre, ne' lunghi chiostri dei cimiteri, tra gli usati avelli, dove profusa la
pietà si prostri; ma novel tumulo ad eroi novelli diamo, oltremare, su la quarta sponda;
e ciascun nome in pietra si scarpelli; e sien pietre angolari che profonda- mente radichi
in terra ad opra forte il costruttore, il saldo eroe che fonda. O Tobrucca, alte mura e
ferree porte avrai, cantieri, maestranze, scali, darsene, e i novi ingegni della morte. E
strapperemo alla Vittoria l'ali perché mai dall'acropoli munita si fugga. Avrem col Mare
altri sponsali. Una maschia bellezza redimita di sogni avremo, senza il sacerdote, in
mezzo a noi, nel mezzo della vita. Ché l'Africa non è se non la cote ove affilammo il
ferro, per l'acquisto supremo, contra le fortune ignote; e riluce per noi nell'intravisto
futuro un bene che per rivelarsi vale il martirio d'un novello Cristo. O Giovine, se mai
nel cor t'apparsi creato dalla pagina commossa e del gran fuoco mio l'anima t'arsi, odimi,
qual ti vedo su la fossa della trincera mentre ancor spirante bevi l'odore della terra
smossa, odimi. Non morrai. Sei nell'istante e nell'eternità. Colui che viene e non colui
che parte sei, distante e prossimo. Tu grondi, e le tue vene sono inesauste. Impallidisci,
e il viso tuo raggia e le tue mani sono piene di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso è
inestinguibile. In grande ombra veli la tua certezza, e pure io ti ravviso. Io fui qual
sei, nel mondo. Quel che aneli anelai. Vissi come tu combatti. Nutrii di sangue i sogni
miei fedeli, d'aspro sangue, per trasmutarli in atti. Solo, per simulacro della guerra
posi a me, tenni a me tremendi patti. Tutto che in sé l'insonne anima serra perverte
esalta io lo conobbi. E pure talor fui pari a un fiume della terra! Ma gli anni d'onta, ma
le cose impure pesavano su me. La mandra abietta si voltolava nelle sue lordure. A me
dissi: «Ricòrdati ed aspetta. Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte. La gloria fu.
Ricòrdati ed aspetta». Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte, il Signore aspettato,
alto volando, come la verità, sopra la morte. Ecco, vedi, obbedisco al suo comando e
tremo. Vedi, sono ebro d'amore e di spavento. Or ei dice: «Chi mando, o gridatore ed
indovinatore di cose sante? Chi andrà per noi?». «Eccomi» dico «manda me, Signore.
Con qual segno?» Col segno degli eroi Egli ha moltiplicata la mia gente, accesa la virtù
degli occhi tuoi. Ah perché, mentre tutto è rinascente in una primavera più gioiosa che
quella delle Esperidi, e il presente è tessuto di porpora famosa e di stami indicibili, e
la vita nella pietra di Pallade corrosa riscolpisce l'imagine compita della divinità
novella, e ignoto nume è il soffio che t'agita e t'incìta, ah perché non rinasco dal
mio loto Principe della Gioventù traendo i miei compagni a me duce e piloto, meco giurati
a un patto più tremendo, e, per guidarli, d'un più alto e puro fuoco in me stesso non mi
riaccendo? O Giovine d'Italia, il morituro ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,
declina sopra i mari del Futuro. Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istante e nell'eternità.
Colui che viene e non colui che parte sei, distante e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso tuo raggia e le tue mani sono piene di chiusi
doni. Cadi, e il tuo sorriso è inestinguibile. In grande ombra veli la tua certezza, e
pure io ti ravviso. Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli, gloria nei mari, gloria su la
terra! Combatti e canta come il pio Mameli; semina e mieti; i varchi tuoi disserra; assoda
e guarda le tue vie; con pugno intrepido le tue fortune afferra; e sappi come traggo il
miel del bugno, l'acqua del fonte, della piaga il dardo; e vedi come il mio dolore
espugno. Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo abbracciato il dominio, su la vetta
vertiginosa infisso il tuo stendardo, offerto al Sole l'ultima saetta, alfine avrò da te
forse il selvaggio inno che il paziente orgoglio aspetta, l'inno alla mia vigilia e al mio
coraggio. L'ultima canzone Ah, non dieci canzoni, dieci navi d'acciaio martellate con
l'istessa forza d'amore, o Patria, dimandavi, e non sillaba a sillaba commessa ma piastra
a piastra ancor calda del maglio e in ciascuna impernata una promessa, e già pronte su
gli unti scali, al taglio delle trinche, le dieci in armamento com'è già pronto il tuo
Contrammiraglio. Ahimè, non ho se non il mio tormento e il mio canto. L'oblìo breve è
finito, e nell'oscuro cuore io mi sgomento; ché oggi sono simile al ferito lontano che si
sveglia al limitare del gran Deserto e vede l'infinito silenzio sul suo sangue palpitare
di stelle e in lui remoto come il cielo il vólto delle sue cose più care e tutta la sua
vita senza velo, quasi nel vetro della notte inscritta, e l'anima chiarita nel suo gelo
come una gemma rigida ed invitta che più non muta forma né s'arrende, e la vittoria pari
alla sconfitta. Non apprese negli anni ciò che apprende nell'attimo. S'irraggia mentre
agghiada. E la notte lo fascia di sue bende. E nel cavo degli occhi ha la rugiada, non le
lacrime, e qualche gran d'arena nella man che non stringe più la spada. Tutto è tacito e
puro. Non balena, non albeggia. In un sol chiarore eguale spazia la solitudine serena.
Scende dal cielo e dalla terra sale la stessa luce: tal nel cielo Sirio qual nella piaga
l'anima immortale. Mi risveglio io così, dopo il delirio dell'improvvisa primavera, solo
con la mia vita, ahimè, senza martirio cruento, nella notte del mio duolo antico e nel
silenzio delle stelle infauste, inerte su lo stranio suolo. E nelle vene che parean
novelle m'incresce il vano sangue non versato e la febbre che aggrava il polso imbelle. O
mie canzoni, di qual grande affiato piene sembraste nella prima ressa quando ogni mio
pensier balzava armato! A ciascuna di voi con indefessa vigilia diedi vólto d'eroina,
d'aquila penne, ugne di leonessa. Sì travagliosa era la mia fucina, era l'angoscia
dell'amor sì forte, che più non mi dolea nel cuor la spina né più da sera battere alle
porte udivo il mio carnefice sagace che de' miei sonni fa torbida morte, ma sol ruggire
udivo la fornace imperterrita, e come alla battaglia era la fronte all'opera pugnace, e
vedevo di là dalla muraglia la notte costellata d'occhi ardenti, d'occhi fraterni. «Su,
fuoco, travaglia! Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti, con la Vittoria a gara!» E le
sorelle, ancor rosse, partivano nei vènti quando trascoloravano le stelle sul disperato
Ocèano, il selvaggio stridendo annunciatore di procelle per la deserta landa; e al gran
viaggio l'anima tutta era seguace, e sola teneva l'ombra il pallido rivaggio. O
lontananza, che dalla parola eri abolita come inane cura, or sembri nella notte di viola
spanderti senza fine, di pianura in pianura, di monte in monte, d'acque in acque. Il mio
dolor non ti misura. L'ululo dell'Ocèano si tacque, il vento cadde. Dal silenzio strano
il notturno carnefice rinacque. Nessun m'ode. Son simile al lontano ferito che si sveglia
al limitare del gran Deserto e vede il ciel lontano sul suo gelo supino palpitare di
stelle e ascolta sempre più remoto il pianto delle sue cose più care. Non ti cantai, o
mio fratello ignoto? non chiesi il nome tuo perché nel mio canto risuoni? Solo sei,
devoto a morte, già fasciato dall'oblìo perenne, profondato nello stagno del sangue; e
non avrai tomba. Foss'io per te come colui che accorre al lagno del caduto, là dove più
tremenda è la strage, e si carica il compagno su l'òmero a scamparlo dall'orrenda
vendetta del mutilatore e arriva nell'altra vita all'orlo della tenda! Sembrami, ignoto,
ch'io ti sopravviva per un castigo oscuro e ch'io, non ombra né uomo, in vano erri per
questa riva. Il vento cadde. Nella notte ingombra di neri crini è il soffio di Medusa. A
quando a quando il mio cavallo aombra, sosta, soffia, ricalcitra, ricusa come se non dai
tronchi morti fosse la valle tra le dune alte preclusa ma da mucchio d'uccisi e l'orme
rosse nella bassura dessero bagliore. Talvolta il passo nelle sabbie smosse è come un
tonfo sordo. Il tetro odore che lascia la marea su le scoperte spiagge de' naufraghi è
come l'odore della putredine. Il bacino è inerte come l'Averno, sparso d'errabonde fiamme
che or sì or no schiarano incerte larve dentro le barche o per le sponde, e pare che ogni
fiamma s'incolonni nell'abisso. Ora tutto si confonde e m'illude. Latrare i cani insonni,
presso e lontano, odo per la malvagia landa. Ascolto. Son forse quei di Fonni? Sono i
mastini della mia Barbagia? È la muta di guerra? A paio a paio ardere vedo i loro occhi
di bragia. Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio: non ha che l'ossa del viso
disfatte. Il buon Demurtas medica il carnaio. Azzanna! Azzanna! Dove si combatte? Muta di
guerra, trovami la pesta nel sabbione, pe' rovi e per le fratte. Ma non latrare, ché
stanotte è gesta di silenzio, vittoria senza grida, gloria tacita. Il cuore me l'attesta.
Razza del Monte Spada, siimi guida, innanzi al mio cavallo che paventa. Io cerco il fuoco
o il ferro che m'uccida. Dove si muore? Un'anima fermenta nella notte, più libera
dell'aria. Tutto è grande. La luna s'arroventa occidua su l'altura solitaria, simile a
falce sopra grande incude. Tutto è sogno. La landa originaria verso il sogno propaga le
sue nude onde, come il Deserto senza strade. L'asfodelo letèo vi si dischiude come
lungh'essi i talami dell'Ade. L'asfodelo si lacera ed aulisce sotto lo schianto di colui
che cade. Or più la pesta si profonda. Strisce di nero sangue rigano il cammino. Tale è
il silenzio, che vi si scolpisce l'evento come in un rigor divino. Il cielo è sgombro.
Solo vi s'intaglia l'indomito adamante del Destino. Non rombo, non fragore di battaglia,
non urlo di dolore. Ma chi muove per la gran notte, e la gran notte eguaglia? È la
schiera quadrata, che va dove l'Eroe la riconduce. Ha seppellito a Tobras i suoi morti. Ha
visto nuove stelle sorgere a lei dall'infinito. Ha represso il singulto del morente, ha
soffocato il lagno del ferito. Col ghiado illude la sua sete ardente. Il mulo che portava
l'acqua, porta il carico di sangue. Le cruente some non hanno un gemito. La scorta è un
solo ferro che respira. Il duce non chiama, non comanda, non esorta. Cavalca innanzi. Ha
seco la sua luce. Ha seco l'alba nei deserti bui. Quando laggiù gridava «A me!» nel
truce attimo, la sua gente era con lui. S'egli cavalchi al limite del mondo, la sua gente
in silenzio andrà con lui. In sommo della duna, sul profondo cielo, è veduto sorgere
dagli occhi riversi del soldato moribondo. E quegli a cui si piegano i ginocchi riprende
la sua lena su per l'erta sinché l'arso polmone non gli sbocchi. Taciturna così per la
deserta notte s'avanza la quadrata schiera, con i suoi segni, verso l'alba certa, simile
al vóto d'una primavera sacra che salga verso un fato augusto con l'Eroe primogenito in
cui spera. Così, divina Italia, sotto il giusto tuo sole o nelle tenebre, munita e cauta,
col palladio su l'affusto, andar ti veggo verso la tua vita nuova, e del tuo silenzio far
vigore, e far grandezza d'ogni tua ferita. Nella mia notte, sopra il mio dolore, questa
suprema imagine si spande. Chiudila nella forza del tuo cuore. Non n'ebbe la tua guerra di
più grande. NOTE AL LIBRO DI MEROPE La canzone d'oltremare Sono comento al primo verso i
Canti della morte e della gloria, i Canti della ricordanza e dell'aspettazione, il Canto
augurale per la nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi publicato or è
dieci anni non invano. Rumia è una corrente di Tripolitania, che passa per antichi
oliveti. Lebda è la romana Leptis Magna ove nacque l'imperatore Lucio Settimio Severo;
che in Egitto involò i libri sacri e fece suggellare la tomba del Macedone perché niuno
dopo di lui vi discendesse. Nella terra di Bengasi, al Gioh, ove si giunge a traverso un
deserto d'argilla, è la caverna che chiude la sorgente del Lete, secondo la tradizione,
in vicinanza dei luoghi ove fiorirono gli orti delle Esperidi. In onore della sposa di
Tolomeo Evergete, di colei che fece l'offerta della mirabile capellatura assunta tra le
costellazioni, la terra s'ebbe il nome di Berenice. In un codice già strozziano, ora
magliabechiano, si trovano le Sante Parole che si dicono in galea; così cominciano:
Dienai' e 'l Santo Sepolcro; Dienai' e 'l Santo Sepolcro; Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
Dienai' e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del
Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra; Dienai' - e l'Agniol san Michele;
Dienai' - e l'Agniol san Gabriello; Dienai' - e l'Agniol san Raffaello; Dienai' - e san
Giovanni Batista e 'l Vangelista; Dienai' - e san Piero e san Paolo; Dienai' - e
l'Appostol san Jacomo; con quel che segue. La canzone del sangue Il Cìntraco era in
Genova republicana un banditore del popolo; e su l'anima del popolo giurava in parlamento.
Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco. Il Catino
ottagonale, creduto di smeraldo - che Guglielmo Embriaco recò a Genova dal conquisto di
Cesarea (1101) - è, secondo la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d'Arimatea
raccolse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato
dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l'espugnatore genovese
lo rinvenne tra le prede nella città siriaca. Guglielmo, soprannominato Caputmallii,
aveva il comando della spedizione navale partita dal porto di Genova nell'agosto del 1100.
Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore eccellente di torri ossidionali e
di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell'aprile del 1101, la vigilia
della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa dopo avere inseguito uno stuolo
di quaranta galee d'Egitto, e come da Caifa navigassero a Giaffa accolti festosamente dal
re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all'espugnazione di
Arsuf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Cesarea trassero il
naviglio in secco, istrutti dall'Embrìaco armarono macchine murali, poggiarono alle mura
le antenne, diedero la scalata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono
la ricchissima preda, tornarono in patria con la Reliquia e con la gloria. Già quel
medesimo Embrìaco, insieme con un Primo suo consanguineo, mentre Gottifrè di Buglione
era all'assedio di Gerusalemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste
aveva distrutte per non poter far fronte all'armata saracena d'Ascalona, indi aveva
trasportato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di
percossa e di assalto. Nell'impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell'esercito
genovese. S'ebbe Genova la istituzion romana dei Consoli prima d'ogni altra città (1056).
Entravano essi in officio il dì di Purificazione. Dipendeva l'Embrìaco, nella detta
impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di
navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta
di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la
nave e di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contraeva
l'obbligo dell'obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intorno al 1100 la
Compagna divenne un'associazione stabile e serrò l'intera cittadinanza in potentissimo
cemento. Per calendimaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re
d'Arborea tenuto per cittadino e vassallo del Comune. Preziosissimo sempre tenne il Comune
nel Tesoro di San Lorenzo il Sacro Catino. Ed è singolare, nella storia delle antiche
Compere, quell'assegnazione che fu detta la Compera del Cardinale pel recupero del Sacro
Catino (Compera Cardinalis pro recuperatione sacrae Parasidis), originata da un contratto
che il 16 ottobre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipulò fra il
Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardinale in
prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d'oro, contro il pegno della sacra
scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune
a riscattare la divina Reliquia assegnava al Fieschi luoghi 95 con un provento per ogni
luogo e v'aggiungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia. L'impresa di
Filippo Doria su Tripoli è narrata dall'annalista ligure Giorgio Stella, dal fiorentino
Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita
perspicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Villani «come i
Genovesi appostarono Tripoli, come la presero, come la venderono» è mirabile di colore e
di freschezza. Nella giornata di Curzola, Lamba Doria - ch'era per ardere sessantasei
galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incendio rosseggiare il suo cielo e i
suoi marmi specchianti - afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall'alto
della poppa lo scagliò nell'Adriatico gridando: «Compagni, il mio figliuolo è morto ma
ei vive in cielo. Non ci contristiamo d'una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il
luogo della vittoria». Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l'urna funebre
in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che
fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta.
Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d'un'armatella di soccorso
contro Alfonso d'Aragona, fu lo stupendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella
quale, pur essendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo
accorgimento che sconfisse l'armata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il
Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d'Aragona, il re di Navarra, il gran mastro di
Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte
di Fondi e cento tra principi o signori d'Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435). Nella
lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria - trascritta dal Federici sul testo
conservato presso Marco Antonio Lomellino e pubblicata dal Belgrano - egli racconta:
«Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirando le loro navi
addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carina». La canzone del Sacramento
L'argomento di questa canzone è tratto da un carme d'ignoto autore forse pisano,
intitolato Carmen in victoria Pisanorum, che narra con un misto di storia e di leggenda
l'impresa compiuta sopra il re zirita Temim, detto Timino, da una lega di Pisani, di
Genovesi, di Amalfitani e d'altri marinai dello stesso mare: cioè da una vera e propria
lega tirrena formata a muovere una guerra religiosa che fu il preludio delle Crociate.
Conduceva i Pisani il console Uguccione Visconti, che aveva seco il figliuolo Ugo,
bellissimo e arditissimo giovine - omnium pulcherrimus - il quale nella fazione perse la
vita. Conducevano i Genovesi un Lamberto e un Gandolfo. Molto era il naviglio e bene
armato. I Cristiani espugnarono Pantelleria e mossero a Mehedia - la Màdia del poeta
pisano, l'Alamandia delle Istorie, la Dilmazia della Cronaca -; ed era il dì 6 d'agosto
del 1088, «lo die di Santo Sisto», il giorno in cui pareva che per fato i Pisani
principiassero o terminassero le loro imprese. E «per forza cavonno di mani delli
Saracini Affrica e Dilmazia e più terre di Barbaria» come dice il buon Ranieri Sardo.
Era la città di Timino lontana da Tunisi novantaquattro miglia a scirocco, luogo
fortissimo per natura, sopra rocce inespugnabili dentro il mare congiunte alla terra da un
istmo sottile, con un porto sinuoso. Un'alta muraglia, un fosso, sette torri e un mastio
la difendevano. Il re - secondo narra l'Anonimo - nutriva nei serragli gran numero di
leoni. Prima dell'assalto, il Vescovo celebrò l'ufficio divino; arringò dal cassero i
combattenti, e diede l'assoluzione sacramentale. Questo è il momento epico della canzone.
Soldati e marinai, rinnovando l'usanza dei Cristiani primitivi nel tempo delle
persecuzioni, si distribuirono a vicenda la sua santa Eucaristia. Et communicant vicissim
Christi Eucharistiam. Poi strinsero l'assedio, ebbero la città, liberarono gli schiavi
cristiani, smantellarono la ròcca, fecero gran bottino, ed imposero a Temim una grossa
indennità di guerra e l'esenzione delle imposte per le genti di mare. A chiarire
l'allusione di talun verso, giova ricordare che i Pisani da soli assalirono i Saraceni
d'Africa nel 1035 e presero la città di Bona. Nel 1063, nel giorno di Santo Agapito, si
presentarono dinanzi al porto di Palermo «che era pieno di Saracini», ruppero la catena
e s'impadronirono di navi cariche. «E dello tezoro che vi preseno, ordinonno di fare lo
Duomo Sanctae Mariae, e lo vescovado.» Non avevano essi ancor fatta la guerra balearica,
ma più volte avevan certo predato navi nelle acque di Maiorca e convertito il bottino in
pietre da murare. «Avendo trovate due galere vicine all'isola di Maiorica e di Minorica,
cariche di mercanzia, ed una nave ricchissima dei Mori di Granata, le presero e le
condussero in Pisa...» San Pietro, venendo d'Antiochia, approdò alla bocca dell'Arno e
vi edificò la basilica che oggi si chiama di San Pietro a Grado, detta ad gradus arnenses
dai gradi di marmo che scendevano nel mare. In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo
riedificata da Roberto Guiscardo, è una porta di bronzo lavorata a Costantinopoli e
donata da Landolfo Butromile e dalla sua donna. Ora mancano a tutte le figure di rilievo i
vólti e le mani d'argento. Quivi anche è la tomba di Sigilgaita, della maschia sorella
di Gisolfo, per cui il Guiscardo ripudiò la sua prima moglie Alberada. Più d'una volta
Sigilgaita combatté su le navi a fianco del Normanno contro i Greci. Gli Amalfitani
presero ad introdurre le merci d'Occidente nella Siria e nell'Egitto prima d'ogni altro
popolo maritimo. Ottennero dovunque firmani che loro accordavano libertà di traffico e di
transito. E dovunque stabilirono fondachi, case di commercio, chiese, ospizii. Guglielmo
di Tiro nella sua Historia de Rebus gestis in partibus transmarinis narra come gli
Amalfitani edificassero in Terrasanta la prima chiesa sotto il vocabolo di Santa Maria
Latina. «E quivi era un ospizio di poveri, e in esso una cappella chiamata Santo Giovanni
Elemosinario. E quivi Santo Giovanni fu patriarca d'Alessandria.» La chiesa fu costruita
tra gli anni di Nostro Signore 1014 e 1023, per un firmano del soldan d'Egitto. Il qual
firmano è oggi custodito nel convento dei Francescani di Gerusalemme. Il luogo era quel
medesimo ove, più di due secoli innanzi, Carlomagno aveva fondato il suo ospizio, a un
trar di pietra del Tempio del Santo Sepolcro. Pantaleone Mauro è da molti ritenuto come
il primo console della Colonia amalfitana in Costantinopoli. La cattedrale di Amalfi ebbe
le sue porte di bronzo dai Mauri come Salerno dal Butromile. Una iscrizione in lettere
d'argento sopra una d'esse dice: «Hoc opus fieri jussit pro redemptione animae suae
Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Maurone Comite». La canzone dei trofei
Tersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsanà, Tersanà, Tersaia. Dice
la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la
Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al
Capitolo lo terreno assegnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del
Camposanto d'Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello
luogo». I Pisani, secondo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del
mare, dove pareva a loro che consistesse ogni riputazione e onore. Perciò fu proposto nel
Consiglio che si edificasse un arsenale maggiore; ed essendosi vinto il partito, vi si
dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pisani,
lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con archi sessanta (come scrive
Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua
sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual
comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta. Chìnzica e Ponte sono due quartieri di
Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi
d'Oltrarno rimasti rinchiusi nell'ultimo cerchio della città. Il cronista: «Gli Anziani
mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e
cavalieri...». A una parete del Camposanto, dalla parte d'occidente, sono appese le
catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a
soldo del Comune di Firenze... «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra
Matteo Villani, «e quelle, carichi d'esse due carra, mandarono a Firenze...» Le quali
furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l'Italia risorse nazione libera.
Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patrono dei Pisani, dipinte su
le vaste pareti del Camposanto da Andrea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il
Cappellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella. Le galere pisane, condotte
dall'arcivescovo Ubaldo dei Lanfranchi, tornarono dall'assedio di Tolemaide cariche della
terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu
sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti. Dell'impresa
dell'arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recupero di Gerusalemme, l'antichissimo
Annalista nominato Marangone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini
papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusalem de manibus paganorum profectus
est. Quorum rector et ductor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit...». L'Ordine
dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosimo de' Medici. E il primo di
febbraio del 1562 una bolla pontificia sanciva l'istituzione, concedendo amplissimi
privilegi per coloro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guardia del
Mediterraneo» ne facessero parte. Sede dell'Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di
Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e
la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme
conquistate su i Barbareschi. In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a
destra dell'altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e
l'altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi
all'Apostolo, e l'iscrizione dice: Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis, De Procida,
dici meruit quae gemma Salerni. Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande
Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto
Guiscardo. Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant'Erasmo, il vessillo inviato da Pio V a
Don Giovanni d'Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo
della Santa Lega. Il pontefice inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non
nell'ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gaetani, Don Giovanni
dopo la vittoria passando per Gaeta depose il vessillo nel Vescovado in onore del suo
patrono Sant'Erasmo, assolvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una
custodia e divenne il più prezioso ornamento dell'altar maggiore. Anche una vecchia
cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, figliuol di Carlo re di
Spagna, approdasse a Gaeta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e
com'egli offerisse a Sant'Erasmo protettore e martire il vessillo ch'egli aveva issato a
poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta
della Sardegna. Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del
terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di
Alì, quando le galere dei due capitani s'investirono. Il bassà, dal principio alla fine
della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi riscaldate
si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infaticabili archibusieri cristiani
avevano il vantaggio. Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la
più vicina all'Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele
Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra
quei quaranta marinai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro
pezzi da sbarco l'altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo
cannone per l'ottantacinquesimo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli
traversò l'apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Prima di
piegarsi, lanciò contro il nemico nell'ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi
uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli
uomini, l'ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il
braccio sinistro fiaccato gli penzolava su l'anca. Nessuno osò trattenerlo né
sorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo cannone, col braccio valido aggiustò la
mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per riconoscere l'effetto del
colpo, senza più colore di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di
schianto. Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della
Vittorio Emanuele, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e
pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni.
Carloforte è una città fortificata dell'isola di San Pietro, edificata in pendio su i
contrafforti della Guardia dei Mori. L'isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta,
dopo le feroci devastazioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d'un
patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell'isola
coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi molestavano senza tregua. Il genovese
Agostino Tagliafico sbarcò nell'isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l'altura
la fortezza di Carloforte, che fu guardata da una piccola guarnigione. La colonia per
alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in
culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra
senza sospetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che
misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e
condussero in schiavitù un migliaio d'infelici; ché i più animosi erano in alto mare
occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di
Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono riscattati. E Carloforte allora fu munita di mura,
fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d'acqua. L'Arco
di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Mamertino e i Rostri, tra il Lapis
Niger e l'Ombelico dell'Urbe, fu eretto all'Imperatore nell'anno 203 dopo Cristo; e
commemora anche taluna delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra
marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza
nazionale dovrebbe ricoprire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile,
penetrò nel porto angusto, s'imbozzò a breve gittata dalla più potente difesa, innanzi
alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore,
destando l'ammirazione degli stessi nemici. Gli mentirono i Fati, d'innanzi a Lissa
tonante. Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tutta vermiglia di sangue, sul
ponte ingombro di corpi mùtili Egli stette impavido incolume solo nel tragico ardore, non
parve compirsi il prodigio per un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerra futura, a
una strage più vasta, a una gloria più vasta? Odi navali (1892)
La canzone della Diana
La Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Campo Verano, è nel luogo
dell'antica Porta Tiburtina. L'arco di travertino fu costruito, come dichiarano le
iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti
delle acque Giulia Tepula e Marcia. Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra
arborense, in quello stesso circondario di Oristano ove nel cratere del vulcano estinto
sta Santu Lussurgiu, l'ardua città posta «fra il Logudoro e l'Arborea, tra i sepolcreti
giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di basalto e aperta
soltanto a ostro-libeccio, al soffio dell'Africa», là dove Corrado Brando trovò Rudu,
homine de abbastu, e l'ebbe compagno intrepido «per seguire la vocazione d'oltremare».
Il vituperato eroe aveva «una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa». Egli
diceva, nel suo sogno di morituro: «Io potrei forse divenire un costruttore di città su
terre di conquista, ritrovare quell'architettura coloniale che i Romani piantarono
nell'Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio
di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nòmadi, ecco sorgere di sùbito
una città marziale, alzata dalle coorti dei veterani!» Può essere che, per assistere
alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meraviglioso. «Chi narrerà
al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a
una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.»
La canzone d'Elena di Francia
Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell'Orsa minore, i sette trioni degli antichi;
perché esse scorgono e dirigono il loro cammino nella notte. Tragiche favole si formarono
intorno alle Pleiadi. Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli
antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi
nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il
nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella
che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch'ella si nasconda per essersi
congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale. San Luigi re di Francia fece su navi
genovesi il primo e il secondo passaggio d'oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta
dell'esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo
Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza
della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di
abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i
Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non
partire. «Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...» La scena è
ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo
noi, Dama?» risposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame,
comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di
comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste
ville...» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono. Nell'avanzata verso Mansura,
l'esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s'accresceva il numero
degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano
orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e
di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars
de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à
nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives...» Il Siniscalco narra
come l'orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai
malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli
urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d'oir
braire les gens parmi l'ost ausquiex l'on copoit la char morte; car il bréoient comme
femmes qui traveillent d'enfant.» I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di
toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l'esempio e li portava e li seppelliva con le
sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i
morti, i Vescovi nell'officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto
il Re imitarli. «Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon
roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.» Mentre Roberto
d'Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e
vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle
trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante
di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d'oro in testa, con in pugno una spada
alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des
épaules en haut, un haume d'or à son chef une épée d'Allemagne en sa main.» Quando il
conte d'Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal
getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori.
La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa.
Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come
si lamentasse d'esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime
ma sol qualche gocciola ad irrorare l'aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit
dévotement: O sire Dieux, je n'ose requerre fontaine de lermes: ançois me souffisissent
petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit
courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et
très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.» Durante l'agonia, dopo il
secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal
letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già
morto sul vascello. Carlo d'Angiò venne allora di Sicilia «con grande navilio e con
molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldato di
Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani
l'Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale)
Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si
mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane.
Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi
miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il
re novello di Francia Filippo l'Ardito con sua moglie Isabella d'Aragona e i superstiti
della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e
s'internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da
Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La
giovane regina, benché incinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi
sdrucciolevoli («Praesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la
bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell'acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta
in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu
confracta, laesus fuit uterus...» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e
rese l'anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come
le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato
in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto
nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione
glorifica» presso l'altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura.
Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall'acume di Nicola Arnone e illustrato
da uno studio eccellente di Emilio Bertaux. Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d'Angiò
nel canto settimo del Purgatorio. Anche al Nasuto vanno mie parole... E, poco innanzi:
Quel che par sì membruto e che s'accorda, cantando, con colui dal maschio naso... E
Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande
naso...». Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma
della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d'argento». E, a
proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e
fiordaliso d'oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re
di Francia». L'allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata
dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo
inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell'Ordine. Il
capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egidio e
mai non s'erano veduti. Et sança parlare si cognobbono insieme. Il San Luigi giottesco
tiene in una mano lo scettro e nell'altra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto
azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi. Facile è riconoscere il luogo
del verso di Dante: Così è germinato questo fiore. L'altro verso e l'emistichio son
derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel
passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato
segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri
sibillini.
La canzone dei Dardanelli
Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel
porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale
navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un
immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e
cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello
specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo
ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era
immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai
Dardanelli». L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro
l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche
di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di
Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I
quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore
assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio;
cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al
Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il
sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di
colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li
riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura,
propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde,
cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere.
Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso
dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la
moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia,
presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e
lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto
il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la
galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno
nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento
persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con
le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che,
dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi
turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle
mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico. Allora
Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli
avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino
al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva,
nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non
poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi
superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach. Verso sera, Gabriele Trevisano e
Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di
trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena. Dopo la terza delle
Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati
del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e
turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova
non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica
d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso. Costantino Paleologo, il
fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine,
condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con
uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un
Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri
nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu
perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre
giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro
il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle
mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente,
l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele
Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli
tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni.
Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo,
riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le
aquile imperiali. I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì
trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla
notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non
venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le
basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva
fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore! Il marinaio barese Vito de Tullio fu
ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la
compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò
in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a
Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca
gettata dalla nave Amalfi. Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza
Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole
«Custos iustitiae». Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il
possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto
a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la
quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non
soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la
costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi,
per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo,
con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili
marinai. Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti
si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e
principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315
re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio,
Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In
compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare
il trono di Costantinopoli. Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza
disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli
furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio,
egli ne uccidesse più di diecimila. Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere
moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro
patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai
Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e
cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345. Egli può esser considerato
come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca
che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le
lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII
secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano
essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di
Focea. Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella
primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di
rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte
di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i
capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni
ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova,
riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio
(merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di
partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle
nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società
chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta,
dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani. Il nome
di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e
dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei
Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e
assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro,
Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto,
Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo. Il commercio più importante e più
remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali
di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis». I
dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri
fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò
in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui
dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e
sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al
murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis. Nella evocazione del sublime
marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il
naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per
compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la
terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis,
all'audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle. I giovani
palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del
Canaris nella loro Villa Giulia. Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare,
meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse
neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve
concedessero all'autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli
vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina
della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le
pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima
guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la
sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue
galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche;
dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della
notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di
tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto
per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le
batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue
galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la
Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte
della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una
palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in
aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli
a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo
del calcese, lo fece cadere subito morto». Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il
destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello
perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le
più insigni del mare. La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu
sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli,
che, a detta dell'Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e
verso il suo Sovrano». Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le
suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla:
«Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del
cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.».
La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli
uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.
La canzone di Umberto Cagni
I tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita con le slitte dalla baia
di Teplitz la domenica 11 marzo 1900, rimasti con lui dopo il rinvio degli altri due
gruppi, furono Giuseppe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Courmayeur, e il marinaio
ligure Simone Canepa di Varazze. Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta
celerità sul ghiaccio dell'Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta
cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo migliore cinque miglia al giorno. Il
nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di continuo. «La mancanza
di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di
raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in queste marce e nel lavoro
d'accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella
massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo
maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno
nuovi ostacoli at nostro cammino. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido!
(domenica 18 marzo).» Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del
riattare le slitte, vide formarsi una vescica «all'estremità dell'indice della mano
destra, già congelatasi due altre volte». «L'indice della mano destra mi tormenta
continuamente da alcuni giorni, ma non lo scopro mai per timore d'infettarlo, e poiché a
nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno
del ritorno (mercoledì 11 aprile).» Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine
raggiunto dallo Scandinavo. «Il ghiaccio cigolava da tutte le parti e si incavalcava, e
rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si aprivano e ove altri si richiudevano
nuove dighe s'inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così
minaccioso. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spingevamo con la voce e
affannosamente aiutavamo or una slitta, or l'altra.» «Nei brevi riposi ci guardavamo
sorridendo, ma nessuno parlava; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere
l'incantesimo che ci conduceva alla vittoria...» Il dolore del dito lo tormentava sempre.
Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della
parte annerita. Per recidere l'ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici
comuni, impiegò quasi due ore. «Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è
scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.» Rinunziava a lavare la piaga
col sublimato «per risparmiare tempo e petrolio». Come più crescevano gli stenti e gli
impedimenti, più gli cresceva l'energia. «Mi sembra di avere una nuova grande energia
fisica, conseguenza forse di quella morale potentemente eccitata dal pericolo, dalla lotta
per la nostra conservazione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita:
dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che
l'Italia sappia che i suoi figli dalla lotta secolare, nuova per essi, escono con
onore...» Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del
Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico.
La canzone di Mario Bianco
Le due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Bartolomeo Colleoni, a quella
vergine Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall'arte di Giovan
Antonio Amadeo, dell'architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e
all'interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Silenzio i tre sonetti su Bergamo.
Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cinque Giornate la sua colonna di
prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò
alla difesa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo prigioniero del
Governo austriaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il generale Garibaldi, dando continue prove
di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d'altre
province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di
Krzykawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso. Così
egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi: «Il maschio Nullo a cavallo
oltre la barricata con la sua rossa torma, ferino e umano eroe, gran torso inserto nella
vasta groppa, centàurea possa, erto su la vampa come in un vol di criniere...». Paràlia
era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, trasportava la teoria a Delo. Mario
Bianco nacque in terra d'Abruzzi, a Fossacesia, nell'antica regione frentana. Quivi, sopra
un'altura querciosa che domina l'Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere,
così detta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio.
Insigne d'architettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia
religiosa e civile dell'Abruzzo chietino. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le
galèe di quella Quarta Crociata che doveva rinnovare l'egemonia italica nel bacino
orientale del Mediterraneo e fondare l'Impero latino. Nell'immenso spazio di mare, che la
vista abbraccia dall'altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le
isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di
Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fossero
trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi clamori
di giubilo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse. I marinai morti nello sbarco di
Bengasi furono sei: Gianni Muzzo di Gallipoli, Alfieri d'Alò e Giuseppe Carlini di
Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovanni de
Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco comandava due cannoni sbarcati a viva
forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle
spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all'assalto con grande impeto.
Mentre dirigeva il fuoco de' suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua
pistola, fu colpito da una palla all'inguine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto;
continuò ad animare i suoi marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme,
cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sabbia, con le gambe penzoloni nella fossa
d'una trincera dove un colpo d'una delle nostre mitragliatrici aveva abbattuto e ridotto
in orribile carname un mucchio di venti Arabi. La terzina che reca le parole: «Ricòrdati
ed aspetta» è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti
della morte e della gloria cominciando: «O Verità cinta di quercia, canta la tristezza
del popolo latino...» «La gloria fu» sono le prime parole del terzo sonetto, che
finisce con questi versi qui citati ad onore: «Alziamo gli Inni funebri, sul gregge
ignaro, alla Potenza che ci lascia, alla Bellezza che da noi s'esilia. Implacabile è il
Canto, e la sua legge. E però leva su, vinci l'ambascia, Anima mia. QUESTA È LA TUA
VIGILIA» E così comincia l'ode piena di presagio che prelude ai Canti della ricordanza e
dell'aspettazione: «Il sole declina fra i cieli e le tombe. Ovunque l'inane caligine
incombe. UDREMO SU L'ALBA SQUILLARE LE TROMBE? Ricòrdati e aspetta».
LIBRO QUINTO CANTI DELLA GUERRA LATINA
Ode pour la résurrection latine I. Quelle horreur et quelle mort et quelles beautés
nouvelles sont partout éparses dans la nuit? Quel vent prodigieux excite toutes les
flammes en travail dans le firmament latin? Le jour est proche! Le jour est proche! O mes
odes, filles rapides de la fureur et du feu, quel dieu, quel héros, quel homme
exalterons-nous au jour certain? Je ne suis plus en terre d'exil, je ne suis plus
l'étranger à la face blême, je ne suis plus le banni sans arme ni laurier. Un prodige
soudain me transfigure, une vertu maternelle me soulève et me porte. Je suis une offrande
d'amour, je suis un cri vers l'aurore, je suis un clairon de rescousse aux lèvres de la
race élue. II. Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle, je suis ivre d'amour et
d'épouvante. Il vient, Il vient le Seigneur invoqué. Il enflamme la nuit; et l'on
n'entend pas, dans le vertige du sang, le battement de sa force. Or, Il dit: «Qui donc
enverrai-je, ô annonciateur de choses saintes? Qui donc ira pour nous?». Je dis: «Me
voici. Envoyez-moi, Seigneur. Avec quel signe? pour quel pacte?». Je connais le signe, je
sais le pacte. J'obéis à son commandement et j'accomplis le vu de mon âme. Je
n'ai plus de chair ni d'os autour de mon âme haletante pour franchir les fleuves et les
monts. Déjà sur la borne milliaire, à la clarté des Pléiades, je lis le nom
ineffable. Et j'entends les chevaux des Dioscures hennir. III. J'entends sur l'antique
basalte, dans la mine d'Ostie, résonner le pas de Celle qui seule rompt l'incertitude du
combat. Vient elle du bois de Laurente? Va-t-elle vers la route des Tombeaux? Elle marche
le long des môles noyés, elle passe entre les deux pierres droites qui désignent la
Porte Marine. N'écoute-t-elle pas si la Nef chargée de la fortune de Rome fend de
nouveau la vase du fleuve blond? Les lauriers, autour de ses tempes, se hérissent et
brillent comme les fers des javelots; car elle sait de quelle herbe, bien plus âpre que
la verveine, faudra-t-il couronner la proue aiguë, et de quel sang, bien plus noir que
l'égorgement de la génisse sans tache, faudra-t-il teindre la poupe carrée. IV. O
Victoire, sauvage comme la cavale qui paît l'asphodèle dans le désert romain, jeune
comme Rome alors que la sombre aurore fut traversée par le vol des douze vautours, toi
que je vis sur l'aridité sublime bondir du roc d'Ardée et dans le bond resplendir toute
au soleil blanche comme la poitrine du héron, ô Désirable, si jamais seul et anxieux
j'interrogeai tes vestiges loin du peuple vêtu d'ignominie et de paix; si jamais à tes
autels j'apportai mon offrande tandis que sur tes palmes, comme sur une litière pourrie,
l'astuce et la peur, vaches baveuses, ruminaient le mensonge; si jamais en ton nom je
reprochai son opprobre à la Reine des Royaumes corrompue et polluée par les mains des
vieillards; si jamals je fus ivre de ton regard changeant, ô Vierge, accompagne mon
message, affermis ma voix! V. Car, ô Mâle, tel le fécial criait les noms des villes
surs et jurées en brandissant le javelot vermeil, tel à grande voix je crie,
par-dessus les sépulcres, où les os de nos morts s'émeuvent comme les racines au
printemps, je crie et j'invoque les deux noms divins, les plus hauts de la terre, jusqu'à
ce que le ciel entier s'enflamme de la double ardeur et que toutes les sources taries
rejaillissent et se mêlent en un seul torrent indomptable, je crie et j'invoque: «O
Italie! O France!». Et j'entends, par-dessus les sépulcres fendus et par-dessus tes
lauriers hérissés Victoire, le tonnerre des aigles qui se précipitent vers l'Est et de
toutes leurs serres déchirent la nuit. Le jour est proche! Voici le jour! VI. Voici ton
jour, voici ton heure, Italie; et, pour cette heure des années merveilleuses, la
plénitude de tes allégresses! L'ai-je annoncée avec les bûchers et avec les hymnes?
l'ai-je appelée dans la vigile et dans l'attente? l'ai-je hâtée par la rancune et par
l'amour? Les pieds graves du Destin se transmuent en ailes soudaines; et sur son front
marmoréen s'allume la flamme à deux cornes que portait le Libérateur au-devant du champ
couvert de rosée. C'est le signe! c'est le signe! Choisis d'être souveraine ou serve,
choisis de monter ou descendre, choisis de vivre ou périr. Je te montre le signe. Malheur
à toi si tu doutes, malheur à toi si tu hésites, malheur à toi si tu n'oses jeter le
dé. VII. Vae victis! Les quatre vents du monde soufflent la bataille, sur la mer où les
phares s'éteignent, sur le continent qui s'éclaire au fond des villes embrasées. Vae
victis! La force barbare nous appelle au combat sans merci. Comme la horde traînait dans
ses chariots couverts de peaux fraiches les concubines innombrables pour les rassasier de
carnage et les enivrer d'hydromel, ainsi elle amène toutes les hontes derrière ses
hommes comptés en bétail à deux pieds, pour qu'ils couchent avec toutes dans leur sang
épais qui est le rouge frère de la boue, tandis que le vautour à deux têtes, le
maître puant au double cou dénudé, pousse son cri lugubre et rejette la charogne mal
digérée. Vae victis! Souviens-toi de Mantoue. VIII. N'oublie pas les potences chargées
de tes martyrs, et cette corde inusable dont le Pendeur décrépit ceignit ses reins,
pieux cordelier du Gibet. N'oublie pas les mains lourdes de bagues que l'Autrichien fuyard
coupait en hâte aux poignets de tes femmes hurlantes. Qu'elles giflent l'Oint du
Spielberg, chaque nuit, dans ses rêves mornes, sur l'oreiller taché, jusqu'à l'heure du
trépas! Qu'elles se dressent contre sa prière, chaque matin, dans la maison de Dieu,
quand il fléchit ses vieux genoux, qui craquent comme le bois des fourches, pour recevoir
l'hostie pure sur sa langue empâtée! Souviens-toi. Je veux peser ma haine dans ta
balance. Je veux brûler ton cur, sans trêve, avec des mots pour brandons. IX. Je
te le dis, je ne te donnerai pas de trêve jusqu'à tant que mon souffle soit chaud entre
mes dents. Mon dieu m'a fait un front plus dur que leurs fronts. Les strophes vengeresses,
forgées pour l'infamie comme pour le fer qu'on chauffe au rouge pour flétrir la joue et
l'épaule du traître et du larron tu les laissas mutiler, en silence, par la main vile du
châtreur; et je bus en silence mes larmes, qui armèrent mon âme secrète d'une amertume
immortelle. Or, je te jure, par tes sources et tes fleuves, par tes trois mers et tes cinq
rivages, par tes enfants non conçus encore, par tes ancêtres non encore vengés, je te
jure que tu sculpteras avec l'acier froid chaque syllabe dans la pierre de Pola romaine
sur l'Adriatique reconquise au Lion. X. Ton jour est proche! Voici ton jour doré! Ta
sur se tient debout dans le soleil. Elle a vêtu sa robe guerrière de pourpre. Elle
a mis de doubles ailes à ses pieds nus. Lavée dans ses pleurs ardents, lavée dans son
sang amer, fleur sublime de la discorde, elle ne fut jamais si belle, aux jours mêmes de
ses royautés. De toutes ses plaies qui gouttent elle fait une rosée merveilleuse; avec
la multitude de ses maux elle rallume l'étoile de son matin! Sa volonté de vaincre, dans
ses yeux clairs luit comme la hache à deux tranchants. Elle est prête à chanter, comme
l'alouette, sur tous les sommets de la mort. Rassise, de ses mains infatigables, elle
tissera la toile du monde nouveau. Qui est contre elle, sinon le barbare? Et qui sera
près d'elle, sinon toi? XI. Nous sommes les nobles, nous sommes les élus; et nous
écraserons la horde hideuse. Nous combattrons, la face à la lumière. Nous sourirons
quand il faudra mourir. Car, pour les Latins, c'est l'heure sainte de la moisson et du
combat. O femmes, prenez les faucilles et moissonnez! Apprêtez le pain nouveau à la faim
nouvelle! Vos hommes frapperont fort, serrés comme les épis, dans la bataille, rang
contre rang, comme les blés drus sous le vent d'est. O Victoire, moissonneuse farouche,
je sens sur mon front, dans l'attente, la fraicheur du matin. Comme le prêtre de Mars aux
enfants de Lanuve, je dis: «Vous avez entendu ce qui plait au dieu. Hâtez votre heure,
obéissez, partez. Vous êtes la semence d'un nouveau monde. Et les aurores les plus
belles ne sont pas encor nées». 13 août 1914. Sur une image de la France croisée
peinte par Romaine Brooks I. Ont-ils haussé l'éponge âcre au fer de la lance contre sa
belle bouche ivre du Corps Très-Saint? La Croix sans Christ, qui souffre au-dessus de son
sein n'est que la double entaille acceptée en silence. Mais son il est plus clair
que la claire Provence, mais son cur est plus doux que le printemps messin. Elle
oint de sa douleur la force qui la ceint, elle noue à ses pieds percés la Patience. Et
le vent du combat et l'or du jeune jour et les avrils non vus et l'amour de l'amour et les
chants non chantés vivent dans son haleine La bandelette pure à son front est un feu
blanc qui conduit les morts. Et l'on voit sur la plaine tomber de son manteau la grande
ombre d'un dieu. II. O face de l'ardeur, ô pitié sans sommeil, courage qui jamais
n'écarte le calice, force qui fais avec tes chairs ton sacrifice et ta libation avec ton
sang vermeil! Sur quel bûcher, sous quel signe, pour quel réveil, à quel Avent ta foi
chantait dans le supplice? Plus haut que l'alouette à l'aube du solstice, on vit soudain
ton cur bondir vers le soleil. Car toute entière en toi lève la bonne race.
Là-bas, d'entre les neuf preux, sourit à ta grace mâle, par les barreaux de l'armet,
Duguesclin. Tu as communié, dans ta sainte vêture, sous l'espèce du sol. Mais,
couronné de lin, ton front semble souffrir d'une étoile future. III. France, France la
douce, entre les héroïnes bénie, amour du monde, ardente sous la croix comme aux murs
d'Antioche, alors que Godefroi sentait sous son camail la couronne d'épines, debout avec
ton Dieu comme au pont de Bouvines, dans ta gloire à genoux comme au champ de Rocroi,
neuve immortellement comme l'herbe qui croit aux bords de tes tombeaux, aux creux de tes
ruines, fraiche comme le jet de ton blanc peuplier, que demain tu sauras en guirlandes
plier pour les chants non chantés de ta jeune pléiade, ressuscitée en Christ, qui fait
de ton linceul gonfanon de lumière et cotte de croisade, «France, France, sans toi le
monde serait seul!». IV. Et voici le printemps de notre amour. Exulte dans ton sang et
jubile au bout de ta douleur, quand même tu n'aurais à cueillir d'autre fleur que le
héros jailli de la racine occulte. «Sonnerai l'olifant», dit l'Ancêtre. O tumulte de
tes chênes! O vent de l'immense clameur! Hauts sont tes puys, tes vaux profonds. On
meurt, on meurt, et chacun de tes morts dans ta beauté se sculpte. Entendez le signal,
combattants, combattants, âmes prises aux corps corame aux ceps le printemps, comme aux
poignets les fers, les bannières aux hampes. Roland le comte sonne; et tout en est
fumant, et en saigne sa bouche, en éclatent ses tempes «Frappez, Français, frappez!
C'est mon commandement!». 5 mai 1915.
Tre salmi per i nostri morti
I. 1. Or il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a
rompere. 2. Ma più non vedevamo i nostri segni, né v'era con noi profeta, né con noi
alcuno che sapesse fino a quando. 3. E s'udiva romore di moltitudine sopra l'alpe, simile
ad ànsito di schiere che s'accalcano, 4. il gran fumo dell'incorrotto sangue salendo
dalle vette e dalle valli su pe' cieli e su pe' secoli. 5. E, come allor che il sole balza
fuori dai monti nella sua possa, una voce sonò senza carne, che diceva: 6. «Finché non
sieno beati i tuoi morti, o Roma; finché non sien per te beati e santi coloro che avran
parte nella prima resurrezione». 7. E, come svola il brandello del panno dal corpo
dell'ucciso avvolto nella vampa dello scoppio, fuggì la mia pochezza nell'ardore. 8. E
respirai il respiro dei nostri morti, oltre la vita e oltre l'orizzonte, maschia speranza
alata; 9. ché la mia speranza era nell'ombra delle mie ali d'uomo, a sommo dello spazio
combattuto; 10. e non la piota né il sasso era quivi, da pontarvi il calcagno, da
stramazzarvi giù rovescio o prono, 11. non luogo di periglio misurato dalla statura, non
fosso cupo, né abbattuta d'alberi, né sacco, né palanca, né fascina, 12. non l'acre
cecità della battaglia in deserto sconvolto o su vulcano fragoroso; 13. ma tutto il
firmamento m'era, come all'aquila, regno e rapina, visione e verità, ricordanza e
promessa. 14. E, non più soma greve d'orgoglio ma rapida virtù senza peso, io vedeva
nella battaglia immensa il figliuolo e la madre, la terra e la creatura, 15. come una sola
volontà, come una sola bellezza, come una sola potenza, come un dolore solo, come una
gloria sola. 16. E rinascere udii nell'aereo cuore la parola antica e santa: «Cercate la
mia faccia». 17. Io cercai la tua faccia, o Patria. Con occhi mortali, con occhi
immortali, con le pupille della mia fronte breve e con lo sguardo dell'infinito genere, io
cercai la tua faccia, o Patria. 18. E dal ghiacciaio insino alla laguna, dalla rocca
dell'alpe insino alla landa petrosa, dal pascolo ch'è presso il fiume insino alla barena
su la bocca del fiume, dalla città che ingemma il monte insino alla città che addenta il
mare, 19. m'apparì la tua specie, mi splendette la tua forma, mi ricorse il tuo numero.
20. E nel mio petto, più fragile che la cèntina di pioppo entro il lino della mia ala
levigato, si precipitò un turbine d'amore senza schiantarlo. 21. «Il tuo testimonio è
nei vertici, o Patria, il tuo testimonio è nei luoghi sovrani; il tuo testimonio è nelle
pianure, il tuo testimonio è nell'umiltà. 22. Tu signoreggerai da un mare all'altro. I
campi distrutti tu li seminerai di seme eterno. Le città disfatte tu le riedificherai col
granito dell'alpe liberata. 23. Tu spezzi le mascelle del nemico e gli fai gittar la preda
di tra i denti. Tu rompi a una a una tutte le sue chiusure, e tu metti in ruina le sue
fortezze. 24. Condotte come mandre, spartite come branchi sono le sue schiere. Le tue son
come sacrificii di giustizia, son come olocausti di purità, son come offerte da ardere
interamente. 25. Una corona brilla sopra esse, come sopra la chioma delle vergini. Il
sorriso precede la prodezza, e riappare dopo l'agonia. La morte è chiara come una
vittoria. 26. O Patria, i tuoi primogeniti han segnato il tuo patto, e i tuoi ultimi nati
hanno appreso il verbo che tu hai comandato. Non nascondere mai più da loro il vólto
tuo.» 27. «Cercate la mia faccia vivente» comandò nel turbine il tuo verbo. «Cercate
la mia faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito.» 28. E i geli e le acque,
e le rupi e i macigni, e le sabbie e le erbe, e le selve e le mura, e tutte le cose
terrestri, sotto il vento della rapidità, si trasmutavano. 29. E io vidi la tua faccia di
sangue e di sudore, di passione e di anelito. Vidi te fatta carne, fatta come la carne dei
tuoi figli; 30. ché intrisa t'avea da capo col sudore e col sangue la Guerra, rimenata ti
avea come pasta di frumento, ricresciuta come farina lievitata. 31. Tal donna rude sopra
l'asse calca il novo pane con le pugna e co' ginocchi a farlo più tegnente, tutta di vene
enfiata come nell'ira; e dietro a lei rugge la fiamma chiusa. 32. Rimescolata area la tua
sostanza con la sostanza de' tuoi figli la Guerra; ricacciati i tuoi figli nella tua
profondità. Ecco, e i tuoi morti erano i tuoi nati! 33. Ecco, e la faccia de' tuoi morti
era come la tua faccia vivente, o Patria! E quanto più si combatteva, tanto eri più
bella. E quanto più si moriva, tanto eri più dritta. 34. Si combatteva anche dal cielo,
sopra i luoghi eccelsi delle nuvole. Le tue stelle combattevano dai lor cerchi, o Italia?
Non gli angeli versavano su la terra e sul mare le coppe ferree dell'ira di Dio, ma gli
uomini armati d'ali senza penne. 35. O rombo dell'alta rapina! I fratelli di giù levavano
le ciglia divampate dal fuoco e l'anima ansietata d'altezza. 36. Ma presi erano nella
terra, tenuti erano dalla terra, profondati in essa, intrisi con essa, carname con zolle,
ossame con selci. 37. E morivano. E come i corpi loro formavano il tuo corpo, così gli
spiriti loro facevano il tuo fiato, o Patria, il tuo fiato possente. 38. E gli uomini
alati, sospesi nel mezzo del cielo come in sommo d'un'anima immensa, sentirono l'ala di
ferzi e di verghe vivere come se l'agitasse con l'òmero divino la datrice di quercia, la
datrice di lauro. 39. E tu dicevi: «Or chi mi condurrà nella città fedele? chi mi
menerà insino al mio bel colle di San Giusto? chi mi guiderà, lungo le colonne e lungo i
secoli, a cogliere la palma che m'aspetta?». 40. I morti, Italia, i tuoi morti. 41. E tu
dicevi: «Or chi mi reca le dolci mie città della marina come Eufrasio il martire con le
mani velate offre il suo tempio di Parenzo a Dio?». 42. I morti, Italia, i tuoi morti.
43. E tu dicevi: «Con chi passerò io per la Porta Gèmina e sotto l'Arco dei Sergi e tra
le sei colonne di Cesare Augusto, nella mia sacra Pola? con chi m'affaccerò sul mare, per
gli ordini del bianco Anfiteatro, a noverar le navi imprigionate?». 44. Con Roma, o
Italia, con Roma e con i tuoi morti. 45. E tu dicevi: «Io trionferò. Io romperò il
nemico nella mia terra e io lo calcherò sopra i miei monti. Io spartirò le Giudicarie,
misurerò la valle dell'Isonzo, riscolpirò le rosse Dolomiti. 46. Mia nell'alpe è la
città che Dante cuopre; mia sul golfo quella dove approda, sceso dall'alpe, il giovinetto
sanguinoso, vittima integra e novo pegno certo. 47. Mie tutte le città del mio
linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse. 48.
Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Marina sta la mia fede, ed in Santa
Anastasia arde il mio vóto. Grida, o Porta! Ruggi, o città, coi tuoi Leoni! A te darò
la stella mattutina. 49. A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi
stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le
mie navi. Rendimi la gloria». 50. E allora udita fu dall'alto una voce senza carne, che
diceva: «Beati i morti». Fu intesa una voce annunziare: «Beati quelli che per te
morranno».
II.
1. In qual pianura, in qual chiostra di rocce, lungo quale fiumana, tra quali torrenti,
sopra quale carnaio senza croci, in vista di qual città fumante, sarà oggi celebrato il
sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo? 2. L'obice romba sul Monte Nero, il mortaio
tuona sul Pedimonte. Tutto il Carso è fragore di ruina. Nella valle del Fella si
combatte, ed in Plava selvosa; si combatte al traghetto di Canale, e nella conca di Plezzo
dalle quattro gole. 3. Sono scrollate le guardie di Tolmino. Gradisca croscia, gialla di
foglie e d'ira; rugghia l'Isonzo alle chiuse di Sagrado; e Monfalcone dall'artiglio
veneto, co' suoi scafi di ferro su le travi nere, arde in vista di Duino folgorato, rogo
navale. 4. O Vescovo castrense, i tuoi fanti hanno parato il legno dell'altare con le
coperte brune ove giacquero a notte entro la fossa, ove all'alba taluno sanguinò. Qualche
grumo è forse tra le pieghe. Ma la tovaglia è candida, come la cima della Dolomite nel
cielo eterno. 5. E v'è silenzio come in quell'altezza, silenzio inviolabile. 6. O Vescovo
di Dio, primate della strage, oggi la tua preghiera ha per guglie le baionette in asta,
per istromenti le batterie coperte, che s'intonano in coro come il saltero e il flauto,
come il cembalo e la ceteca nell'alleluia. 7. Inginocchiate sono le tue milizie, sotto
l'irta selva dei ferri chine le teste floride, chine le facce imberbi. Irta ed aguzza è
la preghiera, e senza canto. 8. L'Operaia terribile trascorre dal primo all'ultimo e
dall'ultimo al primo. Segna gli eletti. Metà ne prende. Tutti anche li prende. La
lanugine brilla su le gote come su i pioppi l'oro dell'autunno. 9. Bello è taluno, come
un iddio del Fòro. E dice il sacerdote: «Dal profondo io ti chiamai». Dice l'antiste:
«Giacciono nella polvere, addormentati sono nella polvere; perciocché il riposo di tutti
egualmente sia nella polvere». 10. Chiamali, o Patria. Dove sono i tuoi morti? Sollevali
dal profondo, a uno a uno, ciascuno pel suo nome, e i sepolti e gli insepolti, e quelli
che non han più viso, e quelli che son caldi tuttavia, quelli che cadono mentre tu
respiri, proni o riversi. 11. Dove sono? Nei valichi dello Stelvio, nella gola del
Braulio, tra le nere vette simili ai pinnacoli dei duomi, o alla soglia dei ghiacciai
raggianti. Chiama, e numera. 12. Nel Tonale giacciono, sotto la punta d'Ercavallo grigia,
nella malga o sul picco, là dove tagliarono la roccia come il boscaiuolo pone il conio e
la scure nella rovere. 13. Dormono tra le nevi dell'Adamello e gli ulivi del Garda
melodiosi, a Storo, ad Ampola, a Condino, ossa d'eroi su ceneri d'eroi, soavemente.
Chiama, e numera. 14. Chiamali da Vai Daone, chiamali dal Ponale, e dalle rive del tuo
Chiese cerulo dove si bagnarono ridendo, a modo di pastori, nel caldo giugno, quando le
rupi rosee stillavano e i colli erano cinti d'allegrezza. 15. Chiama quelli che stanno su
l'Altissimo, nella prim'alba della guerra preso come i leoni abbrancano la preda, con un
sol balzo; e la rugiada fu la prima notte ne' loro pugni, quando gli astri danzavano lungo
gli orli del giorno e le radici del monte giubilavano. 16. Chiama quelli che caddero in
Vallarsa scorgendo di lontano biancheggiare la dolce Rovereto tra i due scheggioni che
parean vermigli del lor sangue fuggente; 17. e quelli tumulati sul Salubio, al limite del
bosco, nel prato eguale ove fiorisce il colchico violetto come l'asfodelo, tra le baite
esanimi; 18. e quelli fitti sotto l'Armentera travagliato di bolge qual monte di castighi,
o stronchi sotto le rocche dei Titani, schiantati sotto le Pale rosseggianti, sotto i
mastii di Lavaredo opachi, ai piedi delle Tofane crudeli, nelle ambagi di ghiaccio e di
macigno, 19. essi gli assalitori senza grido, con le funi e coi ganci, coi raffii e coi
ramponi, coi lor calzari taciti di corda, coi lor pugni più duri che manopole di piastra,
coi lor cuori d'invitto diamante che brilla per gli squarci dei costati. 20. Chiama e
numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cupe l'inno di giovinezza come
fascio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve,
quelli udranno e verranno. 21. Chiama. Quelli che rimasero su la via di Vercoglia, in
notte cauta, calzati d'astuzia, accanto ai loro carri cui aveano ben unto i mozzi e
fasciato i cerchi d'umida paglia accanto ai fidi cavalli dagli zoccoli avvolti di lana,
quelli udranno e verranno. 22. Chiama. Quelli che caddero in co dei ponti, su l'Isonzo
selvaggio, che a mezzo lasciarono i ponti di fortuna costrutti nel buio col coraggio e col
legno, che si persero fra le assi fendute, fra le barche sfasciate, fra le travi divelte,
si voltolarono a valle, s'enfiarono d'acqua notturna, s'impigliaron ne' vinchi o
s'arrenarono presso alle foci, quelli udranno e verranno. 23. Verranno dalle balze della
Val Dogna, dalla Forcella del Cianalot, dal Quaternà ripido e foggio, da tutta l'alpe
indomata, gli assodatori di vie, eredi dell'arte di Roma, che per cemento diedero un
sangue romano, che con le vene cementaron le selci. 24. Chiama, e numera. I frombolieri
orgolesi dalle fionde di canape attorta scagliarono il fuoco e caddero, col rombo sul
capo, col dito nel cappio, più belli del figlio d'Isai. Si leveranno al tuo grido, come
nell'albe del Supramonte, girando la corda. 25. E il cacciator di camosci, piombato giù
dal dirupo ch'egli solo calcò, rotolato col masso nel botro, si leverà di sotto alla
mora. 26. E quelli che schiantò l'ala nembosa della Vittoria crosciando su la vetta di
Plava, grideranno verso te ancor ebri d'assalto. 27. E colui che portò su le spalle il
cadavere conteso e le prede e i trofei per entrar col fratello nel buio, tornerà col
fratello alla battaglia. 28. Chiama, e numera. Lungo i recinti di Globna, lungo le
trincere di Zagora, contro gli spineti di ferro, entro i ferrei forteti squarciati, al
passo di Voraia, su la cresta di Vrata, sotto il Rombon tenebroso giacciono, in Saga
dormono, in Oslavia sognano i tuoi morti; 29. e taluno ha la nuvola per sua coltre e la
caligine per sue fasce; e taluno è covato dalla nuvola corusca, qual semidio che si
rigeneri o si trasfiguri; 30. ed altri, che il nimbo irrespirabile avvolse, sta con la
maschera in vólto, qual nell'occulto sepolcro il re larvato. 31. O Aquileia, donna di
tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle,
all'ombra dei cipressi pensierosi. 32. Custodisci nell'erba i morti primi, una verginità
di sangue sacro, e quasi un rifiorire di martirio che rinnovella in te la melodia. 33. La
Madre chiama; e in te comincia il canto. Nel profondo di te comincia il canto. L'inno
comincia degli imperituri quando il divino calice s'inalza. Trema a tutti i viventi il
cuore in petto. Il sacrificio arde fra l'alpe e il mare. 34. Dice l'antiste: «L'acque se
ne vanno via dal mare, e i fiumi si seccano e si asciugano. Così, quando l'uom giace in
terra, ei non risorge. Finché non vi sien più cieli, i morti non si risveglieranno, e
non si desteran dal sonno loro». 35. Risponde il canto: «O Patria, ecco, noi siamo in
piè, se tu di noi ti ricordi. Se tu ci chiami ancóra, eccoci alzati. Siamo le tue ossa e
la tua carne. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo». 36. Dice
l'antiste: «Come un monte cade e scoscende, come una rupe è divelta dal suo luogo, e
l'acque rodono le pietre, così tu fai perire la speranza dell'uomo». 37. L'inno
risponde: «Noi la tua speranza l'abbiamo saziata di midolla e di sangue. Ella è tremenda
come belva immane. Ponila innanzi a noi, che ci conduca dove tu vai; e ricombatteremo».
38. Dice l'antiste: «O Dio, mia Rocca, perché mi hai tu dimenticato? Or io me ne vo
vestito a bruno, per l'oppression del nemico, mentre mi è detto tutta notte: "Dove
è il tuo Dio?"». 39. Conclamano gli eroi: «Signore Iddio delle vendette, o Iddio
delle vendette, appari in gloria! 40. Quelli che stanotte hanno recato a noi buone
novelle, sono stati una grande schiera e lieta. Sopra costoro e sopra noi non ha potestà
la seconda morte. O Patria, eccoci alzati. Conta il nostro numero nel tuo numero; e
ricombatteremo».
III.
1. Io non ti mentovai, monte dell'ira, nominato dal nome dell'Arcangelo folgorante; non
gridai verso te, monte di quattro gioghi, monte di quattro teschi, calvario della nostra
passione. 2. Ma sì ti tacqui sopra gli altri luoghi, sopra gli altri carnai della
salvezza, perché più mi cocessi nel mio petto, perché più mi grondassi e mi crosciassi
nel mio profondo. 3. Quando la Patria segni nel suo numero invincibile il numero dei morti
e il suo soffio moltiplichi con l'ansia degli insepolti, quale tra le schiere più
disperate varrà mai quest'una che ancor si scaglia? 4. Quando nel giorno di giustizia,
contro le nazioni immonde, i liberatori s'aduneranno a giudicare l'opra d'ognuno innanzi
di partire e terra e mare, quali ossa avranno un tanto peso? qual misura di sangue sarà
più colma? 5. Quando sopra il tumulto e sopra il crollo, sopra i regni dirotti e sopra le
stirpi sradicate, sopra i naufragi e sopra i salvamenti, apparirà di sùbito la Musa
ineffabile, chi le parrà più bello? 6. «Ecco, dunque, le armi son cadute dai pugni
esangui. Dinanzi alla bellezza riaccesa, ora conviene rassegnare i morti. Guarda questi,
contemplali in silenzio, alta eroina. 7. Non altrimenti nella greca selva giacevano i
giovinetti uccisi dalla fiera o dal dardo, prima di trasmutarsi in fiore o in astro. Si
compiace pur sempre l'artefice divino in questa creta. Guarda, o Novella.» 8. Io ti
guardai, chinato sopra te, o figlio mio supino nella petraia fumigante, mentre tutti i
gironi del monte atroce urlavano a furore. E l'immortalità ebbe il tuo vólto. 9. E la
battaglia ebbe la tua bellezza. E il furore degli uomini ebbe da un dio un culmine
silente. E la polla del sangue che colava calda dal tuo costato era bevuta dal duro
scoglio. 10. O monte della sete, rocca di siccità, quanto bevevi! O Carso dalle bocche
insaziabili, o squallido sepolcro sitibondo, un rosso fiume ai tuoi fiumi di sotterra
aggiungi, se notte e dì t'abbeveri di strage? 11. Non si mescolano i due sangui avversi;
ma ristagna l'impuro nelle schegge e pei botri, s'accaglia, e solo il puro corre
profondamente rifiammeggiando pei meandri cavi. 12. Lo sanno i prodi: versano il sangue a
gara. Lo sanno i prodi, e vuotano le vene. L'anima invitta spreme la ferita e smunge il
cuore. L'ultima goccia è quella che più splende. 13. Nel bel Timavo dalle sette fonti
scese a lavare il suo cavallo bianco un de' gèmini eroi; né l'acqua oblia. Ma
quest'emulo suo sanguigno è tutto gloria che ferve, gloria impetuosa. 14. È una piena di
gloria senza foce. È una piena di gloria che ti cerca per isboccare in te, mare dei
figli, nel tuo silenzio, gorgo del futuro. 15. Allora i morti avranno un nuovo cantico, e
il deserto sarà santificato. 2 novembre 1915.
Ode alla nazione Serba Qual è questo grido iterato che lacera il grembo dei monti? Qual
è questo anelito grande che scrolla le selve selvagge, affanna la lena dei freddi fiumi,
gonfia l'ansia dei fonti? O Serbia di Stefano sire, o regno di Lazaro santo, cruore dei
nove figliuoli di Giugo, di Mìliza pianto, lo sai: hanno ricrocifisso il Cristo
dell'imperatore Dusciano ad ogni albero ignudo delle tue selve, ad ogni sasso ignudo
dell'alpe tua fosca, gli han franto i piedi e i ginocchi a colpi di calcio, trafitto con
la baionetta il costato, rempiuto non d'acida posca la sacra bocca ma di bile rappresa e
di sangue accagliato. II. Il boia d'Asburgo, l'antico uccisor d'infermi e d'inermi, il
mutilator di fanciulli e di femmine, l'impudico vecchiardo cui pascono i vermi già entro
le nari e già cola dal ciglio e dal mento la marcia anima in cispa ed in bava, il
traballante fuggiasco che s'ebbe nel dosso il tuo ferro a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
e l'acqua ingozzò della Drina fangosa cercando il suo guado e forte spingò nella Sava,
mentre l'ardir dell'aiduco Vèlico rideva nell'aspro vento come contro al visire in
Negòtino e le tue squille squillavano a Cristo e il tuo monte di Bànovo Berdo tonava
sopra la tua bianca Belgrado; III. O Serbia, lo squallido boia per far di vergogna
vendetta e per boccheggiare nel sangue prima che la lingua s'annodi, per comunicare nel
sangue prima che la lingua s'annodi, per anco leccar salso sangue prima dell'eterno
digiuno, per compiere senza rimorso la lunga sua vita terrena, imperator di pie frodi e re
di fedele catena, con alfine un'ultima stretta di laccio, con una suprema strangolazione,
al soccorso chiama i manigoldi bracati contro te, cinquanta contr'uno che in gola ti
caccino il cappio corsoio. «O Serbia di Marco, dove son dunque i tuoi pennati busdòvani?
Non t'ode alcuno?» IV. Sì, gente di Marco, fa cuore! Fa cuore di ferro, fa cuore
d'acciaro alla sorte! Spezzata in due tu sei; sei tagliata pel mezzo, partita in due
tronchi cruenti, come l'aiduco Vèlico su la sua torre percossa. Di lui ti sovviene? Rotto
fu pel mezzo del ventre, e cadde. Il grande torace dall'anguinaia diviso cadde, palpitò
nella pozza fumante. Giacquero le cosce erculee del cavaliere a tanaglia; giacquero in
terra, si votarono. E nel fragore della gorga grido si ruppe: «Tieni duro!». Fiele dal
fesso fegato grondò. «Tieni duro, Serbo!» Dalle viscere calde tal rugghio scoppiò:
«Tieni duro!». V. Tal rugghio la Vila raccolse. Tutte le tue Vile di monte, tutte le tue
Vile di ripa raccolsero il ferreo comando; e tu 'l riudisti pur ieri. L'ode la terra
tegnente: non verdeggerà per tre anni. L'ode su la nuvola il cielo: non stillerà per tre
anni rugiada. Che monta, o guerrieri? Il capo del Santo di Serbia, il teschio di Lazaro
splende non nella Sìniza sola ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia il grande pezzato cavallo
di Marco, e si sveglia l'eroe squassando i capelli suoi neri. Re Stefano vien di
Prisrenda; sorge dalla Màriza cupa Vucàssino; s'alzano a stormo da Còssovo i nove
sparvieri. VI. E grida la candida Vila dal crine del Rùdnico monte, sopra la Iacèniza
lene; grida e chiama in Tòpola Giorgio che ristà poggiato all'aratro. «Or dove sei,
Pètrovic Giorgio? Qual fumido vino ti tiene? Qual t'occupa sogno? Non m'odi? Dove sei,
buio bifolco? Dove sono i tuoi voivodi? Dov'è il voivoda Milosio? Giàcopo e il calogero
Luca? e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco della Morava? A simposio seggono? Ucciso hanno
il giovenco e trinciano, e cantano lodi? Beono alla gloria di Cristo che li aiuti? beono
in giro? E sul buccellato di farro scritto è tuttavia: Cristo vince. Ma non v'è
quartiere pei prodi. VII. Bulica il sangue dei prodi al cavallo insino alla staffa, insino
alla staffa e allo sprone. Diguazza il fante nel sangue insino all'inguine e all'anca;
v'affoga, se v'entra carpone. Le donne rivoltano i morti pel bulicame, né sanno figlio
ravvisare o germano. Son tutti un rossore, una piaga tutti, come al campo del conte i
maschi di Giugo Bogdano. Più corpi enfii che scerpate radiche porta il Danubio né sa a
qual riva deporre; rigurgita il Vàrdari ai groppi; la Sava è una vena svenata che
gorgoglia giù per le forre; è schiuma del Tìmaco a sera canizie che galla; e la Drina
veloce è un carnaio che corre. VIII. Su, Giorgio di Pietro, bovaro di Tòpola, su,
guardiano di porci, riscuotiti e chiama! Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi; Ianco il
savio e Vasso il furente. Prenditi con teco gli aiduchi che danzano sopra le vette degli
aceri. Vèlico, or ecco, all'anguinaia il torace rappicca come prima era, e dentrovi il
fegato ardente. Su, su, porcaro di Dio! Il turbo di Mìsara, or ecco, pei gioghi della
Sumàdia raggira l'antica vittoria, sparpaglia la nova semente. Altre mandrie tu caccerai
dinanzi a te, altri branchi più irti, altro bestiame più tetro, altro sagginato coiame,
altra sordida gente. IX. Sovvienti? Diceano i padri un tempo, sedendo a convito: "Ve'
porco di Bulgaro nero che tutt'oggi dietro ci tenne pel tozzo e 'l bicchiere di vino e per
un lacchezzo d'agnello!". Non per tozzo il Bulgaro nero e né per gocciol di vino e
né per minuzzo di carne, ma per tutto prendere alfine, per tutto a te prendere alfine,
per tutto a te togliere alfine, la terra il nome il soffio il bianco degli occhi lo stampo
dell'uomo, per questo il Bulgaro nero dietro ti venne, alle spalle ti dà, alle reni
t'agghiada. Tre n'hai, e col Bulgaro nero: fanno tre viltà una forza. Ma guarditi il
fegato secco Dio, o macellatore di porci. X. Pigliaron Semendria la regia, pigliarono, ed
anche la bianca città, Belgrado la regia, in una geenna di fiamme: dal Lìparo al
Vràciaro grande, fornace fu ogni collina. Pigliarono Lùciza, ed anche Sclèvene
pigliarono, e l'una e l'altra colmaron di mosto, di lúgubre mosto, due tina. Iplana
rempieron di vegli senz'occhi, di femmine senza mammelle, di monchi fanciulli carponi a
leccar la farina. E di Sòpota la meschina ei fecero lor beccheria trinciandovi la
battezzata carne (o Battista!), e l'altare lor tavola fu sanguinente: strapparono al prete
la lingua con sópravi l'ostia vivente. XI. Ma ben di Verciòrova scorse il Rùmio dagli
occhi di druda, dal viso di cera dipinto, gallare nel freddo Danubio i Lurchi enfii,
rivoltolarsi a mille pel grigio Danubio fra Rame Dubràviza i morti, fra Sip e Tèchia gli
uccisi sotto la montagna di Tèchia crosciante qual torcia di ragia, a grappoli i corpi
dei Lurchi. Non Lipa è villata che mangi: è mucchio che pute. Non colle che frutti è
Trivùnovo: è mucchio che vèrmina. Vrànovo è mensa di corbi e Vuiàn d'avvoltoi. O
razza di Cràlievic Marco, l'usura tu fai con la strage! Sotto Orsova, dove il mal fiume
s'insacca, ora Bulgari e Lurchi si giungono, stèrcora e fecce. XII. Sì, presero i
valichi e i passi, li presero; e noi i nostri guati tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia, presero,
e Strùmiza e Vrània, e Cràlievo presero, e Lacle, villate e città, mura e ripe; ma
dove più ossa che selci, più teschi che ciottoli dove lasciarono? Presero e Nissa
l'antica, vestita a gramaglia, oité, santa Serbia, di neri drappi vestita le case dolenti
ove suda il contagio e l'odore vieta la porta. Presero e Scòplia l'antica (oité, santa
Serbia, fa pianto), la casa che in prima all'Iddio tuo edificasti con pietre, e quivi la
rocca, la guardia dell'imperatore Dusciano. O Serbia, in ginocchio fa pianto. XIII. Poi
rìzzati e balza e riprendi la chiesa e la rocca, l'altare e il mastio, l'impero e la
sorte. Il verde Vàrdari tingi come la Nìssava a Vlasca, colora il Vàrdari come lo
stagno di Vlàsina fatto già bulgaro brago di morte. Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
che scannò il suo padre con sacra mano perché servo non fosse, il Tìmaco tingi in
eterno, in eternità dell'infamia, dalla sorgente alla foce e insino alla melma profonda,
per le tue donne calcate dallo stupro contro la sponda, pei pargoli tuoi palleggiati e
scagliati come da fionda, per chi teda fu, per chi arso fu fiaccola furibonda. XIV. Tronco
s'ebbe Lazaro il capo nel piano di Còssovo, e perso fu il regno, fu spenta la gloria. Da
Scòplia il Bulgaro nero al piano di Còssovo sfanga fiutando l'ontosa vittoria. Tieni
duro, Serbo! Odi il rugghio di Vèlico che si rappicca e possa rifà. Tieni duro! Se pane
non hai, odio mangia; se vino non hai, odio bevi; se odio sol hai, va sicuro. Non erbe
coglie nel monte la Vila, non radiche pesta, per le piaghe a te medicare. Non a ferita
combatti, a morte sì, per l'altare combatti e pel focolare. Se caschi in ginocchio, ti
levi; se piombi riverso, e ti levi; se prono, e ti levi a lottare.» XV. Così parla al
sangue la Vila dal crine del monte, la Vila così stride e chiama a battaglia. O Serbia,
fa cuore! T'è l'odio osso del dosso, armamento t'è l'odio e t'è vittuaglia. A Còciana
ancor si combatte e si combatte a Piròte; a Tètovo è lungo macello, e a Babuna tra le
due vette. A Ràzana i tuoi cavalieri, al passo d'Isvòre i tuoi fanti, a Glava le donne
tue scarne con le coltella e le accette. Le madri combattono in frotta col pargolo al seno
e lo schioppo alla gota, o dritte su i carri tirati dai bufali torvi le gravide, o in
sella con due pistole come la grande Ljùbiza, ghiottume di corvi. XVI. Qual è questo
riso che scoppia come manrovescio potente? È il riso di Vèlico aiduco dalla dentatura
d'alano. Che vede egli? un Bulgaro nero perdere i suoi trenta dinari? un Lurco basire,
calando le brache e levando la mano? il pennacchin tirolese del boia longevo che crocchia
e affoga nel flusso senile? o il tronfio Amuratte alemanno, soldano d'eunuchi cinghiati,
trar la scimitarra scurrile? Che vede di turpe e di vile lo schernitore, che vede? Ve' ve'
bagascion di corona, ve' bardassa in Cesare vòlto, di unguenti asiatici liscio che piglia
da Cesare Giulio il letto di re Nicomede! XVII. Tastalo con le tue dure mani, questo sacco
di dolo e di adipe, o Vèlico, questo sacco di lardo e di fardo. Cesare dei Bulgari neri,
come Simeone, è costui, come Caloiàn di Preslavia, è questo Coburgo bastardo? Tu che
metter suoli la lama tra i denti, aiduco, se vuoi aver la pistola nel pugno, tu tagliami
questo codardo con la squarcina del fiso, tagliuzzalo come lombata, condiscilo poi con
zibetto, con cinnamo e con spicanardo. Lo manderai così concio alle meretrici di
Scòplia. E che il tuo scherno s'appigli, che il tuo riso crepiti e scrosci ai tuoi come
un fuoco gagliardo! XVIII. O Serbia, che avesti regina di grazia Anna Dandolo e desti del
ceppo regale di Orosia a un Buondelmonte la sposa, odi: la Vittoria è latina, ed ella è
promessa al domani. è una pura vergine bianca (non è la tua Vila a lei pari) più lieve
della tua Vila selvaggia che col piè nudo, in vista dell'oste schierata, danzò su le
lance dei bani. Diceano intanto gli araldi in Prìlipa a Marco: «O signore, contendono i
re, dell'impero. A chi sia l'impero e' non sanno. Ti chiaman di Còssovo al piano che tu
dica a chi sia l'impero». Un grida: «Al Latino è l'impero. Per forza a lui viene
l'impero. Roma a lui commise l'impero». XIX. Lode all'uno, grazie al verace! In Còssovo
teco i Latini combatteranno domani sotto il gonfalone crociato, mentre il Lurco «A me è
l'impero» grugna «ché la forza s'alterna». Sarà coi Latini domani la grande lor
vergine bianca. Già misto il lor sangue col tuo ebbero a Valàndovo, sacre primizie. Ora
Vèlese è rossa di quelle, e vermiglia è la Cerna. Tra le corna sta di Babuna la
pertinacia non rotta e in Prilipa avvampa la fede. O Rumio dagli occhi di druda, a che
musi verso la steppa, bilenco tra rischio e mercede? E tu, vil Grecastro inlurchito che
palpi le sucide dramme, non odi il cannone di Dede? XX. O falso Dace, che vanti la gloria
del nome latino e non pur sei degno del nome barbarico ch'era tremendo né mondo pur sei
della lebbra d'Asia che tuttora ti squamma, or quando entrerai nella lite? Quando la
Colonna traiana, di pietra fattasi fiamma, t'andrà camminando dinanzi come la Colonna
divina in Etam dinanzi ai figliuoli d'Israele verso il deserto lenito e per l'acque
spartite? Ma tu, o Greculo, merca. Da tempo son morti i tuoi clefti. Si leva di giù
Bucovalla e sputa su te dal carnaio. Venditi. Non già ti compriamo, non per una sucida
dramma. Ma ti pagheremo d'acciaio. XXI. È tempo, è tempo. La notte precipita. Sta sopra
tutti la legge di ferro e di fuoco; e questo è il supremo cimento. Prudenza è vergogna,
disfatta il dubbio, delitto il riposo, viltà ogni vana parola, e l'indugio è già
perdimento. Popolo d'Italia, sii schiera appuntata a guisa di conio, schiera di tre canti
romana, che cozza scinde e s'incugna. Popolo d'Italia, sii chiusa falange, con fronte
ristretta, fasciata d'ardore, scagliata come un sol vivo alla pugna. Popolo d'Italia, sii
come la forza dell'aquila regia che batte con l'ala, col rostro dilania, ghermisce con
l'ugna. E v'è uno Iddio: l'Iddio nostro. 16 novembre 1915. Preghiere dell'Avvento I. PER
I MORTI DEL MARE Mare di Dio, che sceveri le sorti dei combattenti nella sacra guerra, io
ti prego: non rendere i tuoi morti, Mare, alla terra; non rendere i cadaveri che il sale
macera, né l'ossame che tra flutto e flutto imbianca, al lido, o Sepolcrale, e al nostro
lutto; ma sì, nel gorgo acerbo come il pianto fùnebre, tieni le profonde some perché
noi più t'amiamo e a noi più santo duri il tuo nome; ma sì tieni le spoglie
nell'intorto abisso pari al nostro amor rapace, perché non sia rifugio in te né porto in
te né pace in te né tregua né salute a noi alcuna se la servitù non cessi e in te Roma
non chiami i glauchi eroi al Resurressi. Miseri eroi, non caddero sul ponte della nave,
gioiosi di battaglia, in un sangue perenne come fonte che non s'accaglia; non udirono,
sotto la bufera del fuoco, nel rossore che non stagna, stridere contro l'asta la bandiera
quasi grifagna, non lassù, dalla ferrea rembata che folgora, la scorsero con gli arsi
cigli come Vittoria catenata lassù squassarsi; né s'accosciaron presso i tubi, quando
nel capo chiuso dentro la sonora cuffia d'un tratto rombano comando e morte, a prora; né,
travaglio dell'orrido beccaio che pesta e insacca, furon carne trita da rempiere la gola
del mortaio ammutolita; né, dato in brocca il fulmine coperto contro il nemico enorme,
solitaria vider l'elice folle in cima all'erto scafo nell'aria e irsuta l'onda, delle
mille braccia invan tese da un sol terrore urlante, prima d'inabissarsi senza traccia
presso il gigante. Ma l'insidia li colse, ma l'agguato li pigliò, nell'immensa albàsia
eguale: ruppe il fianco, la piaga nel costato aprì, mortale; di sùbito colcò pel sonno
eterno la bella nave, dandole carena come a racconcio, sotto il lungo scherno della
sirena; e l'acciaio temprato a gran martello fu cosa ignuda come vil tritume, sopra
l'acque di Dio men che fuscello, men che le spume. Or repente un miracolo divino percote
l'acque. Il sol rompe la nube? fa d'ogni flutto un branco leonino di rosse giube? Chi
squarcia la foschìa dell'imminente morte? Si leva un giorno di beata porpora? Esulta
tutto l'oriente, e un'ora è nata? Né fulvo branco di leoni balza, né s'inarca fulgore
di sovrana porpora. Sola su la morte s'alza l'anima umana. Sola alla morte l'anima
sovrasta congiunta ancóra al carcere dell'ossa come fuoco si radica in catasta a prender
possa. Uomini vivi, saldi sul tallone, non in coperta ma lungh'esso il bordo dileguante
con l'ultimo cannone nel succhio sordo, diritti come se facesser ala ad ammiraglio in nave
pavesata, diritti come sotto la gran gala schiera ordinata, gittano al cielo un grido
così forte che ferisce le cime dell'ardore, e sforzano a sorridere la Morte che mai non
muore. O Vittoria, alta vergine severa, or quando vinci se non vinci in questa fine? Dove
più sfolgori, o guerriera? in quale gesta? E qual madre, qual dolce madre o suora, che tu
le renda le profonde salme osa pregarti, o Mare dell'aurora, giunte le palme? Chi lungo i
lidi tuoi, Mare dei prodi, erra con entro il cor l'esangue vólto, sperando che nel cor
l'ombra gli approdi dell'insepolto? Mare di Dio, le vittime che celi tu non rendi, né odi
le querele dei sùpplici; ma duri ai tuoi fedeli tomba fedele, ma conservi le spoglie
nell'intorto abisso pari al nostro amor rapace, perché non sia rifugio in te né porto in
te né pace in te né tregua né salute a noi alcuna se la servitù non cessi e in te Roma
non chiami i glauchi eroi al Resurressi. 11 decembre 1915. II. PER LA GLORIA Dio d'Italia,
cui Dante il duro viso incotto dalla vampa dell'Inferno tende e, non vinto dal fulgore
eterno, guata con occhi di rapina fiso; Dio d'Italia, che gli uomini di parte cementarono
vivo in pietre conce, il sangue cittadin con le bigonce mischiando nella calce a far lor
arte; Dio d'Italia, bellezza che il titano Michelangelo in cupola ed in volta girò,
tagliò nel sasso, amò raccolta nell'ossatura del dolore umano; Dio di gloria, tu fa
questo giudicio della gloria, tu giudica di noi per la palma, considera gli eroi, guarda
alla fede e pesa il sacrificio. Dicean eglino: «Dove sono i vostri morti? Quante migliaia
di migliaia falciò ne' vostri solchi l'operaia assidua? Dove l'ugne e dove i rostri? Dove
i combattimenti disperati a corpo a corpo, lama contro lama? Chi vi devasta i campi? chi
v'affama? chi vi rempie le vie di mutilati? Avete appreso a vivere sotterra, fitti nel
fango sino alla cintura? Dentro il fetore della sepoltura avete appreso a prolungar la
guerra? Avete appreso a mordere la mota? avete appreso a mordere la neve? e quando non si
mangia né si beve? quando il calcio s'incrosta nella gota? e quando non si veglia né si
dorme? quando mastichi il sangue del compagno e non sai, o t'impigli nell'entragno caldo,
o ti volti su qualcosa informe? Avete appreso a riconoscer l'ombre della follia, che
genera il fragore, quando si cala, giù per le gran more dei morti occhiuti, alle trincere
sgombre? Avete appreso, posti in una croce di fuoco, a mascherarvi come i mimi? a
brancolar, nelle agonie sublimi, ciechi d'un pianto stupido ed atroce? Avete appreso che
la guerra è bassa bisogna, frode lùgubre, immondizia dolosa? e ch'è sigillo di
giustizia lo stival lordo quando schiaccia e passa? Dove sono le donne con nel seno due
rosse piaghe, Amàzoni dell'onta? dove i validi figli con l'impronta di poltronìa, col
pollice di meno? Quante delle città vostre ridenti son arse e diroccate? quanti altari
disfatti? quanti senza focolari popoli in lacrime e in stridor di denti? Contiamo. Avete
appreso ben quest'arte? Quegli che più patisce e che più dura diritto avrà di
primogenitura sul gran retaggio, avrà la miglior parte». E si divincolavano ruggendo
sotto le suola del nemico. I loro campi erano pantani roggi. L'oro colava come il sangue,
ed era orrendo. Le donne non avevano più mani da giugnere, ma moncherini oranti. Le
cattedrali non avean più santi che pregassero in sommo agli archi vani. Il fanciullo
copriva il limitare, supino. La canizie pia del vecchio era dispersa là come pennecchio
arido non finito di filare. Tutte le dolci cose erano spente senza pietà. Tutte le cose
sacre non erano più sacre. Il fumo acre del sangue soffocava il Dio vivente. Rase città
lungo putride gore, borghi in cenere sopra nere pozze guardava solo, irto di membra mozze
e d'occhi fissi, il dementato Orrore. L'Italia era in disparte. Taciturna volgeva la sua
faccia verso il mare sùpero. Udiva il rombo aquilonare percuotere la grande Alpe
notturna. L'ombra mordeva il suo bel capo stretto fra i rostri della sua naval corona.
Come chi forte nel pensier tenzona, ella anelava dal quadrato petto. Di sé nutriva il suo
divino male. Come l'eroe delle speranze inulto, parea patire un avvoltoio occulto che le
rodesse il fegato immortale. Basso intorno al suo cruccio solitario era il susurro d'un
mercato immondo. Non vedea, non udia, nel suo profondo travaglio, ella. Guatava
l'avversario. E diceano i suoi blandi parasiti, diceano i delicati proci: «O fiore della
terra, o benigna Italia, amore degli uomini, ubertà degli iddii miti, o nostra grazia, o
nostro eterno aroma, o nomata qual miele nella bocca, o più dolce dell'aria che ti tocca,
o più bella del nome che ti noma, qual è mai questo cupo fuoco ond'ardi negli occhi tuoi
d'aquila giovinetta? Ti proteggan gli iddii, o prediletta degli iddii tutti! L'Iddio tuo
ti guardi! Cesare è cenere, e smarrito è il dado. Or sei tu osa ritentar le sorti? Né
dietro a te fremono le coorti come al grifagno sul fatale guado. Duro nemico: in vento di
Croazia è polvere di guasto, afa d'incendio. Ogni bellezza ei tiene in vilipendio. Mal ti
difenderebbe la tua grazia. O nostra grazia, o balsamo giocondo per ogni cura, unguento
dell'esiglio, tra tutte le contrade quale il giglio è tra le spine, voluttà del mondo, o
di noi vecchi bruna Sunamita, tu sei pur sempre tutta quanta bella, Italia! Ogni tua
pietra t'ingioiella, ogni tua gleba è un ùbero di vita. Ti spiamo di sopra alle rovine,
o di noi vecchi bianca Bersabea. Chi s'ardirà con l'ispida trincea turbar l'azzurro delle
tue colline? Sèrbati a noi, sèrbati a noi perfetta pe' lunghi ozii che a noi farà la
pace candida. Non ti giova il dado audace trarre. Ma dormi su' tuoi lauri e aspetta».
Ella balzò con fremito selvaggio squassando la corona e la criniera, ebra di forza, ebra
di primavera, ebra di morte, ebra di te, o Maggio. O maschio Maggio, turbine solare, inno
vasto di giubilo, o torrenti di giovinezza, o sùbiti torrenti di sangue, verso l'Alpe e
verso il mare! Diceva il Patto: «Dove sono i tuoi morti?». Dal Chiese gelido all'Isonzo
precipitoso, nel romano bronzo ella eternava il gaudio degli eroi. Eccoli, Dio d'Italia, i
nostri morti. Li raccogliamo su le grandi cime, dove l'anima e l'aere sublime sono la
solitudine dei forti. Dio di gloria, tu fa questo giudicio della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi, guarda alla fede e pesa il sacrificio. Di poi verranno i
savii partitori e distribuitori della terra; sicché ciascuno, giusta la sua guerra,
godrà la parte e succerà gli onori. Ma tu fa, Dio d'Italia, che al tuo cenno gittiam
nelle bilance lor cortesi un ferro ancor temibile, che pesi più della spada barbara di
Brenno. 12 decembre 1915. III. PER IL RE Salva il Re che, dimesso l'ermellino e la
porpora, come il fantaccino renduto in panni bigi, sfanga nel fosso o va calzato d'uosa
cercando nella cruda alpe nevosa, Dio vero, i tuoi prodigi. Salva il Re che partisce il
pane scuro col combattente e non isdegna il duro macigno alla sua sosta né pe' suoi brevi
sonni strame o paglia sospesi ai rossi orli della battaglia che sotterra è nascosta.
Proteggi il Re del sollecito amore, che in casta forza il tremante dolore cangia con
l'occhio fermo, il Re che in fronte ha la ruvida ruga e pur sì dolce esser può quando
asciuga la tempia dell'infermo. Proteggi il Re della semplice vita chinato verso ogni
bella ferita che è rosa del suo regno, chinato verso il sorriso dei morti, verso il
sorriso immortale dei morti, che è l'alba del suo regno. 19 decembre 1915. IV. PER LA
REGINA E questa che la Vila con un canto incoronò del crine di viola folto come la
treccia che di schianto lasciò la pia Gevròsima alla trave chiamando il fratel Mòncilo
fra il pianto, questa guarda, Signore. Volarono laggiù sul Monte Nero dodici aquile
bianche con gran strido. Ed una a lei volò sul suo pensiero, e la coprì con velo
insanguinato. Il vecchio padre, il candido guerriero, le piange in mezzo al cuore.
S'alzano dal confin serbico in frotte i corvi lordi. A valle la Boiana róssica, Scodra
fumiga. La notte, ahi, stelle più non ha sul Nero Monte. «Miei falchi, in piè!» Chiama
all'estreme lotte il veglio, e conta l'ore. «In piè, falchi miei!» grida il Re canuto.
Senza pane, senz'acqua, senza sonno negli occhi, giorno e notte han combattuto. Sinché
nevichi al monte, è grassa guerra. Mangiato han neve e neve hanno bevuto, e munto hanno
il dolore. Prega pel Re la figlia sua Regina che in sogno sta tra due fiumane calde. Or
quale d'esse fa più gran rapina, o nell'aspra Cemàgora o nel Carso brollo? A quest'una
la pregante inclina l'ombra del tuo pallore. Prega per due Re prodi, e figlia e sposa.
Veglia e s'affanna per due mute piaghe. Non su l'un fianco né su l'altro posa. Elena,
Nostra Donna di due Spade! Ella è per noi due volte gloriosa. Tu guardala, Signore. 19
decembre 1915. V. PEL GENERALISSIMO Questi, che vedi curvo su le carte, nel più duro
granito del Verbano tagliato e scarpellato fu, di mano di maestro; e il vigor soverchiò
l'arte. La sua chiusa virtù, che par novella, nella tenacia dell'antica schiatta usa a
fare e patire, assuefatta ad attendere in fede la sua stella, si foggiò per i secoli,
celato diamante che incudine non doma. V'incise il segno mistico di Roma, Dio d'Italia,
l'acume del tuo fato. Guarda il suo maschio vólto dove l'orma del tempo e il solco dello
studio scava nella tristezza della carne ignava e trova l'osso che non si difforma. Conta
le sue fatiche a ruga a ruga, novera gli anni suoi, segno per segno: giovine il teschio
vige, quasi ordegno di quella volontà che il cor gli fruga. Non meno adunco vomere mordea
la fronte di quel giusto che l'obbrobrio cinse; ma v'era incancellato il sobrio eroe di
Maratona e di Platea. Guarda la sua mascella che tien fermo, guarda severità della sua
bocca onde il comando ed il castigo scocca, e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo
gravata sopra il chiaro occhio che scaglia l'anima al segno e il tratto non misura. Sempre
in tutt'arme egli è senza armatura. Tutta nel pugno nudo ha la battaglia. Quel
condottiere che dal piedestallo la morta riva domina in Vinegia minacciata dal barbaro e
dispregia la minaccia del ciel, solo, a cavallo, Bartolomeo grifagno come Dante che
converso abbia in elmo il suo cappuccio a gote, chiuso in piastra il suo corruccio, preso
a trattar cavalleggiere e fante, tu lo vedi al segnale delle trombe sollevare e sferrare i
battaglioni come balestra lancia i suoi bolzoni, come mortaio lancia le sue bombe. Tal
questi, senz'arcione ma più grande, senza gesto né grido, solo armato del suo tacito
genio e del suo fato, amplia la forza che quel bronzo spande. Egli ha mura da prendere,
fiumane da valicare e gioghi e vette e gole, ghiacciai deserti, valli senza sole, fosche
petraie, squallide biancane. Vigila ai ponti dell'Isonzo; a Plezzo tuona; a Tolmino
folgora; tien Plava e la vetta, Voraia e il passo; scava la trincea nella neve ed issa il
pezzo. Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda sangue inesausto nel suo petto. Tutta la
terra combattuta, arsa e distrutta, dentro gli sorge, dentro gli sprofonda. La malga e il
picco, il botro e la laguna, la roccia e il muro, l'argine e la fossa vivono in lui come
le vene e l'ossa, come i disegni della sua fortuna. Egli è la terra ed è l'assalitore. E
la forza degli uomini respira in lui, palpita in lui, freme e s'adira, giubila e canta in
lui, combatte e muore. Verso tutte le cime della gloria egli la incalza. Ecco, subitamente
il suo pensiero si fa carne ardente, grido e strage si fa, morte e vittoria. Tutte le
notti dallo Stelvio al Carso la gran barra di fuoco arde e risuona. Egli la sua certezza
ne incorona, la sua certezza in te, Dio ricomparso. O Dio d'Italia, tieni la tua mano su
questa fronte che facesti dura più delle fronti loro. Egli ti giura che tanto sangue non
t'è dato invano. Egli si prostra come il donatore che giugnea le manopole di maglia in
atto pio, nel cuor della battaglia avendo colto un portentoso fiore. La sua casa egli
pensa sul suo lago quieta, dove per la porta adorna d'una ghirlanda il terzo dei Cadorna
rientrerà, sol di silenzii pago, e innanzi alle due mute Ombre severe scioglierà gli
alti vóti, i grandi fati adempirà, l'isole dei beati quivi splendendo nell'albor
leggiere. O Dio, per questo duce che ci spezza il tuo pane, io ti prego che tu m'oda.
Acùmina la sua certezza, e inchioda nei nostri petti, o Dio, la sua certezza. 19 decembre
1915. Il Rinato Non videro la stella d'oriente i magi, non andava innanzi a loro ella per
scorta su le nevi ardente; non improvviso udiron elli il coro dei Messaggeri in Betleem di
Giuda prostrandosi; non mirra incenso ed oro offersero alla creatura ignuda sopra la
paglia della mangiatoia calda di fiati nella notte cruda; né, curvi in calca sotto la
tettoia radiosa, i pastori di Giudea intonarono cantico di gioia. S'ebbe natività nella
trincea cava il Figliuol dell'uomo; e solo quivi, messo in fasce da piaghe, si giacea.
Fasciato di tristezza era tra i vivi e i morti, solo; e il ferro e il sangue e il loto
erano innanzi a lui doni votivi. E non piangea, ma intento era ed immoto. Laude gli era il
rimbombo senza fine per il silenzio delle nevi ignoto; cantico gli era il croscio delle
mine occulto; gli era aròmato il fetore ventato su dalle carneficine. E sanguinava in
fasce; ed il rossore si dilatava come immenso raggio, sicché tutti i ghiacciai parvero
aurore, tutte le nevi parvero il messaggio dei dì prossimi, l'ombra fu promessa di luce,
il buio fu di luce ostaggio. Ed intendemmo la parola stessa del suo profeta: «Un grido è
stato udito in Rama, un mugolìo di leonessa, un lamento, un rammarico infinito: Rachele
piange i suoi figliuoli, e guata l'ultimo suo non anche seppellito. Non è voluta esser
racconsolata de' suoi figliuoli che non sono più. Una cosa novella, ecco, è creata. Il
Signore ha creata una virtù nella carne. Quel ch'apre la matrice Ei farà santo. Ei
semina quaggiù una semenza d'uomini». Ora dice una voce: «Io farò rigermogliare in
carne i tuoi germogli, o genitrice. Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare, ritieni la tua
gola dal lamento; perché come la rena del tuo mare t'accrescerò, come la rena al vento
ti spanderò. Eccoti i tuoi figliuoli moltiplicati dal combattimento. Senza sudarii tu,
senza lenzuoli, li seppellisci ed io li dissotterro. Rifioriranno ai tuoi novelli soli,
alla nova stagione ch'io disserro». E quivi il Figliuol d'uomo era, il Rinato; e quivi
erano il loto e il sangue e il ferro. E con fasce da piaghe era fasciato; e sanguinava
senza croce, come per il colpo di lancia nel costato. Ma «Colui ch'è il più forte» era
il suo nome. 1 gennaio 1916. Per i combattenti I. Signor di sangue, Dio dei combattenti,
non a te supplichiamo con la faccia alzata, non leviamo noi le braccia verso te, non gli
altari tuoi cruenti serviamo con le man protese o giunte né ti cerchiamo noi con la
preghiera nostra nei luoghi altissimi, di sfera in sfera, tra le tue falangi assunte; ma
ci prostriamo con la fronte bassa, ma contro il suolo noi poniam la fronte nuda, poniamo
il viso nelle impronte umili, il fiato dove il piede passa, c'inginocchiamo, o Dio della
battaglia. dove la Patria è nostra, nella mota, nell'erba, nella strada che la ruota
solca, nel campo che l'aratro taglia, dove la zolla è come nostra polpa, dove il fiore è
un pensiero di mill'anni intimo e fresco in noi come gli affanni segreti dell'infanzia
senza colpa, dove la foglia è un cuore che si frange, dove il sasso è la vertebra
scolpita d'una potenza che in un'altra vita fu nostra, dove tutto parla e piange, dove
tutto per noi ricorda e spera, dove a noi l'acqua è lacrime e rugiade, dov'è l'autunno
tutto quel che cade di noi tristi, dov'è la primavera tutto quel che di noi si rinnovella
e gemma e fa di noi virgulto e ramo; quivi, Signore Iddio, c'inginocchiamo quivi chiniam
la fronte, ch'è più bella; perché, Nostro Signore, non nei cieli sei ma sotterra sei,
ma sei profondo nel nero suolo, occulto sei nel mondo di giù, Dio che col fuoco ti
riveli; e non hai cura delle tue felici selve, non nutri il seme, non concedi al germe il
fimo fendere, ma i piedi dei combattenti sono le radici della tua primavera annunziata
dall'Arcangelo, i piedi dolorosi dei combattenti, i piedi sanguinosi dei figli nella terra
insanguinata, Signor di sangue, e tutto il lor dolore e nella terra una fecondità per
sempre, nella terra una bontà per sempre, un spino, un eternale ardore. II. Udimmo i loro
gridi nella notte, udimmo i loro canti nel mattino pieni del grande zefiro latino come
vele tesate dalle scotte. Ascoltammo nell'alba dell'insonne urbe, nell'ora della tua
rugiada, crescere l'inno e rimbombar la strada sotto lo scalpitìio delle colonne. Il
cuore delle madri coraggiose rosso balzava innanzi al lor coraggio, ed era un sole più
che il sol di maggio fervido; e il nido al chiaro inno rispose. S'oscuraron nell'ombra
tutti i marmi, risplendettero tutte le fucine. Le città ridivennero eroine fumide,
ansarono: Armi! Armi! Armi! Le città ebber l'anima d'acciaio sfavillanti d'acerrimo
travaglio. Taluna fu dismisurato maglio; taluna, innumerevole telaio. Ed eglino passavano
cantando per le diritte vie, verso le porte: prima la Gloria ed ultima la Morte, duce e
seguace. Ed era il primo bando. Erano i primigeniti del sole, erano le primizie, eran le
offerte virginee, le vittime più certe, Signor di sangue, la più maschia prole. Erano
l'ostie ai sacrifici tuoi su gli altari terribili dei monti, grandeggiando da tutti gli
orizzonti la madre delle messi e degli eroi; ché, ubertà di Dio, lungo le strade degli
eserciti già spigava il grano alto e vedeasi contra il flutto umano ripalpitare l'onda
delle biade, e la madre era bella come i figli, era la prole come le colline e le ripe,
era bella come il crine dell'alpe, come il grano e come i gigli. Ed era il sogno simile
alla vita com'è simile al mosto il sangue ardente, quando il genio di tutta la tua gente
raggiò dalla primissima ferita. Il valor rise come il fiore sboccia. Ala, una città
presa per amore! E l'eroe d'Ala avea nome Cantore! E il suo canto è scolpito nella
roccia. III. Ma dall'immondo Barbaro la viva guerra sepolta fu come carogna truce, posta a
marcire nella fogna buia, stivata nell'orrenda stiva, soffocata nel tossico fumante e
rituffata nella lorda pozza come quell'ira che del fango ingozza nello Stige implacabile
di Dante. E i figli dell'ulivo e della spica, i chiari primigeniti del sole, scesero giù
nelle maligne gole a consumar la lùgubre fatica. Quegli che avea sospeso le ghirlande dei
pampini all'amico olmo soavi, assi aguzzò, ficcò pali, ugnò travi, costrusse il suo
sepolcro ognor più grande. Quegli che a' poggi avea falciato il caldo fieno e negli orti
munto l'alveare, sacchi empié, more alzò, cementò ghiare, costrusse il suo sepolcro
ognor più saldo. E la divinità era presente. Ogni moggio di fresca terra offerto era al
genio di Roma, al giorno certo. E seco ebbe i penati il combattente. Il ciel del Palatino
ebber gli eroi su l'ira, il tempio aereo che il vate segnava con la verga adunca (alate
armi parvero stormi d'avvoltoi), quando giù nelle fosse un furibondo grido fendé le
tuniche di loto intorno ai petti; e l'impeto devoto balzò, irto di cuori, dal profondo.
Impeto, primogenito del fuoco, spirito dell'incendio e della piena, più celere del grido
che ti sfrena subitamente al dubitoso giuoco; Impeto, condottiere dell'assalto disperato,
che cozzi con la fronte e tanto hai più di lena quanto il monte è più nudo, più ripido
e più alto; Impeto, ghermitor della fortuna improvviso, che sì l'insegui e serti con la
punta alle reni e sì l'afferri a' capegli e non hai pietà veruna, demone della nostra
lotta, gloria a te che su la guerra seppellita sol per noi rilampeggi e con l'ignita bocca
avvampi le penne alla Vittoria! 21 gennaio 1916. Per i cittadini I. Quando la notte cade
su la città che strascica l'arsura della fatica pei labirinti delle sue contrade, e nella
casa amica è la lampada accesa da man pura, e tra le quattro mura il silenzio si fa ne'
cuori attenti, e l'imagine cara della Patria viene e trema nel cerchio del chiarore, e tu
senti sgorgare il sangue suo presso e lontano ed una santità gli occhi ti vela che non è
pianto ed è più che dolore, e nell'anima tua stilla quel sangue, gronda quel sangue
sopra la tua mano: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. II. Quando si leva l'alba dei
guerrieri su la città di cenere ove il passo dei primi artieri è come d'avanguardia
scalpitare, e tu ansi nel mare dei sogni con un'ansia in cuor confusa, e all'anima
socchiusa ecco t'appare più vicina dei sogni la trincea tetra, la penosa bolgia, tra
maceria e steccaia il fango imputridito le piaghe non fasciate i morti non sepolti gli
smorti vólti dei vivi senza sonno fitti nel limo sino all'anguinaia, e il cuor ti morde
l'onta, e balzi in piedi, e l'anima t'è pronta ad ogni evento ad ogni prova ad ogni dono,
e tutto armato di dolor t'avanzi ed imprendi, nel giorno che t'è innanzi, il taciturno
tuo combattimento: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. III. Quando la donna veglia
senza velo, bontà senza figura, le piaghe in carne viva, ardendo come lampada votiva
sotto la bianca volta; quand'ella ascolta l'agonia che sorride favellando a un'imagine
futura immortalmente; quando al ferro che incide e che recide ella in silenzio il dolce
paziente porge con cuor che trema e man sicura, senza battere gli occhi; quando i ginocchi
ella piega e le tempie alate abbassa, sostenenendo il bacino che del sangue fraterno e del
muto supplizio si riempie, ma nell'ombra del suo carnal pallore il confino dell'anima
trapassa per amor dell'amore sempiterno: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. IV. Quando
ella fila la bianca lana e col fil bigio agucchia, e non canta ma pensa al combattente che
nell'alpe immensa è bianco su la neve ch'egli ammucchia dinanzi alla sua fossa, o prega
per colui che nella tana cupa ha il colore della terra smossa, il color che le scorre tra
le dita leni di maglia in maglia; e nel rombo del cuore ascolta ella il fragor della
battaglia cieca e lontana, su la malga lontana vede ella d'improvviso la ferita schiudersi
nella neve che s'arrossa o mescolarsi al fango scalpitato che la corrompe, e il filo
bianco torce col suo cuore palpitante ella e il bigio conduce col suo cuore vigilante
ella, e un prodigio di carità trasfonde nella lana il calor del focolare, nella lana la
tempra dell'usbergo: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato. V. Quando colui che perse il
figliuol primo bevuto sino all'ultima sua stilla dal sitibondo Carso che mai non si
disseta, e il suo secondo ne' ghiacciai scomparso di là da quella mèta che si trapassa
per non ritornare, e il terzo sul calcàre candido come ossame al gelo della luna,
riverso, incoronato con le spine di ferro ch'ei tagliò tra legno e legno confitti come
croce al sacrificio dell'eroe sovrumano; quando colui non piange né dà segno di lacrime
ma pone la sua mano su la spalla dell'ultimo suo nato, su l'omero del fresco adolescente
fulgido di bellissimo dolore, che ricevuto ha in sé la grazia e il sangue dei suoi
fratelli e il fiato come se dentro il calice d'un fiore si celebrasse nova eucaristia;
quando colui non piange ma per via con la man dolcemente sospinge il giovinetto e
l'accompagna e l'offre e lo sacrifica e lo dona e dice all'Indicibile «Perdona se più
non ho che questo, ma questo prendi e me con lui se valgo»: quivi è l'Iddio verace, e
sia lodato. VI. Quando il ricco ha rossore degli agi suoi, e non s'indugia a mensa né
poltrisce, se pensa che alcun del sangue suo ha per tovaglia il sacco o la fascina, ha per
coltre la melma febbricosa nella fossa che pute; né si riscalda al ceppo sfavillante che
croscia su gli alari, perché sogna le bianche sentinelle perdute nei deserti di neve,
nella cerchia dei picchi invitti come il diamante, ai limitari della bàite irsute che la
sizza scoperchia, al sommo della rupe onde non più discende chi vi sale; ma rinunzia egli
i beni ed è l'eguale del povero che offre tutto che strappa alla fatica dura e il ben
senza figura riceve in abondanza per solo amore dell'amor che soffre: quivi è l'Iddio
verace, e sia lodato. VII. Quando la vecchia inferma e triste e sola, che logora con gli
ossi delle dita le lente avemarie senza parola tra morte e vita nella sua stanza fredda
come la soglia del sepolcro, pensa che le rimane un'ultima reliquia d'oro consunto, forse
nel mondo l'ultimo suo pane, e si leva e s'affanna e la ritrova, ed oblia la dimane poi
che il suo vespro è giunto; ed esce, quasi cieca, per l'incerta via seguitando il suon
delle campane, la melodia di Cristo antica e nova; ed in silenzio reca quell'offerta
all'urna che non parla; e poi torna nell'ombra per morire, e l'angelo è nell'ombra ad
aspettarla; ed un alito fresco come canto novello allevia la parete, che dispare; e nella
povertà di san Francesco, nella felicità del Poverello, ella non ha più fame né più
sete; e l'angelo sommesso le ripete il canto del Beato «Ma chi è dato più non si può
dare. Vivi morendo in pace»: quivi è l'Iddio verace, e sia lodato 22 gennaio 1916. La
preghiera di Doberdò 1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio
sul gradino spezzato dell'altare maggiore. 2. Per lo squarcio del tetto il mattino di
settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue
stìmate di amore. 3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia
lungo il muro superstite della povera casa di Dio. 4. Non ha più tovaglia la tavola
dell'altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né
messale, né leggìo. 5. A mucchio su la tavola dell'altare stanno gli elmetti dei morti,
le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange. 6. Gli elmetti ammaccati,
scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di
sudore, intriso di sangue. 7. Gli elmetti ch'eran tenuti dalla soga sotto il mento dei
morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura. 8. Le scarpe ch'eran
rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e
furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l'orlo della
sepoltura. 9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia
morranno, gravano l'altare del sacrificio incruento. 10. Solo v'è con le spoglie il
Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un'imagine di purità e di patimento. 11. Il
medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno
malferma scrive le sue tristi tabelle. 12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente,
simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno,
poggiano le bianche barelle. 13. I feriti dell'assalto notturno, discesi dalle trincee
scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia.
14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o
rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso
d'infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia.
15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano
che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un
filo, ov'è scritta la piaga e la sorte. 16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi
stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio
del tetto se non si curvi sul loro patire l'angelo col dìttamo bianco o col papavero nero
la morte. 17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall'ascia
latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca. 18.
Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude
taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca. 19. Biondi e foschi, pallidi come
l'abete della gabbia che chiude la granata dall'ogiva d'acciaio, fuligginosi come se
escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda. 20. Sembrano corpi formati di terra con in
sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo
rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d'ogni benda. 21. Pochi su poca
paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della
Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta. 22. E, com'essi respirano ed
ansano, il luogo si riempie d'una santità vivente come quella che precede il Signore
quando si manifesta. 23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i
grumi, con negli occhi di fiera l'ardore intento della fede novella, non è simile ai
giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il
Figliuolo dell'uomo non avea pur dove posare la guancia? 24. E questo imberbe dallo
sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio
che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni
il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia? 25.
Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti,
le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in
ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale. 26. E qui sanguina
l'Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania
felice, sanguina Sicilia l'aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in
disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna
immortale. 27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di
porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria?
28. È l'artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio
vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di là dalla vittoria? 29. Silenzio,
umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s'addorme, col braccio sotto
la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare. 30. Entra una barella
carica d'altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d'elmetti forati. Si ferma
davanti all'altare. 31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi
come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue. 32. Le scarpe lorde
di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d'erba calcata, con
qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui
piange. 33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che
scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s'ode. Tanto ama, e rompersi non s'ode il suo
petto. 34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba
prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l'infermo
della piscina, l'uomo di Betesda, sul letto. 35. Forse non sa ch'egli è cieco. E dice
anch'egli forse nel cuore: «Figliuolo dell'uomo, abbi misericordia di me». Ed ecco
appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov'è scritto il male e il
destino. 36. Ma d'improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine
spersa, l'ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l'altare.
Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l'ambascia, l'attesa. Getta un grido, due gridi.
Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino. 37. E il Santo rapito si volge alla creatura di
Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E
tutte si volgono rapite alla messaggera d'una stagione sublime le facce del glorioso
dolore. 38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul
gomito, con l'anima trapassa le fasce, si tende verso l'ala invisibile che muove l'aura
del miracolo intorn. E ode ridiscendere nella casa disfatta il Signore. Novena di San
Francesco d'Assisi. Settembre 1916. A Luigi Cadorna Questo che in te si compie anno di
sorte l'Italia l'alza in cima della spada, trionfal segno; e la sua rossa strada ne brilla
insino alle fraterne porte. Tu tendi la potenza della morte come un arco tra il Vòdice e
l'Ermada; torci l'Isonzo indomito, ove guada la tua vittoria, col tuo pugno forte. Giovine
sei, rinato dalla terra sitibonda, balzato su dal duro Carso col fiore dei tuoi fanti
imberbi. Questo che in te si compie anno di guerra scrolli da te, avido del futuro; e al
domani terribile ti serbi. 4 settembre 1917. La canzone del Quarnaro Tibi cornua
nigrescunt Nobis arma dum clarescunt. Siamo trenta d'una sorte, e trentuno con la morte.
EIA, l'ultima! Alalà! Siamo trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte: secco fegato,
cuor duro, cuoia dure, dura fronte, mani macchine armi pronte, e la morte a paro a paro.
EIA, carne del Carnaro! Alalà! Con un' ostia tricolore ognun s'è comunicato. Come piaga
incrudelita coce il rosso nel costato, ed il verde disperato rinforzisce il fiele amaro.
EIA, sale del Quarnaro! Alalà! Tutti tornano, o nessuno. Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno, quella che non ci spaventa, con in pugno la sementa da gittar
nel solco avaro. EIA, fondo del Quarnaro! Alalà! Quella torna, con in pugno il buon seme
della schiatta, la fedel seminatrice, dov'è merce la disfatta, dove un Zanche la baratta
e la dà per un denaro. EIA, pianto del Quarnaro! Alalà! Il profumo dell'Italia è tra
Unie e Promontore. Da Lussin, da Val d'Augusto vien l'odor di Roma al cuore. Improvviso
nasce un fiore su dal bronzo e dall'acciaro. EIA, patria del Quarnaro.~ Alalà! Ecco
l'isole di sasso che l'ulivo fa d'argento. Ecco l'irte groppe, gli ossi delle schiene,
sottovento. Dolce è ogni albero stento, ogni sasso arido è caro. EIA, patria del
Quarnaro! Alalà! Il lentisco il lauro il mirto fanno incenso alla Levrera. Monta su per i
valloni la fumea di primavera, copre tutta la costiera, senza luna e senza faro. EIA,
patria del Quarnaro! Alalà! Dentro i covi degli Uscocchi sta la bora e ci dà posa.
Abbiam Cherso per mezzana, abbiam Veglia per isposa, e la parentela ossosa tutta a nozze
di corsaro. EIA, mirto del Quarnaro! Alalà! Festa grande. Albona rugge ritta in piè su
la collina. Il ruggito della belva scrolla tutta Farasina. Contro sfida leonina ecco
ragghio di somaro. EIA, guardie del Quarnaro! Alalà! Fiume fa le luminarie nuziali. In
tutto l'arco della notte fuochi e stelle. Sul suo scoglio erto è San Marco. E da ostro
segna il varco alla prua che vede chiaro. EIA, sbarre del Quarnaro! Alalà! Dove son gli
impiccatori degli eroi? Tra le lenzuola? Dove sono i portuali che millantano da Pola? A
covar la gloriola cinquantenne entro il riparo? EIA, chiocce del Quarnaro! Alalà! Dove
sono gli ammiragli d'arzanà? Su la ciambella? Santabarbara è sapone, è capestro ogni
cordella nella ex voto navicella dedicata a san Nazaro. EIA, schiuma del Quamaro! Alalà!
Da Lussin alla Merlera, da Calluda ad Abazia, per il largo e per il lungo siam signori in
signoria. Padre Dante, e con la scia facciam «tutto il loco varo». EIA, mastro del
Quarnaro! Alalà! Siamo trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte: secco fegato, cuor
duro, cuoia dure, dura fronte, mani macchine armi pronte, e la morte a paro a paro. EIA,
carne dal Carnaro! Alalà! 11 febbraio 1918.
All'America in armi While we are marching on! LA CANZONE DI JOHN BROWN
I. 1. Mattino oceanico della Libertà alzata sul fondamento di sangue e d'anima dalle
spalle dei suoi tredici artieri, 2. giorno della giovine Republica che delle tredici
colonie fece il fascio consolare di tredici verghe intorno alla scure dei pionieri, 3. gli
Italiani lodano l'Iddio che lor concesse di salutarti oggi in piedi sotto il croscio della
vittoria romana, 4. essi che oggi ti danno, o Libertà, per tuo diadema il sasso scolpito
del Grappa e ti danno il Piave flessibile per tua collana. 5. O Terrestre, lasciato hai il
tuo piedestallo solitario e non voli, ma cammini stampando la terra co' tuoi calcagni
senza calzati. 6. Guardaci. Siamo il tuo amore. Amiamo il lampo de' tuoi occhi più che il
guizzo dei nostri focolari. 7. Guardaci. Riconosci il tuo amore. Abbiamo combattuto per te
divinamente come la giovinezza del mondo pugnava a Maratona. 8. Per questo tuo giorno, con
la mano della vita e con la mano della morte, liberali entrambe, abbiamo tessuto la tua
corona. 9. La corona di spighe alla Fertile! L'ora del combattimento fu l'ora della messe
per la Madre degli eroi e delle biade. 10. Per mietere, la sua gente ha impugnato le
falci; e per uccidere ha brandito le spade. 11. S'inchinarono le messi e brillarono nel
vento come le schiere nella battaglia. 12. Rinasce a noi un pane vittorioso, e ai nostri
dolci feriti si rinnova il letto di paglia. 13. Abbiamo mietuto e abbiamo combattuto, con
la faccia sempre volta a oriente. 14. Riarsi, abbiamo bevuto alla più profonda delle
nostre piaghe come alla sorgente. 15. O Libertà, ma la collina tumida tra Nervesa e
Biàdene ci nutriva come la tua mammella. 16. Per sette dì e per sette notti i petti
eroici ne trassero una forza sempre novella. 17. Per sette mattini gli eroi videro te
levarti dall'Adriatico prima del sole e aprire al giorno la porta. 18. Gridarono:
«Benché tu ci uccida, lèvati. Lèvati, e che tutti moriamo per te, non importa». 19.
È questo il grido di questo giorno, più alto che i gridi delle aquile d'Eschilo, più
selvaggio che i gridi delle Erine di Dante. 20. È il grido che comanda alla battaglia di
riaccendersi e al tempo di sostare e ai morti di risorgere e ai vivi di moltiplicarsi nel
sangue. II. 21. Come i vasti cavalli criniti di spuma nell'oceano che uguagli, come le
miriadi dei corsieri spumanti nell'Atlantico indomo, 22. i flutti del tuo vigore, o
Republica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza
dell'uomo. 23. Gli eroi morienti con occhi pio che umani guardano levarsi la tua luce dove
il loro sole si colca. 24. E pensano: «O eternità del mare, non sapesti mai forza più
bella di questo spirito che ti solca». 25. Non ti fa bella, o Republica, l'immenso tuo
cumulo d'oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi genii senz'ali, 26.
non l'ascia tua celere che ti muta in chiare città le tue selve, non l'impeto delle aeree
tue case che ti sono le tue cattedrali, 27. non il numero delle tue macchine schiave che
servono i tuoi lucri e i tuoi agi, non l'orgoglio che le tue stirpi arroventa e martella,
28. ma una parola che in te parlò una voce republicana, una parola ti fa la più bella.
29. E di sùbito il tuo oro e tutti i tuoi metalli e tutte le tue fucine e tutte le tue
genti non sono se non luce operante. 30. Tutta sei luce. E fin l'oscurità delle tue
miniere s'irraggia, così che il tuo nero carbone t'è diamante. 31. Teco sono le sorgenti
solari, negli occhi tuoi fissi. Dalla fronte al calcagno, tutta quanta sei luce. 32. Sopra
l'oceano che è la tua anima vera, l'ora prima, l'ora bianca dell'Alba a noi ti conduce.
33. Innanzi che le mille e mille tue prore fendano il cielo e il mare, la tua parola
risana il cuore profondo della terra gonfio di doglia. 34. Rescissa dal ferro, incesa dal
fuoco, intrisa di sangue, la divina radice per te rigermoglia. 35. T'avevam conosciuta e
disconosciuta, t'avevamo amata e poi rinnegata prima che il gallo cantasse. 36. Troppo
aspettammo che i colpi del tuo vecchio tamburo riscotessero le tarde tue masse. 37. Dato
avevi due volte il tuo messaggio col sigillo purpureo, due volte vestita di porpora; e il
tuo terzo era atteso dai vivi e dai morti nella notte feroce. 38. Gloria! Agitasti alfine
la tua bandiera seminando dalle sue pieghe le stelle; e nella notte sfolgorò la tua voce.
39. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale.
Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra. 40. Se
questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta
e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.»
III. 41. In marcia! La vecchia canzone di John Brown, radicata nella memore gleba,
riscoppia come il fiore dell'agave ardente. 42. Dal fondo degli anni ritorna e si spande
il rombo dei bronzi che sonarono il transito del martire nell'Occidente. 43. In marcia! la
semenza è fervida. Gli uomini nuovi bàlzano in armi dai tuoi solchi fulvi e dalle tue
bianche strade. 44. Recando nel pugno il tuo gruppo di stelle, cacciano in fuga la pace
ignobile da tutte le tue contrade. 45. In marcia! Come nella valle dello Shenandoah, c'è
il ferro e c'è il fuoco, c'è il sangue e c'è il sudore, c'è il fiele e c'è il pianto,
l'urlo e il lagno, la sete e la fame, la falange spedita e il branco immondo. 46. In
marcia! Come allora, nella selva, nell'alpe, nel piano, sul fiume, sul lago, sul mare,
l'uomo inventi la sua vita e la sua morte ogni giorno. Non v'è più sonno. Non v'è più
tregua. Non v'è più respiro. In marcia verso la battaglia del mondo! 47. Si sveglia,
laggiù, nella dolce valle virginiana ove geme l'uccello notturno, si sveglia Stonewall
Jackson e sente il suo sangue che tuttavia cola, e ordina: «Avanti!». 48. Si poggia sul
gomito sano, solleva con l'anima il suo braccio stroncato, lascia pendere i suoi rossi
brandelli, e ordina con la voce d'allora: «Portate innanzi i miei fanti!». 49. Balza di
nuovo in sella Philip Sheridan fiutando la disfatta lontana, mette il suo cuore in bocca
al suo baio; e galoppa le sue venti miglia. 50. Non ha in bocca né cuore né freno il
cavallo. Il cuore fu più veloce dei quattro suoi zoccoli. E, quando arriva, la vittoria
gli prende la briglia. 51. «Navi! Navi! Navi!» grida David Farragut, l'affondatore di
arieti, l'incendiatore di zattere, lo spezzator di catene, a cui furono armi fedeli lo
sperone diritto e l'anima ignuda. 52. Qual passo è da forzare? qual porto da violare?
qual corazza da fendere? È pallido. Gli ruppe nel sepolcro i sonni e le glorie l'eroe di
Premuda. 53. «Ali! Ali! Ali!» grida non il vittorioso che balza dalla tomba all'appello,
né la giovine cerna anelante, né la folla dal piè di tempesta; 54. ma la stessa
vittoria che, come quella d'Atene, non ha negli òmeri penne e non migra, sì arma la sua
specie nei cieli a miriadi e con noi resta. 55. Resta con noi sul Piave, resta con noi su
la Marna, con noi su i santissimi fiumi, con noi sopra i monti sublimi, con noi dove le è
suora corporale la morte. 56. O Liberatrice, il tuono è incessante. Il fragore lacera il
cielo come un velario che si ritessa. La nube infame acceca e soffoca la battaglia. Il
coraggio ansa e soffre. Tutto è martirio celato. Ma la tua statura è più alta, ma la
tua voce è più forte. 57. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la
morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la
guerra. 58. Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le
falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il
pane della terra. 59. Siamo in marcia, non truppe noverate e marchiate come le greggi, non
eserciti cacciati col pungolo come le mandre. Un popolo armato s'avanza. Consacra le sue
stelle al Futuro. 60. In marcia! Fino a quando? Fino a che la via d'oriente, fino a che la
via d'occidente non sia libera. Fino a che tra i quattro vènti del mondo la Libertà non
sia sola con l'uomo. Fino a che non si compia il cammino del tempo, se non bastino al
cómpito gli anni. Una fede armata s'avanza. Consacra i suoi segni al Futuro.» IV luglio
1918.
La preghiera di Sernaglia
I. 1. Chi risponde? La bocca d'un uomo può dunque portare una parola che pesa come il
sangue di tutti? 2. Chi risponde? È la voce d'un uomo questa che varca l'oceano inespiato
e gonfia i suoi flutti? 3. Chi giudica? Lo spirito solo d'un uomo si fa spada infallibile
e taglia il groppo di tutte le sorti? 4. Chi giudica? Chi è che non teme di parlare là
dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti? 5. Ha egli imposto l'alterno suo polso a
quel mare implacato che non ebbe mai rive a serrar le procelle? 6. Ha egli come il re
tebano sposato la novella Armonia, e alla città spirtale cantato le leggi novelle? 7. Chi
s'alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fumante? 8. Donde
è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l'esule Dante?
9. O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge? 10. O
solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo libro, che nessun vento ignoto
sconvolge? 11. Non so, né m'inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba
e sillaba accorti. 12. Serro l'animo spietato nel cuore, l'arma provata nel pugno; e
ascolto il silenzio di Dio e dei morti.
II.
13. Chi risponde? Chi giudica? Non l'uomo seduto, né l'uomo diritto, né il codice né la
bilancia. 14. Risponde chi per parlare sputa il fango ch'ei morse cadendo o si netta dalle
lacrime di sangue la guancia. 15. Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e
l'ambascia, col giogo bestiale sul collo. 16. Risponde chi col moncherino grondante
scrisse l'abominio e il taglione sul muro superstite al crollo. 17. Risponde chi nel
patire eccedette i limiti del patimento posti al misero dalla pietà del Signore. 18.
Risponde l'umana e divina agonia cui fu Ghetsèmani tutta la terra cospersa di atroce
sudore. 19. E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Figliuol d'uomo? Ecco. Mano per
mano, dente per dente, occhio per occhio. 20. Non il sermone laborioso ma il doppio taglio
della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio. 21. Il Figliuol d'uomo essi tolsero
di croce non per comporlo nella pietra col panno lino e l'unguento, 22. ma per
riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziarlo d'ingiurie e partirsi il suo vestimento.
23. Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero
vincoli e corde: 24. vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazioni, corde per
strangolarle a stràscino, o Misericorde. III. 25. Non sono un rammemoratore d'immemori e
un riscotitore d'ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa. 26. O
pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa! 27.
Che mai resta nel mondo, ch'essi non abbiano guasto e corrotto? Più pestilente è il lor
fiato che il vomito dell'avvoltoio. 28. Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra
dominio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di macine, e la terra il lor grande frantoio.
29. Hanno arsi i duomi di Dio dove battezzammo i nostri nati, portammo le nostre bare,
prostrammo il nostro cuor tristo. 30. Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre
campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo. 31. Lordato hanno
le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito ogni solco, divelto ogni erba e
ogni fusto, 32. disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne,
fatto monco ogni fanciullo robusto. 33. Il lagno d'Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son
piene di vomito e di lordure; luogo non v'è più, che sia mondo». 34. Ma Colui che già
pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse
nell'Orto, oggi piangere non può sopra il mondo.
IV.
35. Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l'omero scarno, né inchiodate le
palme all'infamia, né i piedi trafitti. 36. Né sfolgora come quando l'angelo rotolò dal
sepolcro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici afflitti. 37. Ma lo vede ogni
fante, simile a sé, con l'elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col
sangue del fante, allato allato. 38. Cade anch'Egli, come quando portava la croce; cade e
si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende la sua arme e il suo fiato. 39.
Resiste, perdura, persevera, a fianco dell'uomo. All'uomo dona il suo cuore divino e la
sua lena immortale. 40. Si volge l'ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e
vede al suo fianco penare e lottare un eguale. 41. Lotta Egli e pena con noi. La sua
arsura, che lambì la spugna intrisa nell'aceto e nel fiele, si disseta alla nostra
borraccia. 42. Suda e ansa con noi. L'offerta rinnova del suo sacrifizio ogni giorno
spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia. 43. Egli che all'ora di nona
gridò: «Dio mio, perché m'hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l'intera vittoria
agli eroi. 44. Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l'eletto di Dio, salva te
stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.» 45. Or Egli vince. Con noi vince.
Chi credette nell'anima, ora vince per l'anima. Chi accettò la morte, ecco vince per la
vita immortale. 46. La forza dell'anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in
carne tanta non sente il suo male. 47. Chi l'arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove
gli impenetrabili petti? Dov'è mai la lor ferrata muraglia? 48. Quel che in Dio fu detto
è ridetto: «Son fuggiti dinanzi alle spade, dinanzi alla spada tratta, dinanzi all'arco
teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia». 49. Quel che in Dio fu detto è ridetto:
«Guai a te che predi e non fosti predato. Quando finito avrai di predare, predato sarai
tu senza mora». 50. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto
dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?». L'aurora! L'aurora!
V.
51. O stagione di rapimento improvvisa, che la primavera non sei e non l'autunno ma quella
dove il lauro eternale allega i suoi frutti! 52. O spirito rapido che rifecondi le piaghe
della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti! 53.
O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l'orgoglio al cuor della
Patria e sino alla sua fronte il vermiglio! 54. O valli disgombre dove torna una così
pura dolcezza che i morti sembran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio! 55. O
canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alzati dall'agonia degli oppressi che
sentono i liberatori alle porte! 56. O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e
vergogna, soma e ambascia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo,
o vittoria di là dalla morte! 57. Chi muterà questa grandezza e questa bellezza
impetuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d'inganni? 58. Inchiostro di
scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ricomperato il martirio degli anni?
59. Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il ceffo
compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce. 60. Stampategli il
marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in
paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce. 61. E passate oltre. Vi precedono i morti.
Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l'osso del tallone integro per
calcare la terra straniera. 62. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l'anima delle
creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere
nella preghiera». 63. Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i
ginocchi né tarparti le penne. Dove corti? dove sali? 64. La tua corsa è di là dalla
notte. Il tuo volo è di là dall'aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cieli
sono men vasti delle tue ali». Novena di tutti i Santi. Ottobre 1918.
Cantico per l'ottava della vittoria
Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore. E vendica la potenza del canto sul
clamore, o Verità cinta di quercia. Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro che
la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo mal mondato nel trivio bercia. Verità cinta di
lauro, ben tu oggi mi scegli come quando su lo strame d'Italia i tristi vegli rumavan la
menzogna stracchi e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra al Cielo al Mare agli
Eroi, meco armata alla guerra contro il sogghigno dei vigliacchi. O domatrice di fuochi,
foggiami tu quest'ode e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode mi trema e condurla
non posso. Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta. E rimbombare odo dentro di me,
come alla porta del tempio, uno scudo percosso. Patria! Il terribile e dolce nome chiamare
voglio. Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio percote lo scudo
raggiante? Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice. E il cielo è tanto a noi
chiaro, sol perché Beatrice rivede sorridere Dante. Come chi chiama la luce pel suo nome
divino, come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino comanda che nasca dal mare, o
Patria, così ti chiama colui che trascolora di dolcezza e di spavento. Non tu sembri
un'aurora che abbia volontà di cantare? Palpiti come un' aurora colma di melodia, come
un'aurora chiomata d'astri ignoti, che sia apparsa alla soglia del mondo. Dalle calcagna
possenti fino alle rosee dita non sei se non il preludio della novella vita, una nell'alto
e nel profondo. E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'aurora a cui ti facemmo sacra
con l'aratro e la prora quando la notte era su noi. La notte pallida s'apre come si
squarcia un velo. Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo il mare la terra e gli
eroi. Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta da secoli per cantare quest'inno che
sovrasta la speranza e supera il fato. Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima ti
rapì nel Paradiso dov'arde su la cima dell'amore il verso stellato. Tutto è voce
numerosa, tutto è numero e modo in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odo fra il
Tevere e il Capitolino. Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana. T'odo fra le
Dolomiti rosse e la Puglia piana. E l'Istria è un sol coro latino. E il leone di Parenzo
rugge col miele in gola. E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola si prodiga
all'arcato abbraccio. E le città di Dalmazia si scingono sul mare cantando dai bei veroni
veneti, bionde e chiare nell'ambra di Vettor Carpaccio. E Zara è la prima, Zara nostra,
rocca di fede, ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiede di Santa Maria
Zobenigo, tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia, ridorata come quando Venezia si
rispecchia nell'oro sciolta dal caligo. E la seconda non fulge sopra il riposto mare dalla
gran nave di sasso, tra battistero e altare, ma per gli occhi del suo veggente, ma per gli
occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi dall'ardore del futuro ch'egli vede levarsi
oggi dal sangue immortalmente. O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi, la
cecità del profeta reduce dai tre mondi anch'egli ma senza corona! O Spàlato imperiale,
Spàlato piena d'arche sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche sopra le tombe di
Salona! O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne dàlmate la più dorata! Sei
nelle tue colonne come il fuoco nell'alabastro. La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto
l'artiglio il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio il tuo cipresso nell'incastro.
La sùbita primavera si crinisce di pioggia. La rondine d'oriente torna nella tua loggia
ad annunciar la Santa Entrata. Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardi e li
spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi, o tu che sei la più dorata. E danzano la tua
gioia lungh'essa la tua costa le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta, e coi cembali
e col saltero. O Solta ricca di miele che sa di rosmarino! O sasso della Donzella dove
l'amor latino rinnovellò la morte d'Ero! E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa. E la
vittoria navale coglie il lauro e la rosa nell'oleandro di Lacroma. E la Libertà dal
vasto petto, l'unica Musa, canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa; e tu bevi il
carme di Roma. Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito, canto nato col
mattino. Tocca il cuore ferito degli eroi nella terra nera. Schiude fin le tristi labbra
dei giovinetti muti nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti quando la grande alba non
era. Si levano gli insepolti, si levano i sepolti: al sommo del loro ossame portano i loro
volti trasfigurati, l'ebre gole. Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi come se
in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi spirasse il cantico del sole. Nei valichi
dello Stelvio, nei passi del Tonale, nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale
tagliò come ceppo d'abeto, nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna, nella
Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugna per baciar laggiù Rovereto; e tra l'Astico e
il Rio Freddo, di girone in girone, negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone, che
sono i fratelli del Grappa, essi cantano con calde bocche, riavvampati da un sangue
repente; e vanno, s'accrescono, soldati della luce, di tappa in tappa. Chi è con loro?
Chi viene, riavvampato anch'esso di gioventù sovrumana, come aveva promesso? «Ch'io
venga anche all'ultima guerra! Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stella d'Italia
su la Verruca! Cinghiatemi alla sella. Ma ch'io venga all'ultima guerra!» Giovine,
giovine come nell'estancia, a Maromba, alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la
tromba dal Vascello e dalla Corsina sonò su Roma serva slargando col selvaggio squillo
gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio della nova gloria latina, giovine e con
la criniera fulva come l'estate, sul gran stallone di neve dalle froge rosate, che per ala
ha il candido manto, cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente, fiso alla morte, e
l'amore della sua morta gente l'inalza alla vita del canto. O vita! O morte! Il mio canto
vien di sotterra o spira dal mio petto? Son io servo dell'inno senza lira o son io signore
del fato? Tutte le vie della notte furon da me percorse per amor del tuo mattino, Patria.
Ma so io forse come questo giorno m'è nato? Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto
i doni della trasfiguratrice? Che val se m'incoroni? O fine delle cose impure! Son nel
carcere dell'ossa, nei lacci delle vene, e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle
arene, in tutte le tue creature. Con una meravigliosa gioia tesi le mani a rapir la morte.
E sempre diceva ella: «Domani». Sempre diceva ella: «Più alto!». La inseguii di là
da ogni mèta al mio cor promessa. Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa
il volo la schiuma l'assalto. O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso? e perché fu
ingannata l'anima? Avevo chiuso te nell'arca e la mia speranza, tra i cipressi di
Aquileia. Silenziosamente avevo teco bevuto l'acqua senza sorgente e celebrato l'alleanza.
Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi. L'arcangelo del mio nome, nel dì
del Resurressi, ha scoperchiato il sasso cavo. E tu, Dioscuro, franco del cavallo e
dell'asta, sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta forza nel lustrale Timavo. Ma
dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era? Non l'avevano raccolto dentro la tua
bandiera stessa i compagni di ardore. Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante
dell'ala avevan disteso, né con le foglie sante coperto il nudato suo cuore; né veduto
di tra le foglie dell'alloro pugnace ardere subitamente nel profondo torace un fiore
perfetto di fuoco. Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale. Ma, se la vita è
mortale, se la morte è immortale, in te vita e morte oggi invoco. Nella mia bocca ho il
tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato. Si fa mattutino canto lo spirito esalato.
L'agonia si fa melodia. Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo. La notte
pallida s'apre come si squarcia un velo. Regna «colui che più s'indìa». Come chi
chiama la luce pel suo nome divino, come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dall'acque, o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore e sono il
tuo testimonio. Se m'odi, il mio amore sa come questo giorno nacque. Sto tra la vita e la
morte, vate senza corona. Da oriente a ponente l'inno prima s'intona: «La vita riculmina
in gloria!». Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo. Da ostro a
settentrione scroscia l'inno secondo: «La morte s'abissa in vittoria!». 3-11 novembre
1918.
NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA
Sur une image de la France croisée Une lettre adressée à M. Alfred Campus, directeur du
Figaro, accompagnait l'envoit de ces poèmes: «Mon cher ami, je pars pour Gênes. On va
jeter le dé. Ce qui n'est pas arrivé sous le signe du Bélier, va arriver sous le signe
du Taureau. Cette bte zodiacale a un front encore plus dur, frontem duriorem frontibus
eorum. De Gênes vous recevrez, de grandes nouvelles. J'ai composé quatre sonnets d'amour
pour la France, et je les publie au profit de la Croix-Rouge de France, du Vestiaire des
Blessés et de l'Hôpital auxiliaire du Val-de-Grâce n. II.(institution italienne). Ils
sont inédits. J'aimerais les donner eu public français en guise d'adieu, Voutez-vous les
publier dans le Figaro, le matin du 5 mai? A la même heure nous serons des alliés. Au
revoir, cher ami. Je vous serre le main bien affectueusement. En hâte, votre G. D'A. Ce 3
mai 1915. Ode alla nazione Serba Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine
che fece (nell'anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita
di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò
la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol
suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell'anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei
Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo». Lazaro Greblanovic, conte,
creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l'ultimo re grande di Serbia. Ebba Mìliza per
donna, d'insigne sangue, d'animo insigne. Nell'anno 1389 sul piano di Cossovo fu dal Turco
reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella
corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i
santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui
costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei
poveretti». Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del
vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e
periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l'oste loro» si
narra nel carme eroico. Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il
più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava
Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio
assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche
migliaio d'uomini sostenne maravigliosamente, l'assedio. Senza più vettovaglia, senza
munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia
d'un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò
le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in
lontananza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo,
salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo
de' suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a
squarciagola: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo.
Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa
ostile gridando: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo.
Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate. Ma fu, una mattina, nel fare
la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due
lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi
è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati. Vucàssino ammazzato il pio
imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di
despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vicenda di
vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella
Màriza sanguinosa (1372) Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto
Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione
serba. Quando Marco ebbe trecent'anni, trecent'anni di giustizia e di guerra, la Vila gli
annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non
quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s'ode il suo grande cavallo
macchiato nitrire, e la spada è già nuda... Uno dei canti epici più belli racconta come
Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiudicare l'impero fra i contendenti. «Re
Vucàssino dice: "è mio". Uliesa despoto: "no, gli è mio". Il
voivoda Goico: "no, ch'è mio".» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che
è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: "ad Urosio l'impero".» Le
Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a
soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi,
sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono.
Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come
combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per
lei «dalla fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio
accendeva lo spento coraggio de' suoi». Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e
Costanza Morosini (1321)furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de'
Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia di Orosia. FINE
Torna alla homepage di Enrico Giustiniani