I GIUSTINIANI CERAMISTI DI NAPOLI
notizie ed immagini tratte dal sito: www.recuperando.it
Ringrazio il dott. Alessandro Albano (alessandroalbano954@gmail.com), per le notizie estratte della sua tesi di laurea: "La manifattura Giustiniani: Genealogia, fortuna e catalogo")

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A sinistra Pannello maiolicato con Madonna della Sanità seduta su nuvole con in braccio il bambino, in una cornice dai motivi floreali in cui dominano il giallo cerretese e il turchino porpora, chiesa della SS. Madonna della Sanità, Antonio Giustiniani, 1727, San Lorenzello. Al centro Pannello «a riggiole» raffigurante San Pasquale, Convento di Santa Maria Occorrevole, Antonio Giustiniani, prima metà del XVIII sec., Piedimonte Matese. A sinistra, Fuga in Egitto, «a riggiole», Convento della «Solitudine», Convento della «Solitudine», Antonio Giustiniani, prima metà del XVIII sec., Piedimonte Matese.

ALCUNE NOTIZIE STORICHE SUI GIUSTINIANI ANTICHI CERAMISTI DI NAPOLI
Fino al 1981 le conoscenze erano limitate alla generazione di ceramisti di tale cognome, attivi tra la fine del Sei ed i primi decenni del Settecento, per altro documentati proprio con la qualifica di Riggiolari. Costoro rispondevano ai nomi di Ignazio di Matteo Giustiniani (nato nel 1686 e autore del pavimento di Sant'Andrea delle Dame) e di Ascenzo e Domenico Antonio Giustiniani, di cui non si avevano dati anagrafici, ma attivi nella seconda metà del Seicento e che ebbe numerosa prole. Infine risultavano ancora Giuseppe e Carmine Giustiniani, anch'essi poco noti.
La nascita dell’antica dinastia di ceramisti dei Giustiniani di Napoli si fa risalire al Cinquecento quando il capostipite della famiglia Giovanni di Giustiniano detto anche Giustiniano di “Nozzo”, attivo nella seconda metà del Cinquecento, nel borgo di Castelli d’Abruzzo dove il 20 novembre 1577 sposa Porfiria D’Antonio. Giustiniano da questo matrimonio ebbe due figli che divennero i primi esponenti dei due rami nei quali la famiglia abruzzese poi si divise: il primo ramo è capeggiato da Andrea di Giustiniano, il cui nipote Sante di Francesco di Andrea di Giustiniano di Nozzo formò la nuova famiglia castellana dei De Santis (cognome nato dalla mutazione del patronimico poi cognome “Di Sante” in “De Santi”), che si estingue all’inizio del XX secolo nel centro abruzzese. Il secondo ramo è rappresentato da Giovanni Nobile (1587-1673) detto Annunzio di Giustiniano di Nozzo, che mantenne il patronimico “Giustiniano” mutandolo nel futuro cognome “Giustiniani”.
Presumibilmente, quindi, le origini del più antico esponente noto e attivo sul territorio campano Ambrogio Giustiniani di Castelli e dei suoi figli Domenico Antonio e Ascenzio Giustiniani attivi a Vietri sul Mare, si legano a questo ultimo ramo. La loro presenza a Vietri si colloca nell’ambito dei frequenti spostamenti di maestranze abruzzesi che interessarono questo centro, avvenuti con una prima ondata verso gli ultimi decenni del XVI secolo e con una seconda nella seconda metà del XVII secolo. La prima attestazione di Ambrogio e figli a Vietri risale al 1665 e ci riferisce dell’occupazione di Ambrogio come “pittore di faenze” insieme a Domenico Antonio nella bottega di Carmine Cantarella. Nel contesto vietrese Ambrogio risulta poi nel 1666 gestire insieme a Domenico Frezza la bottega di Carlo Loffredo.
Il 1669 è probabilmente l’anno del suo trasferimento a Napoli dove tra 1600 e 1700 lavorano altri ceramisti dal cognome Giustiniani riunibili insieme alla stirpe vietrese in quattro rami familiari ben distinti: Il primo composto da Ambrosio Giustiniani e da suo figlio Matteo Giustiniani (nato intorno al 1676) dimorante presso le case di Giovanni D’Aragona. Il secondo che vede un altro Matteo Giustiniani, nato circa dieci anni prima del precedente (1666), che nel 1735 partecipò al cantiere del Palazzo del Principe di Tarsia, diretto da Domenico Antonio Vaccaro, insieme ad altri eccellenti ceramisti come Carmine Porreca, Donato Massa e Leonardo Chiaiese. Il 16 ottobre 1686 nasce suo figlio Ignazio Giustiniani, avuto dal matrimonio con Carminella Prisco, il quale a sua volta il 16 febbraio 1706 sposa Francesca D’Alessandro, e risiede con questa nel “Vicolo della faenza”. Ne1729 Ignazio realizzò il pavimento della Chiesa di Sant’Andrea delle Dame in cui riecheggia una decorazione naturalistica abbinata a festoni floreali sorretti da putti, circondati a loro volta da insetti e volatili policromi, in seguito risulta essere fra le maestranze del cantiere di Palazzo Corigliano dove lavorò fra il 1737 e il 1742. Egli non sarà l’unico Ignazio sul suolo napoletano. Nello stesso periodo risulta attivo a Napoli un altro Ignazio Giustiniani anche lui ceramista, nato l’8 giugno 1696 da Ascenzio Giustiniani e Grazia Amato, insieme ai fratelli Francesco, anch’egli ceramista, nato il 7 aprile 1792, marito di Carmela Guadagno sposata nel 1711 e Giacomo nato il 28 febbraio 1690, sposato con Agnese Sparano del 1708, con i quali costituisce il terzo ramo della discendenza napoletana. Non ci giunge però nessuna notizia dei loro lavori, tranne che per una ipotesi avvalorata dal Borrelli che vede Ignazio lavorare nella fabbrica di Via Marinella di Nicola Giustiniani, figlio di Antonio Giustiniani che insieme al padre Simone costituiva il quarto ed ultimo ramo familiare della discendenza napoletana dei Giustiniani ceramisti. Da recenti ricerche archivistiche sappiamo ora che Domenicantonio ed Ascenzio erano figli di un Ambrogio Giustiniani di Castelli, attivo a Vietri a partire dal 1665, quale pittore nella bottega di Carmine Cantarella. Nel 1666 è in società con Domenico Frezza di Vietri e gestiscono per cinque anni la bottega di Carlo Loffredo dove Ambrogio si impegna a pingere li vasi di dette faienza assieme ai figli Domenicantonio e Ascenzio. Ambrogio Giustiniani è ancora a Vietri nel 1669.
Così a Napoli, a partire dagli ultimi decenni del secolo XVII, i Riggiolari Giustiniani sono una schiera: Matteo (nato intorno al 1666) con il figlio Ignazio (1686). Poi ancora un altro Matteo Giustiniani (1676) figlio di Ambrosio e infine il noto Antonio Giustiniani (1689), che si trasferisce nel 1706 al Cerreto Sannita e dal quale nasce nel 1736 Nicola Giustiniani (1736-1815), il famoso ceramista poi soprannominato "Belpensiero".
E' proprio Belpensiero che fonda a Napoli nei primi anni della seconda metà del XVIII secolo (1700) la più nota delle antiche manifatture napoletane. Nel 1820 si installò in Via Marina nn. 10-16. in un bel palazzo la cui facciata fu decorata con scene Egizie. Tra il 1820 e il 1840 Giustiniani contava alle sue dipendenze 60 maestri e 120 aiutanti. La Fabbrica ebbe in quel periodo veri e propri trionfi nelle esposizioni degli anni '30, il merito fu di "Biagio", nipote di Belpensiero, particolarmente propenso a temi di ispirazione archeologica. La Manifattura trattava 11 diversi prodotti, tra questi elenchiamo: "Mattoni lisci da lastricare le stanze e variamente colorati a guazzo, ovvero a smalto, fatti di argilla d'Ischia inverniciata come la maiolica".

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Giustiniani, ramo Abruzzese e ramo Napoletano

I marchi Giustiniani sono parecchi: una semplice G impressa (1), Giustiniani in cartiglio ovale (2), due "GG" asimmetriche (3), M. Giustiniani in cartiglio tipo planta pedis (4), Giustiniani in cartiglio ovale con impresso anche il marchio GS (5), Giuseppe Giustiniani con due "GG" simmetriche (6).
Sono della Manifattura Giustiniani le più belle riggiole con motivi a tema Archeologico, famosa la grande riproduzione del "Mosaico di Alessandro" che fu acquistata anche dal principe prussiano Federico Guglielmo IV. Stupendi anche i cestini di vimini del Settecento (leggi di Matilde Romito "SMALTI E COLORI DEL MEDITERRANEO").

Molte furono le acquisizioni di altre manifatture minori (come quella di Cherinto Del Vecchio) fino a quando la stessa Giustiniani fu assorbita dalla emergente Famiglia STINGO (leggi di Agostino Bossi "LE TERRECOTTE NELLA TRADIZIONE PARTENOPEA"). Per l'esattezza fu Pasquale Stingo (1796-1856), decoratore ceramista, che sposò una figlia di Biagio Giustiniani da cui nacque Giuseppe (circa 1827-1885) che sposò Aurelia di Matteo e che rilevò verso il 1860 le fornaci di proprietà della famiglia Giustiniani. A Giuseppe succedette il figlio Camillo (1856-1926) che incrementò la pristina produzione di mattonelle decorate con disegni abruzzesi ('a riggiola 'mpetenata) con suppellettili in terracotta: vasi da fiori, statuette o motivi decorativi per esterno della casa, e successivamente di uso domestico per le attività interne. In questo periodo, alla fine dell'800 la fabbrica Stingo, in fase di forte espansione, assorbì la ditta Barberio , già attiva nella zona da più di un secolo. Tale attività fu continuata ed ampliata dai figli Giuseppe, Gennaro ed Enrico che operarono tra il 1900 e il 1950 circa, sempre fruendo dai vecchi forni Giustiniani , di volta in volta ricostruiti nella loro struttura originaria nella sede di Via Marina; li nel quartiere che va dal Lavinaio al Borgoloreto, dal Ponte della Maddalena alla Marinella, si erano installate fina dal '600 gran parte della fabbriche di ceramiche, spingendosi oltre le mura e abbandonando la zona del Mercato dove si trovavano precedentemente. Il concentramento in quell'area si è protratto fino al secolo scorso, per la presenza di corsi d'acqua molto utili alla lavorazione della ceramica, e per la vicinanza al mare, utile al fine di ridurre le spese di trasporto.
Notevoli in questo periodo gli interventi atti a ripristinare e conservare opere ceramiche in complessi quali San Severo alla Sanità, Il chiostro di Santa Chiara, il chiostro Gonzaga a San Martino, la pavimentazione della chiesa di Sant'Eligio, San Gregorio Armeno, la Cappella Pappacoda, la cupola della chiesa di San Marcellino, la rifazione, sua originale, del pronao della chiesa di Donnaregina.
Dopo la seconda guerra mondiale gli Stingo si trasferiscono nella zona di Poggioreale nella sede ancora oggi attiva in Via Stadera 91. Attività perpetrata da Imma e Simona Stingo.

ANTICA CERAMICA GIUSTINIANI
A Cerreto Sannita, piccola cittadina in provincia di Benevento, sorse una fabbrica di ceramica che, fin dal Medioevo, diede vita ad una produzione elegante e di straordinaria freschezza nella sua impronta rustica.
E', grazie al ritrovamento di alcune fornaci medioevali a San Lorenzello, piccolo centro vicino Cerreto, che si è potuto datare, con sicurezza, anche la produzione di Cerreto come anteriore al secolo XVI.
Nel 1668 la cittadina fu rasa al suolo dal terremoto, furono distrutte anche le fornaci e quindi andò dispersa anche gran parte della produzione ceramica; le fornaci saranno, poi, ricostruite quando si ricostruirà tutto il paese.
Attratti dal fervore delle opere per la ricostruzione di Cerreto, distrutta dal terremoto del 5 giugno 1688, e allettati anche dall'utilità di essere esentati dalle imposte, come previsto dagli Statuti, diversi artigiani, specie napoletani, si trasferirono, tra fine Seicento e inizi Settecento. Fra questi, diversi ceramisti.
In realtà il nostro feudatario Marzio Carata, anche perché intuiva l'importanza che in quel momento andava assumendo la produzione ceramica da cui avrebbe potuto trarre notevole vantaggio per il suo erario dissestato, favorì il sorgere, nella nuova Cerreto, di numerose botteghe figuline.
La ceramica cerretese ebbe un repertorio caratteristico composto da piatti, mattonelle, vasi da farmacia, zuppiere, formelle figurate, con motivi dominanti come i fiori, gli uccelli, le farfalle, ritratti con spontaneità popolaresca. I colori tipici furono il giallo ed il verde che ben risaltavano su un fondo di smalto bianco non puro, ma grigiastro o azzurrato.
Vasta fu anche la produzione di vasi ricchi di scanalature e motivi ornamentali e delle acquasantiere con putti, colonnine e festoni floreali che incorniciavano le figure sacre. Gli artisti che dettero vita a questa straordinaria produzione furono molti, ma su tutti prevalse il nome dei Giustiniani.
Tra i ceramisti venuti da Napoli: Antonio Giustiniano. Fu chiamato a Cerreto dal suo parente Niccolo Russo che aveva impiantato, insieme al laurentino Antonio Massone, una fornace nella quale lavorava Santi Festa, pure di San Lorenzello.
Figlio di Simone, apparteneva ad una delle antiche dinastie di maiolicari abitanti in via Marinella, ricca di fornaci. Rimasto vedovo, con cinque figli, della laurentina Vittoria Mazzarello, si risposò, il 21 dicembre 1719, con un'altra laurentina: Lucia Di Clemente, commorando a San Lorenzello cum familia et prole.
Aperta bottega abbascio la terra, incrementa la fervida attività, iniziata a Cerreto, lasciando da noi preziose testimonianze; innanzittutto il pannello incastonato nel timpano del portale della Congrega, datato e firmato ANTONIUS GIUSTINIANUS AFFATTO QUESTA DIVOZIONE. A.D. 1727

Antonio abitò al Lauretano fino al 1706 quando si trasferì nel borgo di Cerreto Sannita per lavorare nella nuova fabbrica del ceramista napoletano Nicola Russo, che approfittò della esenzione dalle tasse per ben cinque anni offerta dai Carafa ai forestieri che avessero impiantato una impresa nel nuovo borgo ricostruito dopo il terremoto del 1688. La presenza di Antonio a Cerreto è confermata essenzialmente da alcuni avvenimenti che lo vedono protagonista come il suo matrimonio nel 1708 con Vittoria Mazzarella, nata a San Lorenzello da Cesare e Marzia Nicolaro, da questo matrimonio avrà i primi cinque figli: Simone Giustiniani, il primogenito anche lui ceramista (8 gennaio 1710), Angela Isabella (9 maggio 1713), Francesco Biagio (23 marzo 1715), Angela Rosa (30 agosto 1716), Lorenzo Domenico (11 agosto 1718). Un'altra prova risale al 1720 quando è testimone insieme a Domenico Marchitto del matrimonio tra Domenico Scarano (altro importante maestro ceramista che il Russo chiamerà da Napoli) e Francesca Giustiniani, figlia di Gaetano Giustiniani, venuta a Cerreto nel 1710, dimorante in casa di Nicola Russo di cui era nipote.

Antonio non fu quindi l’unico Giustiniani a trasferirsi a Cerreto. In quel periodo si hanno notizie di altri componenti della famiglia che dimorano nel borgo sannita. Un certo Giuseppe Giustiniani, nato intorno al 1699, si spostò a Cerreto nel febbraio del 1708 per lavorare nella bottega del Russo, di cui era anch’egli nipote, qui rimase fino al 1723, anno in cui si sposò a Maddaloni con Ursula De Simone, che morì poco dopo, quindi si sposò una seconda volta il 19 maggio 1732 a Cerreto con Eugenia Giordano. Sfortunatamente anche questa consorte lo abbandonò prematuramente e solo dall’ultimo matrimonio con Orsola Iatomaso riuscì ad avere prole, ben sei figli: Angelo Pasquale (28 settembre 1734 - 13 novembre 1734), Antonia Grazia (4 maggio 1736 - 27 maggio 1736), Domenico Antonio (20 luglio 1737), Maria Antonia (7 gennaio 1739), Vincenzo Luciano (5 ottobre 1740 - 3 settembre 1742). Giuseppe morì poi a Cerreto il 12 marzo 1754 con nessuna opera nota a lui attribuibile. Un secondo Giuseppe Giustiniani risulta a Cerreto tra il 1742 e il 1743, cieco e non ceramista, ma cugino del maestro Antonio Giustiniani insieme al quale dimora. Domenico Giustiniani invece fu un attivo ceramista a Cerreto nella prima metà del Settecento, a lui sono infatti attribuiti un boccale trilobato decorato e un alberello monogrammato “D.G”, con la scritta “CERRETO”, conservato al Museo Civico di Piedimonte Matese, datati rispettivamente 1721 e 1736. Questi pezzi sono contraddistinti da una decorazione paesistica a chiaroscuro turchino, nota come “en camaieu bleu” probabilmente introdotta a Cerreto dallo stesso Domenico.

l’11 agosto 1718 Antonio perde la sua consorte e si risposa il 21 dicembre 1719 a San Lorenzello con Lucia Di Clemente. In quest’occasione Domenico Scarano suo testimone nell’atto di matrimonio dichiara di essere attivo come ceramista dal 1715 e ancora dipendente del Russo come anche fanno il Marchitto e il Giustiniani. Solo dopo il matrimonio e la nascita della sua primogenita Angela, Antonio si trasferisce a San Lorenzello nel 1723 dove nel 1727 rilevò la bottega di Giuseppe Bonanotte, iniziando un periodo di intensa attività che lo vede spartirsi tra la nuova bottega di San Lorenzello e la fabbrica di Nicola Russo. Ad Antonio vengono attribuite anche le numerose ceramiche ora perdute che arricchivano la cappella di S. Maria di Costantinopoli, ribattezzata poi “Sant’Antonio Abate” (forse in onore dei ceramisti abitanti nella zona), come sue sono le mattonelle maiolicate che erano all’esterno della Cappella di San Sebastiano, narranti il martirio del Santo e le mattonelle di Santa Maria Occorrevole di Piedimonte Matese (figura soto il titoli ad inizio pagina web) e della Via Crucis del Convento della Solitudine, di cui rimane solo la formella raffigurante la “Fuga in Egitto” (figura soto il titoli ad inizio pagina web), tutte opere eseguite in collaborazione con i figli e altri ceramisti del luogo.
Seguendo le orme paterne, il vero capostipite della scuola Giustiniani fu il figlio di Antonio, Nicola., detto anche "Belpensiero" per la sua originalità.
Nicola Giustiniani nasce a San Lorenzello, abbascio la terra il 7 gennaio 1732, dai citati Antonio e Lucia Di Clemente e viene battezzato, il giorno dopo, nell'antica chiesa di S.Lorenzo Martire in via Avantisanti. Nicola si dedica, sin da piccolo, all'arte figulina facendosi le ossa nella bottega del padre, del fratello e in quella del Russo in Cerreto.
Di buona razza, ma anche versato, Nicola, acquistata la padronanza della tecnica figulina, parte per Napoli nel febbraio del 1752, prendendo dimora a via Marinella 7, dove diede il via alla famosa “Fabbrica del ponte” che rese nota nell’intera Europa, grazie anche all’appoggio del Re, la manifattura detta appunto “figulina Giustiniani”.
Nicola volle accanto a sé collaboratori eccelsi ed estrosi. La "Manifattura Giustiniani", nella prima fase, produsse soprattutto oggetti decorativi e servizi da tavola.
Quando la direzione passò al figlio Biagio, furono realizzati anche vasi di ispirazione greca e pompeiana, negli anni a venire si aggiungerà, inoltre, la modellazione di statuine e di grandi anfore decorate con uccelli dai vivaci colori.
In un ambiente più vasto, più ricco di promesse, esplode quell'estro che gli menta il soprannome di “belpensiero”, per la sua creatività e ricchezza di idee, operò in contemporanea con altre note dinastie di ceramisti napoletani (Massa, Chianese, Del Vecchio, Grue, Porreca).
La mano di Antonio si vedrebbe anche in alcune opere della collezione del magistrato e storico cerretese Vincenzo Mazzacane conservata presso il Museo della Ceramica di Cerreto Sannita. L’opera di più sicura attribuzione è un calamaio con decorazione plastica e ornati policromi (fig. 6). La base del calamaio è costituita da due vaschette per l’inchiostro, sopra di esse si trova uno stemma gentilizio appartenente ai Rosati (una famiglia di notai di Cerreto) sul cui retro è modellata una torre in verde con dettagli in manganese, s’ipotizza poi che due statuine di animali rampanti ne rifinissero la decorazione. Nella parte frontale, invece, sulle vaschette dipinte in giallo e azzurro scorre una trama dai tratti iberici di rami realizzati in manganese. L’ipotesi che vede Antonio come modellatore è comprovata dal fatto che la modellatura dell’opera e la sua decorazione sono facilmente riconducibili alla fabbrica del Russo, ma sarebbe ancora più solida se si pensa al calamaio come un dono di nozze per Vittoria Rossi che nel 1730 va in sposa a Gian Camillo Rosati ma non si è riuscito ad appurare la parentela del Russo con la donna (Russo e Rossi si alternano nei documenti). Guido Donatone nelle sue pubblicazioni ne ha ribadito l’attribuzione al Giustiniani, facendo notare delle somiglianze con un altro calamaio recante lo stemma dell’arcivescovo di Benevento, Pier Francesco Orsini sul quale è presente una piccola scultura di cavaliere a cavallo, che doveva essere simile a quelle realizzate per il calamaio del Russo, tale dettaglio insieme alla somiglianza tra le modellature dei due stemmi e tra le due decorazioni della parte frontale porterebbe l’attribuzione ad Antonio. Meno certa è invece l’attribuzione di un gocciolatoio da sacrestia (fig. 7) modellato in rilievo con colori vivaci: giallo, turchino, verde e bruno di manganese. Lo smalto di fondo è invece bianco opaco. Al centro è posto un cherubino alato in rilievo circondato da tulipani, sopra di esso un girasole (simbolo del Cristo). Ai lati compaiono filettature in giallo e turchino poste verticalmente e sul bordo superiore. Il motivo del cherubino ad ali spiegate era presente sugli archi di ingresso di chiese e cappelle napoletane e fu ripreso dagli stuccatori a Cerreto, in particolare la testa del putto è particolarmente somigliante a quella presente sulla rosta di Palazzo Carizzi. La modellatura dell’opera è di buona fattura meno elegante è la parte pittorica, la drastica stilizzazione dei fiori può ricordare la tendenza alla semplificazione del pannello Santa Maria della Sanità in San Lorenzello. Un dubbio di paternità rimane anche su un’acquasantiera della stessa collezione (fig. 9). L’acquasantiera presenta il classico schema a tempietto, impostazione tipico delle acquasantiere cerretesi, con colonne e capitelli che sostengono un arco formato da grandi cimose in giallo intenso e tratteggiate in manganese. Ai lati delle colonne policrome sono poste due cimose in verde ramina e due margherite. La vaschetta devozionale chiude la parte inferiore dello schema a tempietto, su di essa è modellata una colomba in azzurro dalle ali spiegate (simbolo dello Spirito Santo), la coda e le ali sono dipinte in giallo con tratti in manganese come le cimose della parte centrale. Al centro vi è raffigurato un fiore (secondo altre letture un ostensorio) dal quale fuoriescono raggi di luce di un colore giallo intenso.

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Il periodo di grande fortuna di Antonio fu però molto breve, già dal 1731 la sua bottega di San Lorenzello risulta gestita dal figlio Simone Giustiniani insieme a Domenico Scarano mentre egli nel 1734. Nello stesso anno, il 7 maggio Simone sposa Rosolena Di Clemente (sorella della matrigna) da cui avrà due figli: Pasquale Serafino (13 febbraio 1732) e Michele Pasquale (19 settembre 1733). Molto probabilmente Antonio aveva già smesso di lavorare quando Simone nel 1754 amplia la propria attività affittando la bottega di Anastasio Festa per due ducati all’anno, con questi poi risulta che il Giustiniani avvii un vero e proprio sodalizio artistico. Così facendo Simone Giustiniani, non solo si dimostra essere l’erede di Antonio Giustiniani in terra sannita, ma si rende continuatore di quel rapporto di collaborazione tra ceramisti locali e maestri napoletani iniziato da Nicola Russo con la sua bottega a Cerreto. L’emblema di questa rinnovata collaborazione è il lungo fregio di piastrelle rettangolari che si trovano sotto il presbiterio della chiesa di Santa Maria della Sanità di San Lorenzello (fig. 8). Il fregio di riggiole offre una decorazione paesistica e naturalistica con girali, festoni e motivi floreali, animata da volatili, putti alati e altre figure. Nella stessa chiesa si trova anche un pannello di due riggiole che raffigura la scena di “Cristo che consegna le chiavi a Pietro e Paolo” (fig. 11), dove il richiamo alle figure che popolano il suddetto fregio permette di attribuirlo a Simone Giustiniani e alla sua nuova bottega cerretese - napoletana.

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Nicola Giustiniani, penultimo figlio di Antonio nato dal suo secondo matrimonio, porta la tradizione paterna a Napoli dove arriva nel 1752, attratto dai nuovi stimoli che la capitale del nuovo regno di Carlo di Borbone era in grado di offrire. Il precedente periodo cerretese di Nicola è in gran parte sconosciuto, un'unica testimonianza della sua formazione sembra essere sua statuina di ceramica invetriata in bruno di manganese ritraente un ceramista moro con vaso, probabilmente realizzata nella fabbrica del Russo. La mancanza di altre testimonianze ha permesso l’avanzamento dell’ipotesi avvalorata da Gaetano Borrelli che la preparazione di Nicola fosse napoletana, ricavata da esperienze presso le fabbriche del triangolo formato da Via Lavinaro, Borgo Loreto e Piazza del Mercato ma la sua fama doveva essere già nota in città dato che al suo approdo era conosciuto con il nomignolo di “Belpensiero” (spesso abbreviato in “Pensiero” o “de’ Pensieri” cioè ricco di pensieri). A Napoli Nicola prese dimora in Via Marinella 7 e nel 1755 sposò Antonia Lebico da cui ebbe sette figli: Geremia, che ebbe a sua volta l’illustre Biagio, poi Paolo e in ultimo Angelo; Paolo Antonio, «pittore di smalti» risultante residente a Borgo Loreto, capofabbrica di Salvatore delle Donne e marito di Rosa Carmine da cui ebbe Giuseppe anch’esso pittore di manifatture che a sua volta sposò nel 1835 Maria Margherita Guadalaxara, da cui ebbe Luigi Stanislao Michele; Biagio Giuseppe, che sposò il 10 ottobre 1784 Maria Rosa Emanuela Nigro, ma di cui non si conosce prole; Gaetano che ebbe a sua volta un figlio di nome Salvatore il quale si occupò della lavorazione di “langelle”, che anche ebbe un figlio di nome Gaetano che prese come soprannome “il Diavolo” per via della sua abilità da modellatore; L’ultimo Antonio che ebbe come figlio Gennaro, sarto di professione, che a sua volta ebbe Angelo, pittore in maioliche, a cui venne dato il nomignolo di “Angelo di Napoli” per distinguerlo dall’altro Angelo, figlio di Paolo Giustiniani.

Dopo essersi inserito nel panorama napoletano dell’arte vasaria con l’entrata nella Corporazione dei faenzari della Congrega del SS. Rosario (avente sede nella Chiesa della Maddalena) nel 1756, Nicola nel 1760 apre la propria fabbrica presso i vecchi locali della precedente “Fabbrica del Ponte” (gestita precedentemente da Zebino Cappelletti e in seguito dalla famiglia de Sio). La sua fabbrica introdusse una serie di varianti nel consueto processo di lavorazione delle ceramiche come la cottura mediante forni a muffola ad alto calore che gli garantì terraglie dalla pasta molto fine e molte leggere capaci di competere e superare quelle della Real Fabbrica di Capodimonte.
I primi suoi pezzi napoletani seguono la moda della cultura pittorica prospettica e rovinistica dal gusto decadente in voga in quel peiodo in città ma rielaborata secondo la sua originale visione come si può vedere in due mattonelle del 1758 conservate nel Landesmuseums Joanneum di Graz sulle quali è raffigurato un capriccio di rovine dominato da squarci di luce di un cielo solcato da nubi derivato dalla pittura paesaggistica che fa ricredere sulla fama di solo modellatore di Nicola facendo emergere delle ottime qualità da pittore con colori che si rifanno alla cultura castellana come giallino, verde smeraldo e blu.
Notevoli esempi del primo periodo napoletano di Nicola però rimangono, caratterizzati i pavimenti da un particolare dato naturalistico come nel caso del pavimento realizzato sempre nel 1758 per la Cappella di Santa Maria dei Miracoli nella Chiesa di Gesù delle Monache nel cui centro trova posto un cesto pieno di tulipani, rose, campanule, dalie e foglie tutto concepito con disegno più che abbozzato decorato di giallo e violetto tutto incorniciato da fasce dai motivi geometrici che inquadrano rosoni a palmette e foglie stilizzate (fig. 9). Il pavimento della navata centrale nonostante l’usura mostra ancora il motivo reticolato di marmo bicolore svolto intorno a un grande esagono centrale, nel quale girali di acanto e palmette avvolgono un cerchio anch’esso ornato di foglie stilizzate. Un altro notevole esempio è il pavimento realizzato nel 1761 per una delle sale del Palazzo Santa Croce a Palermo. Firmato “Nicolaus Giustiniani neopolita 1761”, il pavimento risulta tutt’ora in sito ed anche se degradato nella parte centrale si può ancora ammirare la decorazione fatta di volute sinuose dal ricco decoro naturalistico, motivi complementari “a graticcio”, racemi di gusto rocaille che adornano la imponente raffigurazione mitologica di “Pan e Siringa” definita da colori chiari e brillanti (fig. 10).

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Non è certo l’anno della sua conversione al modello neopompeiano di Wedgwood e se Nicola Vigliotti e Mario Rotili lasciano indicazioni sommarie sull’argomento nelle loro trattazioni, Donatone ne colloca l’inizio negli anni 80’ del Settecento, dove forse la notizia della costituzione di un reparto apposito nella nuova fabbrica di Capodimonte da parte di Domenico Venuti nel 1782 abbia convinto il restio Nicola ad abbracciare la moda corrente prima di una deriva economica della propria manifattura. Negli ultimi anni del secolo quindi furono realizzate mattonelle, stoviglie e vasi le cui forme già di ispirazione neoclassica presentano un repertorio decorativo incline ai soggetti classici ma con gusto incline al rococò, dominano colori pastello, decorazioni di fiori e putti che si avvicinano al nuovo stile. Le mattonelle di soggetto antico con “Satiro auleta” e “Figura muliebre” della Cappella di San Giacomo della Marca nella Chiesa di Santa Maria la Nova (fig. 16), sono una delle prime commissioni maggiormente neoclassiche, sintomatiche di quella pittura vascolare che circolava nella Napoli delle ceramiche di Hamilton e della passione borghese per la cultura neopompeiana.

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Nel momento in cui a Napoli impera il gusto decorativo, suggestionato dalla cultura pittorica prospettica e rovinistica, l'artista vi si inserisce e, secondo la sua originalissima fantasia, rielabora ed arricchisce quegli schemi della vivacità tipica dei colori e dell'impronta rusticana deliziosamente primitiva delle botteghe corretesi e laurentine, perfeziona la tecnica figulina corrente, introducendo i forni del Patt, a muffola.
In particolare, con la manipolazione delle terraglie, l’artista apriva per sé e per gli altri la strada ad una manifattura capace di gareggiare con le preziose porcellane di Capodimonte.
A due anni dalla sua venuta in Napoli, Nicola è già artista affermato: è nata la scuola Giustiniani che produce ceramiche capaci di gareggiare con le porcellane di Capodimonte.
Di questo primo periodo napoletano dell’artista, si ricordano il piatto di maiolica (con veduta di rovine, 1758) conservato nel museo Stiriano di Graz, e il famoso pavimento della cappella di santa Maria dei miracoli nella chiesa di Gesù delle Monache.
Nel periodo della maturità, Nicola orienta la sua manifattura verso il gusto classico corrente. Senza mai abbandonare la precedente tradizione settecentesca, in essa si avverte sempre la fresca inflessione di ascendenza laurentina.
Famoso un po’ ovunque, viene anche chiamato nel 1787 ad Ascoli Piceno, con il figlio Michele, nella fabbrica del convento olivetano di Sant’Angelo in Texello, in società con l’abate Malaspina.
Qui il Giustiniani e l’abate, costituirono una società per la gestione della fabbrica ascolana precedentemente aperta dal Malaspina con il permesso di Pio VI, che gli concesse una privativa di dieci anni nello Stato Pontificio. Il sodalizio durò solo tre anni e venne sospeso a seguito di difficoltà insorte nell’approvvigionamento dell’acqua per la struttura. Qui Nicola Giustiniani lavora, tra gli anni 1789-92.
(A Cerreto Sannita ancora oggi esiste un Istituto di arte intitolato a Nicola Giustiniani)

Nicola tornò a Napoli, e la fabbrica venne chiusa per poi essere ripresa qualche anno più tardi dai fratelli Cappelli di Ascoli e, successivamente, dalla famiglia Paci. Alla morte di Nicola nel 1815, l’attività artistica fu continuata dai Giustiniani nella fabbrica di Via Marinella in Napoli, dove prese definitivamente corpo la figulina Giustiniani con il nipote Biagio, figlio di Geremia, che nel 1820 assunse la direzione fabbrica.

Il censimento dello stesso anno del Barone Valiante rende nota la struttura nella quale ha sede la fabbrica all’epoca consistente appunto in una palazzina di due piani, il primo ospitava le fornaci di cui il Novi tramanda misure e forme, nello specifico egli menziona una sezione rettangolare che costituiva la base di cottura di «6 palmi ed once 6 per 8 palmi» e l’altezza dell’intera fornace di «8 palmi per 10 once», in grado anche di superare i «14 palmi» se si comprendevano nella misurazione lamia e ciminiera; Il secondo piano ospitava i pannelli di piastrelle maiolicate con scene di vita egizia entro cornici di fiori stilizzati, installati sopra la facciata del palazzo dallo stesso Biagio, conservati fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale qua ndo andarono distrutti insieme all’intera struttura in un bombardamento alleato. Così a “stamnoi” e “hydrae” di terraglia nera lucida a figure bianche e a crateri di terraglia opaca, rossa a figure nere o viceversa, si accostano vasi di fondo turchino con figure dorate direttamente riprese dal modello antico oltre al tipico vasellame con vedute del paesaggio napoletano e pezzi originali di nuova concezione come centrotavola, portaprofumi e anfore dal color avorio con forme sinuose e bordi traforati, oppure statuine e gruppi classici di biscuit o di terraglia bianca lucida, che si affiancarono a ritratti e busti della stessa materia e figure policrome di popolani e di maschere, soggetti tornano anche in piatti e vasi ai quali poi si aggiunsero quelli di smalto giallo con figure «alla chinese» o altri ornati da fiori o da uccelli. I pavimenti alternavano oltre alle decorazioni classiche quelle imitanti il mosaico, un motivo che venne utilizzato anche per colonne e per vasi dando maggiore risalto all’effetto cromatico delle opere.
In ultimo venne avviata anche una produzione di suppellettili alla antica che contava tripodi, sedili, poggiaioli, are e cippi sempre decorati da motivi egizi, etruschi e greci. Questa variegata produzione era garantita dal lavoro di un nutrito organico che nel periodo di maggiore produttività arrivò a contare fino a sessanta maestri e centoventi aiutanti. Oltre a dare uno stile più curato alla sua produzione, Biagio si dedicò a diverse sperimentazioni arrivando alla creazione di tre nuovi tipi d’impasto, due nuovi tipi di coperture e cinque nuovi impasti di diversa composizione per il biscuit di cui una tipologia di colorazione rossa con bolo armeno e una tipologia di colore bianco opaco usata per la produzione di stampo egiziano. Nel repertorio cromatico della fabbrica vennero introdotti due gialli di cui una tinta di sfumatura aranciata ottenuta con l’utilizzo di antimonio prelevato in Ungheria, litargirio e ossido di ferro e nel caso si volessero ottenere gradazioni più forti a questa mistura veniva aggiunto il tartrato di potassio. La tavolozza dei colori fu ancora ampliata con una tinta bruna per l’imitazione dei vasi etruschi composta da ossido di piombo, arena di Tropea e calce spenta e lavata.
Successivamente vennero introdotte tre nuove sfumature di azzurro ottenute con aggiunta di ossido di cobalto misto a vetro, un nero lucido ottenuto con l’uso di manganese proveniente dalla Calabria, dal Piemonte e dall’Abruzzo, mentre per gli smalti bianchi venne creata una tinta ottenuta da un composto di piombo proveniente dalla Spagna e stagno importato dall’Inghilterra uniti insieme ad arena tenera, quarzo e sale. Infine, introdusse una tonalità di verde ottenuto dal mescolamento di ossido e acetato di rame con quarzo e ossido di piombo.
L’uso di svariate componenti per avere materiale di lavorazione di qualità comportava un esborso esoso per la fabbrica, per questo che Biagio e figli furono spesso erano costretti a richiedere privative e sovvenzionamenti reali, che nella maggior parte dei casi venivano respinti dal governo del regno. Questi rifiuti erano determinati dall’opposizione di varie famiglie ed esponenti della comunità di ceramisti napoletana che vedeva nelle richieste dei Giustiniani solo un modo per espandere il loro mercato ed eclissare la concorrenza.
Nel 1818 ci fu l’opposizione di Giacinto di Bernardo alla richiesta di privativa presentata dai Giustiniani per la fabbricazione di vasi di creta per “usi naturali”. I Giustiniani avevano già ricevuto un voto favorevole in merito alla loro richiesta da parte del Reale Istituto d’Incoraggiamento che valutò più conveniente in termini economici finanziare una produzione locale di tale vasellame anziché importarlo da Firenze però Giacinto di Bernardo si oppose a tale verdetto facendo presente al Real Istituto che la sua fabbrica al Granatello producesse mattoni, canali, tegole ed altri oggetti di argilla. La resistenza fu resa vana da una indagine dello stesso Real Istituto che appurò come la produzione della fabbrica del di Bernardo consistesse solo in laterizii di scarsa qualità e non manufatti artistici in argilla. Solo due anni dopo ad opporsi fu il Maresciallo Luigi Carafa di Noja in merito a una privativa per la produzione di pavimenti in mosaico con tessere maiolicate. La contesa iniziò il 7 marzo quando sotto invito del Re di Napoli si dispone al Real Istituto d’Incoraggiamento di tenere presente la richiesta di privativa fatta dal Noja. In questo caso a favore di quest’ultimo vi era un rapporto del Real Istituto, datato 4 giugno 1782 e firmato dal generale Poli, dove era accreditato inventore di questa tipologia decorativa mentre ai Giustiniani veniva riconosciuto solo il ruolo di primo esecutore, l’aggiunta delle richieste del Capitano della Reale Marina Gabriele de Simone e dei fratelli Migliuolo complicò ulteriormente la disputa rallentandone la risoluzione. A seguito di un esito negativo, Giustiniani e Migliuolo si associarono e iniziarono la loro produzione di pavimenti e vasi, uno di questi conservato al Museo Nazionale di San Martino riconoscibile dalla firma “FGMN”. I pavimenti realizzati dalle due fabbriche erano caratterizzati da una trama rettangolare di solchi formati da ogni singola tessere in maiolica ed erano soggetti a frequenti danneggiamenti, in parte causati dalla sporcizia che si annidava tra i solchi delle tessere e che rendeva illeggibili le decorazioni dei pavimenti. Autonomamente i Migliuolo per ovviare al problema fecero richiesta di privativa per la produzione di mattoni rossi a tappeto arrotati che servivano come alternativa alle tessere che venivano danneggiate dal logoramento.
La stessa richiesta venne fatta da tutti partecipanti alla contesa ma il Real Istituto d’Incoraggiamento accordò tale permesso ai Migliuolo e agli altri contendenti ma lo negò ai Giustiniani ai quali invece venne concessa solo la possibilità di produrre mattoni a rilievo.
L’ultimo e più noto caso vide contrapposti i Giustiniani e la famiglia Del Vecchio. Il dissidio fra le due parti ebbe inizio da una richiesta di privativa al Real Istituto d’Incoraggiamento dei Giustiniani per la produzione di vasi di porcellana con un impasto di loro invenzione consistente in marmo bianco, quarzo e arena dura e tenera di Tropea, gesso cotto, terra di Lipari, feldspato e terra di Civita Castellana (poi sostituita con caolino d’Ischia). Cherinto Del Vecchio, autore anch’egli di una richiesta di privativa in merito alla produzione di porcellana, sfruttando la reputazione attenuta dalle sue numerose commissioni sanfediste, attuò una vera e propria azione denigratoria nei confronti dei Giustiniani, inviando un esposto al Ministro dell’Interno del regno in cui negava la paternità dei Giustiniani sull’impasto affermando che fosse un prodotto rubato alla Real Fabbrica, determinando così l’esito della richiesta. La rivalità coi Del Vecchio andò oltre l’accaduto e assunse proporzioni talmente ampie da diventare un caso che coinvolse il re Francesco I. Luigi Mosca, infatti, tramanda un episodio in cui il re «volendo personalmente assicurarsi della cosa, gettò a terra due vasettini, uno della Fabbrica Reale che si ruppe in frantumi, l’altro dei Giustiniani che si sfaldò facendo vedere la differente costituzione della pasta» allora «si persuase delle insidie che i Del Vecchio tendevano ai Giustiniani».
L’esito intempestivo della prova non andò a favore dei Giustiniani, che pur di produrre vasi di porcellana opaca si associarono con i Del Vecchio, detentori della privativa. Le contese fortunatamente non ebbero un impatto negativo sulla produzione della neonata “Figulina Giustiniani. Successivamente, infatti, venne avviata la produzione della tipologia di imitazione classica la cui celebrità è provata dalle numerose menzioni che Raffaele Liberatore riserva a questa tipologia di pezzi nei suoi Annali del Regno delle Due Sicilie. Tra i vasi nominati in quest’opera il caso più peculiare è rappresentato dal vaso di forma ellittica rappresentante la Battaglia fra amazzoni e Greci, imitazione di un vaso conservato nel Real Museo Borbonico proveniente da Ruvo, di cui i Giustiniani riuscirono a riprodurre la forma ellittica e le notevoli dimensioni. Liberatore stesso afferma che talmente grande «che potrebbe celarvisi una persona dentro» e che per realizzarlo i Giustiniani impiegarono dieci mesi per creare una fornace apposita la cui costruzione richiese un importante sforzo economico. La motivazione alla base della realizzazione di questa è molto più semplice della sua realizzazione dato che sempre Liberatore in merito alla questione riferisce che il vaso non è il frutto di una committenza o di qualsiasi altro tipo di incoraggiamento ma bensì della voglia dei Giustiniani di dimostrare la loro abilità. La stessa abilità ritorna in un altro pezzo menzionato dal Liberatore, un vaso conservato al Museo Artistico Industriale di Napoli su cui è riprodotta la discesa di Ercole e Orfeo all’inferno di un originale del IV secolo a. C. appartenente al Museo di Antichità di Monaco di Baviera (fig. 12). A Napoli nel Museo Nazionale di San Martino è conservato un altro esemplare, in figure bianche su fondo nero riproducente uno “stamnos” del V sec a. C, attribuito al Pittore del Deinos, ritrovato a Nocera, decorato con una rappresentazione delle “Anthesterie” celebrate dalle Menadi che imbandiscono una mensa sacrificale dinanzi a Dionisio (fig. 13).

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A queste ceramiche ispirate a pezzi dell’età classica vanno associate le ceramiche rievocanti il gusto egizio realizzate nello stesso periodo. La caratteristica principale di questa tipologia è l’abbinamento fra un disegno distinto, ravvivato da pochi colori in alcuni casi, e le forme semplici e sinuose del vasellame. Questi elementi vengono sintetizzati da un cratere in biscuit a forma di calice decorato su entrambe le facce con scene sacre in nero impreziosite da tratti rossi custodito al Museo del Sannio di Benevento (fig. 14). In stile egizio vennero realizzati anche pavimenti come quello presente al Museo Napoleonico di Roma, in Palazzo Primoli (fig. 15), probabilmente proveniente da un altro palazzo romano collocato in quel luogo in precedenza, nella cui parte centrale vi è un pannello con una scena di offerta incorniciato da un meandro di palmette. Questo non fu l’unico pavimento romano dei Giustiniani a Roma alcuni di essi provenienti dal demolito Palazzo Acquari sono stati ricomposti in Palazzo Braschi. Un esempio napoletano dello stesso stile è un paramento in mattonelle conservato Figura 12: Copia di un cratere del IV sec. a. C. proveniente da Canosa raffigurante la discesa di Ercole e Orfeo all'inferno, Fabbrica Giustiniani, prima metà del XIX sec., Napoli, Museo Artistico Industriale. Figura 13: Copia di «stamnos» del Pittore del Deinos (V sec. a. C.) da Nocera, raffigurante la celebrazione delle «Anthesterie», Fabbrica Giustiniani, prima metà del XIX, Napoli, Museo Nazionale di San Martino. nel Museo di San Martino (fig. 16) in cui compare la scena del trionfo del faraone, che avanza sulla biga scortato da cortigiani a cui si uniscono cani festanti e uccelli in volo.

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La produzione di carattere popolare invece venne rielaborata con composizioni più fresche che meglio facevano risaltare i colori vivaci utilizzati. Queste caratteristiche sono evidenti in un piatto con la firma di Biagio Giustiniani conservato presso il Museo Correale di Sorrento (fig. 17), dove compaiono ritratte tre maschere dipinte sul fondo mentre sul bordo appaiono decorazioni di foglie e di fiori stilizzati. La firma di Biagio è presente anche su un altro pezzo del Museo Correale il Pulcinella che gioca con le scimmie (fig. 18) una composizione scultorea dove la maschera tradizionale napoletana appare seduta su di una roccia con busto all’indietro, lo sguardo rivolto verso l’alto a guardare la scimmia che gli siede sulla spalla mentre una seconda è dormiente ai piedi della composizione. La gamba sinistra del Pulcinella si allunga verso l’alto conferendo slancio all’intera scena e rendendo più esplicito il clima sereno e giocoso della rappresentazione. Alcune statuine simili erano presenti anche al Museo Civico Filangieri prima della dispersione delle collezioni nel 1943 e ritraevano un pastore di costume abruzzese nell’atto di condurre un orso con musoliera e una scimmia sulle spalle, così come anche un gruppo di figure ci risultava fino al secolo scorso a Dresda nel Palazzo Giapponese.

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I toni vivaci si spengono solo quando la produzione si rifà al modello della Real Fabbrica come si nota nel vaso conservato al Museo di San Martino (fig. 19) decorato con una trama di puntini a rilievo e bordi neri, due mascheroni al posto dei manichi e sulle facce due personaggi tipici della tradizione popolare napoletano. Il vasellame con paesaggi di veduta, tipologia tipica della ceramica napoletana, invece si arricchì con scorci inediti di monumenti e di piazze e strade cittadine per grandi anfore ornamentali. In un pezzo del Museo Pignatelli si possono appunto ammirare le vedute della Piazza dello Spirito Santo (fig. 20), e di Palazzo Donna Anna a Posillipo.

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Alla morte di Biagio nel 1838 la direzione della fabbrica viene assunta dai figli Salvatore ed Antonio. La fabbrica si riduce a una dimensione più modesta ma nella quale si formeranno grandi talenti come Salvatore Colonnese e suo figlio Gaetano, i fratelli Pelliccia, Pasquale e Giovanni Mollica e Raffaele Gargiulo. Il talento dei lavoratori della fabbrica Giustiniani venne riconosciuto anche dal governo del regno che nel 1834 decide di premiare i due fratelli con il conferimento di una medaglia di argento con il dovere di consegnarla al loro lavoratore più valente della loro impresa. Nonostante il successo la fabbrica viene chiusa dal Barone Valiante nel 1848 per il mancato pagamento del censo, costringendo i due fratelli a continuare la loro attività in uno scantinato. Le uniche testimonianze sopravvissute del loro periodo di direzione sono una fiamminga dal bordo traforato, decorata da un fregio delicato e da due figurine di guerrieri antichi custodito al Museo Pignatelli di Napoli (fig. 21) e un vaso di terraglia bianca con teste di medusa al posto dei manichi, file di puntini a rilievo, fregi a palmette e imitanti lo stile greco conservato presso il Museo Correale di Sorrento (fig. 22)

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La sorte dei Giustiniani dopo la chiusura della fabbrica è decisa dai discendenti di Antonio e Salvatore. Pasquale Giustiniani, figlio di Antonio, avrà tre eredi Luigi, Salvatore e Antonio. I tre dopo una prima esperienza a Borgo Loreto aprirono insieme due botteghe prima una sita nei «Garagi di Parco Lombardi» a Portici e dopo un’altra in Via Ottaviano 100 a Barra nel 1926. Anche le loro mogli si prodigarono nel mestiere della ceramica, insieme a Carmela Giustiniani, con la quale qprirono una bottega a Caiazzo specializzata in decorazioni floreali. Il primogenito di Antonio, Michele Giustiniani aprì una bottega presso la calata del Gigante a Santa Lucia in società con lo zio Angelo Giustiniani (altro figlio di Biagio) per poi scioglierla nel 1870 e prendere in affitto con la sorella Maria Giustiniani l’antica fabbrica della famiglia Del Vecchio ma la passione per il lusso lo portò alla povertà e alla conseguente morte, mentre sua sorella si salverà sostenuta dall’aiuto dei parenti. I saggi che ci sono rimasti di quest’ultimo periodo dimostrano l’abilità tecnica di Michele e la sua ispirazione ai modelli della ceramica di Pesaro e Urbino. Uno dei suoi pezzi pervenuti è un piatto con orlo viola decorato con ghirlande in oro in blu con al centro una figura femminile, avvolta in un manto giallo, derivata dal modello pompeiano conservato al Museo Nazionale di San Martino. Il figlio di Salvatore Pasquale Junior, si trasferisce a Secondigliano in Via Monte Faito 5 dove apre una bottega a conduzione familiare dove coinvolse nella lavorazione ceramica l’intero suo nucleo familiare (5 figli, di cui tre maschi - Luigi, Salvatore, Antonio - e due femmine - Maria e Rita). La produzione di ceramiche e porcellane era rigorosamente lavoarata a mano e cotta in forni a legna, la cui gradazione veniva misurata “a occhio”. Luigi Giustiniani, che porterà avanti l’attività paterna trasferendosi prima a Napoli in Via Valpolicella, poi a Melito e a Marigliano. Anch’egli ebbe prole, un figlio di nome Alessandro la cui bottega è attiva a Pollena Trocchia in Via Musci 120. Sono evidenti in questo periodo i collegamenti di gusto archeologico classicheggiante (pompeiani) e con le produzione di Cerreto sannita (ceramica cerretana).
La fabbrica sarà distrutta da un bombardamento nel corso della seconda guerra mondiale. 
Uno dei figli di Pasquale Junione, Luigi Giustiniani, ha continuato fino alla pensione la propria attività ceramica, coinvolgendo, oltre la moglie Carmela Tomasone, diversi suoi figli, in particolare Alessandro, Salvatore e Antonio, nonché figlie, in particolare Gaetana, Annarita.
Le botteghe artigiane sono state successivamente ubicate, per motivi di crisi di affitti, prima in Napoli alla Via Volpicella, poi a Melito, poi a Marigliano.
Al pensionamento di Luigi, l’attività artigiana ed estetica prosegue nella bottega del figlio di Luigi, Alessandro Giustiniani, nei locali siti in via musci 120, Pollena Trocchia - Napoli , telefono e fax 081-5318117; mail: giustiniani55@live.it .
L’attività produttiva continua con pezzi unici rigorosamente lavorati e dipinti a mano, mentre prosegue la ricerca e la sperimentazione di nuova malte e materiali sia di base che pittorici. Alla produzione si affiaca un’intesa attività formativa per giovani ed hobbisti, accompagnata anche da adeguati sussidi audiovisivi e informatici.

Le maggiori raccolte delle ceramiche di Cerreto si possono ammirare a Benevento, presso il Museo del Sannio, presso il Museo civico di Piedimonte d'Alife, presso il Museo della Floridiana ed in quello artistico- industriale di Napoli. La collezione del Museo del Sannio è sicuramente la più organica.
Ricca di vasellame vario, essa offre un panorama esaustivo della ricca produzione cerretese; di grande spicco sono le numerose "riggiole" esposte, cioè quelle mattonelle, vivamente policrome, usate, all'epoca, per i rivestimenti o delle abitazione o per i pavimenti. Alcune veramente molto interessanti richiamano a figure mitologice, o comunque greco-romani, soprattutto diffuse dopo l’inizio della campagna di scavi condotta a Pompei (NA) a partire dal 1748, sotto il governo borbonico, ma divennero più scrupolosi e sistematici dopo il 1861. A partire da questa data cominciò a diffondersi l’interesse per il mondo dell’arte grecoromana, e di conseguenza anche il gusto per questo tipo di decorazioni.


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Un bricco in terraglia fabbrica Giustiniani descrizione: Un bricco in terraglia dipinto con costumi Napoletani; fabbrica Giustiniani. Napoli, inizi XIX secolo epoca: Primi dell'Ottocento

Le sottocitate informazioni provengono dal testo "I Ceramisti" di Aurelio Minghetti.  Editore: Belriguardo.

GIUSTINIANI ANGELO (Napoli), sec. XIX. Figlio di Giuseppe. Era decoratore di maioliche nella fabbrica di Giovanni Mollica a Napoli, intorno al 1865.

BIBLIOGRAFIA MOSCA L., Napoli e l'arte ç ramica. Napoli, 1908.

GIUSTINIANI ANGELO (Napoli), sec. XIX. Figlio di Paolo. $ uno degli ultimi della famiglia dei celebri ceramisti napoletani discendenti di Nicola. Nel 1865 A. G. teneva florida industria di terrecotte a, imitazione delle ceramiche greche e di maioliche sul tipo di Castel li. Angelo era ottimo pittore di stile etrusco, egizio e cinquecentesco.

BIBLIOGRAFIA: MOSCA L., Napoli e l'arte ç ramica. Napoli, 1908.

GIUSTINIANI ANTONIO (Napoli), sec. XIX. Figlio di Biagio. Condusse col padre un'officina ceramica a Napoli; circa il 18zo-29 e seguenti, v. Giustiniani Biagio.

BIBLIOGRAFIA: BES, EISNER EISENHOF A., Le porcellane di Capodimonte. Milano, 1925.

GIUSTINIANI ANTONIO 'Napoli), sec. XIX. Figlio di Nicola, continuò nella tradizione paterna l'industria delle ceramiche artistiche, v. Giustiniani Nicola

GIUSTINIANI BIAGIO (Napoli), sec. XIX. Figlio di Geremia. Nella prima meta dcl secolo iniziò, sul tronco della vecchia manifattura di famiglia, la « Figu­lina Giustiniani n. Vi lavorava fra gli altri suo fratello Paolo, pittore di fama. Aveva Biagio presa in affitto una casa in via Marinella ove fece edificare le fornaci, decorandone la facciata e l'interno con mattonelle maiolicate dipinte all'egiziana. Il Giustiniani poi nel 1829 chiese al Re di Napoli il privilegio di fabbricare un

nuovo tipo di porcellana. Nel memoriale presentato in tale occasione, il figlio Antonio fa menzione delle ricerche eseguite dal padre fin dal 182o, e 'addimostra una vera e solida competenza in materia. Le porcellane dei G. erano di tre tipi oltre quella opaca (biscuit). La richiesta trovò opposizioni per opera' di tal Cherinto del Vecchio, il quale sosteneva che le porcellane dei G. erano senz'altro imitate da quelle della R. Fabbrica del Palazzo Reale a Napoli. Dovettero i G., onde eliminare gli ostacoli, associarsi al Del Vecchio. Fabbricarono anche una specie di terraglia forte che chiamarono o porcellana opaca ». Morto Biagio, i figli non poterono più pagare l'affitto, onde la fabbrica venne sfrattata e tutto quanto vi si trovava fu venduto all'asta, intorno al 1848. Il figlio Salvatore e il fratello continuarono a la­vorare in un piccolo magazzino accorciato loro per misericordia. Molti dei pezzi di quest'officina portano come marca il nome di « Giustiniani » per esteso in cor­sivo, con sottoposto una I e una croce con un piccolo cerchio nel mezzo.

GIUSTINIANI GIUSEPPE (Napoli), sec. XIX. Fi­glio di Paolo. Fu capofabbrica nella Manifattura Ceramica cli Salvatore Delle Donne.

BIBLIOGRAFIA MOSCA L., Napoli e l'arte ç ramica. Napoli, 1908.

GIUSTINIANI MICHELE (Napoli), sec. XIX. Reggeva nella seconda meta del secolo la rinnovata manifattura ceramica della sua famiglia. Di essa fabbrica scriveva nel 1885 il Corona: «La Manifattura Giusti­niani retta ora dal signor Michele fu premiata in quasi tutte le esposizioni in Italia ed all'estero e continua a dipingere seguendo le antiche forme e gli antichi dise­gni della scuola castellana e imitando, conic gia faceva la Reale Fabbrica, oggetti e vasi etruschi. Le cera-miche artistiche del Giustiniani si vendono a un buon mercato eccezionale. Da quanto espose a Milano nel 1885 ci pare che i suoi disegni siansi molto deteriorati ed i colori molto abbondanti, anzi, esagerati, mancava-no di intonazione e di brio ed alcuni disegni parvero adclirittura scorretti. Non ha quindi il Giustiniani che a curare un poco coree la tradizione della sua Casa, glielo impone, la parte artistica, mentre la par-te tecnica è assai lodevole». Michele era stato prima in society collo zio Angelo. Unitosi poi con la sorella XVlaria, prese in affitto L'antica fabbrica Del Vecchio e seppe colla propria energia sviluppare l'azienda si da raggiungere quasi l'antico splendore. Ma l'eccessivo sviluppo e le spese soverchie fecero presto declinare le sorti della nuova manifattura. Pochi anni dopo il 1885 la vecchia fabbrica napoletana spegneva per sempre I suoi forni.

BIBLIOGRAFIA CORONA G., L'Italia ceramica. Milano, 1885.  MOSCA L., Napoli e l'arte ç ramica. Napoli, 1908. .

GIUSTINIANI NICOLA (Napoli), sec. XVIII. Nato a Cerreto, si trasferì a Napoli verso il 176o. Ivi si fece conoscere come scultore per un busto della Regina Isabella e un Crocefisso. Uomo d'ingegno sagace, tanto che fu soprannominato Nicola Pensiero o Belpensiero, fondò una fabbrica di maioliche fini con ,perfezionamento della tecnica, introducendo i forni del Patt, a muffola ad alto calore, Si diede, fra gli altri generi chi imitazione, a quella dei vasi greci. Produsse anche mat­tonelle da pavimento sul tipo dell'antico mosaico. 01-tre le maioliche, uscirono dall'officina del Giustiniani e dei suoi successori, delle terraglie ad imitazione delle inglesi; ceramiche in creta gialla, di terrasanta di Puglia; azuleis; terrecotte ornamentali e statuette; porcellane trasparenti e biscotte, queste sopratutto per gruppi e figurate; porcellane opache. La manifattura Giustiniani occupava dal n . 1o al 16 di via Marinella. Nel 1830-40 vi lavoravano circa sessanta maestri. In quest'epoca la manifattura era retta dal figlio Antonio e dal nipote Salvatore, forse figliolo di Biagio, ch'era stato immediato successore di Nicola.

GIUSTINIANI PAOLO (Napoli), sec. XIX, v. Giustirnani Biagio.

GIUSTINIANI SALVATORE (Napoli), sec. XIX, v. Giustiniani Nicola

LA CERAMICA NAPOLETANA DALLA META’ DEL SETTECENTO

Nei circa cinquant'anni che intercorrono tra la chiusura della Real Fabbrica Ferdinandea e l'Unità d'Italia, Napoli riuscì così a tener viva molto felicemente l'antica tradizione settecentesca, prima con le belle porcellane Poulard Prad dove tra ricche e più ottocentesche dorature ritroviamo i felici soggetti ferdinandei miniati con altrettanta perizia pittorica. Sono le vestiture regionali, le vedute e i decori pompeiani individuati e codificati durante la direzione Venuti che ancora una volta conquistano per la loro "napoletanità" sia i raffinati turisti che la nuova ricca borghesia cittadina. Successivamente al fallimento e alla chiusura della fabbrica di Santa Maria della Vita, questi stessi temi li ritroviamo ancora a lungo, fino a metà '800, dipinti con tecnica sempre più raffinata da quella ristretta cerchia di miniaturisti che ruotava intorno ai laboratori di Raffaele Giovine, Francesco Landolfi, Gennaro Cioffi, Salvatore Mauro, Sebastiano Cipolla, e tanti altri ancora. Parallelamente i lavoranti più specificatamente tecnici imboccavano la strada della lavorazione della terraglia, ora associandosi con i Del Vecchio o i Giustiniani che già da alcuni decenni si dedicavano a questa lavorazione, o aprendo altre fabbriche a carattere più o meno familiare in concorrenza con essi. Una particolare menzione meritano i Migliolo, i Mollica e i Colonnese: i primi associandosi inizialmente ai Giustiniani produssero splendide terraglie decorate nello stile ferdinandeo sia con vedute che con scene popolaresche marcate FMGN (Fabbrica Migliolo Giustiniani Napoli), i Mollica eccelsero principalmente nella lavorazione delle terre cotte a figure rosse o a figure nere alla maniera dei vasi di scavo mentre i Colonnese vanno ricordati più che per il vasellame, per le belle "riggiole" alla napoletana. Ai fini della produzione ceramica napoletana, l'Unità d'Italia viene a chiudere con una data storica un ciclo produttivo che di fatto si era andato lentamente estinguendo a partire dal 1850. Dopo il brillante exploit settecentesco che grazie alle manifatture borboniche aveva posto le nostre porcellane ai più alti livelli artistici permettendo loro di contendere il mercato a quelle di Meissen e di Sèvres, la produzione napoletana aveva potuto affrontare ancora brillantemente la prima metà dell'Ottocento grazie agli artisti e ai tecnici formatisi all'ombra della Real Fabbrica Ferdinandea sotto la guida di Domenico Venuti. Ma via via che a questa prima generazione di operai si erano andate sostituendo le nuove leve, inevitabilmente cominciò a delinearsi una certa "decadenza" caratterizzata da aspetti di provincialismo. Chiusesi per fallimento nel 1848 la fabbrica Giustiniani e poco dopo intorno al 1855 quella dei Del Vecchio, possiamo dire che venne bruscamente interrotta la trasmissione diretta dei mestiere da padre in figlio e benché sul piano tecnico i giovani risultino ancora in grado di lavorare bene, sul piano creativo appaiono fortemente limitati. Ma anche la materia non è più la stessa: la porcellana è del tutto scomparsa dopo gli ultimi prodotti che i Giustiniani, associati ai del Vecchio, avevano sfornato tra il 1830 e il 1840 e anche la "terraglia all'uso inglese', che con tanto successo era entrata nelle case cittadine più agiate, non viene più lavorata. Le varie piccole industrie cittadine lavorano un impasto di terra più simile alla maiolica che presenta pochi problemi di foggiatura e di cottura ma che non si presta più alla esecuzione di servizi di piatti e in genere al funzionale vasellame da tavola che era stato il maggior vanto della produzione locale durante i primi cinquant'anni dell'Ottocento.

Dal sito dell’enciclopedia Treccani : Dizionario biografico degli Italiani, è presente la biografia dei ceramisti Giustiniani discendenti da Giustiniano Giustiniani dinastia ceramisti Napoletani


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Mattonelle produzione GIUSTINIANI - Napoli '800 - Disposizione quadrata formata da 9 mattoni 20x20cm, marcati sul retro "G"


I marchi utilizzati da questa manifattura:

ceramica giustiniani
BIAGIO GIUSTINIANI 1 , 79 x 54 mm, attribuito a Biagio Giustiniani da Carlo dell'Aquila "L'Arte sotto i Piedi" Sett. 2000

ceramica giustiniani
BIAGIO GIUSTINIANI 2, attribuito a Biagio Giustiniani da Carlo dell'Aquila "L'Arte sotto i Piedi" Sett. 2000, 26 X 27 mm

ceramica giustiniani
G, marchio inciso distintivo della fabbrica Giustiniani, databile antecedentemente al R. decreto del 1825 per la bollatura obbligatoria.

ceramica giustinianiceramica giustiniani
G - marchio antico MANIFATTURA GIUSTINIANI, Via Marina nn 10-16 - Napoli. Marchio inciso distintivo della fabbrica Giustiniani, databile antecedentemente al R. decreto del 1825 per la bollatura obbligatoria.

ceramica giustinianiceramica giustiniani
GG DUE G SIMMETRCHE - MARCHIO MOLTO ANTICO Marchio inciso distintivo della fabbrica Giustiniani, databile antecedentemente al R. decreto del 1825 per la bollatura obbligatoria.

ceramica giustiniani
GG, Giuseppe (circa 1827-1885) figlio di Biagio Giustiniani.

ceramica giustinianiceramica giustiniani
GIUSTINIANI, Via Marina nn 10-16 - Napoli.

ceramica giustiniani
GIUSTINIANI & C.

ceramica giustinianiceramica giustiniani
GS GIUSTINIANI forse il GS stà per GIUSEPPE STINGO (circa 1827-1885) ?

ceramica giustinianiceramica giustiniani
M. GIUSTINIANI


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