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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA
Il commiato su la via Nomentana, qell'adieu au grand air voluto da Elena, non isciolse
alcuno de' dubbi che Andrea aveva nell'animo. - Quali erano mai le cagioni occulte di
quella partenza subitanea? - Invano egli cercava di penetrare il mistero; i dubii
l'opprimevano. Ne' primi giorni, gli assalti del dolore e del desiderio furono così
crudeli ch'egli credeva morirne. La gelosia, che dopo le prime apparite erasi dileguata
innanzi all'assiduo ardore di Elena, risorgeva in lui destata dalle imaginazioni impure; e
il sospetto che un uomo potesse nascondersi in quell'oscuro intrico, gli dava un tormento
insopportabile. Talvolta, contro la donna lontana, l'invadeva una bassa ira, un rancore
pien d'amarezza, e quasi un bisogno di vendetta, come s'ella lo avesse ingannato e tradito
per abbandonarsi a un altro amante. Anche, talvolta credeva di non desiderarla più, di
non amarla più, di non averla mai amata; ed era in lui un fenomeno non nuovo questa
cessazion momentanea d'un sentimento, questa specie di sincope spirituale che, per
esempio, gli rendeva completamente estranea in mezzo alla gente la donna diletta e gli
permetteva d'assistere a un gaio pranzo un'ora dopo aver bevute le lacrime di lei. Ma
quegli oblii non duravano. La primavera romana fioriva con inaudita letizia: la città di
travertino e di mattone sorbiva la luce, come un'avida selva; le fontane papali si
levavano in un cielo più diafano d'una gemma; la piazza di Spagna odorava come un roseto;
e la Trinità de' Monti, in cima alla scala popolata di putti, pareva un duomo d'oro. Alle
incitazioni che gli venivano dalla nuova bellezza di Roma, quanto in lui rimaneva del
fascino di quella donna, nel sangue e nell'anima, ravvivavasi e raccendevasi. Ed egli era
turbato, fin nel profondo, da invincibili angosce, da implacabili tumulti, da indefinibili
languori, che somigliavano un poco quelli della pubertà. Una sera, in casa Dolcebuono,
dopo un tè, essendo rimasto ultimo nel salone tutto pieno di fiori e ancor vibrante d'una
Cachoucha del Raff, egli parlò d'amore a Donna Bianca; e non se ne pentì, né in quella
sera né in seguito. La sua avventura con Elena Muti era ormai notissima come, o prima o
poi, o più o meno, nella società elegante di Roma e in ogni altra società son note
tutte le avventure e tutte le flirtations. Le precauzioni non valgono. Ciascuno ivi è
così buon conoscitore della mimica erotica, che gli basta sorprendere un gesto o
un'attitudine o uno sguardo per avere un sicuro indizio, mentre gli amanti, o coloro che
son per divenire tali, non sospettano. Inoltre, ci sono in ogni società alcuni curiosi
che fan professione di scoprire e che vanno su le vestigia degli amori altrui con non
minor perseveranza de' segugi in traccia di selvaggina. Essi sono sempre vigili e non
paiono; colgono infallibilmente una parola mormorata, un sorriso tenue, un piccolo
sussulto, un lieve rossore, un baleno d'occhi; ne' balli, nelle grandi feste, dove sono
più probabili le imprudenze, girano di continuo, sanno insinuarsi nel più fitto, con
un'arte straordinaria, come nelle moltitudini i borsaiuoli; e l'orecchio è teso a rapire
un frammento di dialogo, l'occhio è pronto dietro il luccicor della lente, a notare una
stretta, una languidezza, un fremito, la pression nervosa d'una mano feminea su la spalla
d'un danzatore. Un terribile segugio era, per esempio, Don Filippo del Monte, il
commensale della marchesa d'Ateleta. Ma, in verità, Elena Muti non si preoccupava molto
delle maldicenze mondane; e in questa sua ultima passione era giunta a temerità quasi
folli. Ella copriva ogni ardimento con la sua bellezza, col suo lusso, col suo alto nome;
e passava pur sempre inchinata, ammirata, adulata, per quella certa molle tolleranza che
è una delle più amabili qualità dell'aristocrazia quirite e che le viene forse appunto
dall'abuso della mormorazione. Or dunque l'avventura aveva, d'un tratto, inalzato Andrea
Sperelli, in conspetto delle dame, a un alto grado di potere. Un'aura di favore l'avvolse;
e la sua fortuna, in poco tempo, divenne meravigliosa. Un fenomeno assai frequente, nelle
società moderne, è il contagio del desiderio. Un uomo, che sia stato amato da una donna
di pregi singolari, eccita nelle altre l'imaginazione; e ciascuna arde di possederlo, per
vanità e per curiosità, a gara. Il fascino di Don Giovanni è più nella sua fama che
nella sua persona. Inoltre, giovava allo Sperelli quel certo nome ch'egli aveva d'artista
misterioso; ed erano rimasti celebri due sonetti, scritti nell'albo della principessa di
Ferentino, ne' quali come in un dittico ambiguo egli aveva lodato una bocca diabolica e
una bocca angelica, quella che perde le anime e quella che dice Ave. La gente volgare non
imagina quali profondi e nuovi godimenti l'aureola della gloria, anche pallida o falsa,
porti all'amore. Un amante oscuro, avesse anche la forza di Ercole e la bellezza
d'Ippolito e la grazia d'Ila, non mai potrà dare all'amata le delizie che l'artista,
forse inconsapevolmente, versa in abondanza negli ambiziosi spiriti feminili. Gran
dolcezza dev'essere per la vanità di una donna il poter dire: - In ciascuna lettera
ch'egli mi scrive è forse la più pura fiamma del suo intelletto a cui mi riscalderò io
sola; in ciascuna carezza egli perde una parte della sua volontà e della sua forza; e i
suoi più alti sogni di gloria cadono nelle pieghe della mia veste, ne' cerchi che segna
il mio respiro! Andrea Sperelli non esitò un istante d'innanzi alle lusinghe. A quella
specie di raccoglimento, prodotto in lui dal dominio unico di Elena, succedeva ora il
dissolvimento. Non più tenute dall'ignea fascia che le stringeva ad unità, le sue forze
tornavano al primitivo disordine. Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a
una superior forma dominatrice, l'anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si
trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme. Egli passava dall'uno all'altro amore
con incredibile leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza
scrupolo, una gran trama d'inganni, di finzioni, di menzogne, d'insidie, per raccogliere
il maggior numero di prede. L'abitudine della falsità gli ottundeva la conscienza. Per la
continua mancanza della riflessione, egli diveniva a poco a poco impenetrabile a sé
stesso, rimaneva fuori del suo mistero. A poco a poco egli quasi giungeva a non vedere
più la sua vita interiore, in quella guisa che l'emisfero esterno della terra non vede il
sole pur essendogli legato indissolubilmente. Sempre vivo, spietatamente vivo, era in lui
un istinto: l'istinto del distacco da tutto ciò che l'attraeva senza avvincerlo. E la
volontà, disutile come una spada di cattiva tempra, pendeva al fianco di un ebro o di un
inerte. Il ricordo di Elena talvolta, risorgendo d'improvviso, lo riempiva; ed egli o
cercava di sottrarsi alle malinconie del rimpianto o piacevasi invece rivivere nella
imaginazione viziata l'eccessività di quella vita, per averne uno stimolo ai nuovi amori.
Ripeteva a sé stesso le parole del lied: " Ricorda i giorni spenti! E metti su le
labbra della seconda baci soavi quanto quelli che tu davi alla prima, non è gran tempo!
" Ma già la seconda eragli uscita dall'anima. Egli aveva parlato d'amore a Donna
Bianca Dolcebuono, da principio senza quasi pensarci, istintivamente attratto forse per
virtù di un indefinito riflesso che a colei veniva dall'essere amica di Elena. Forse
germogliava il piccolo seme di simpatia che avevan gittato in lui le parole della contessa
fiorentina, al pranzo in casa Doria. Chi sa dire per quale misterioso procedere un
qualunque contatto spirituale o materiale tra un uomo e una donna, anche insignificante,
può generare ed alimentare in ambedue un sentimento latente, innavvertito, insospettato,
che dopo molto tempo le circostanze faranno emergere d'un tratto? E' il fenomeno medesimo
che noi riscontriamo nell'ordine intellettuale, quando il germe d'un pensiero o l'ombra
d'una imagine si ripresentano d'un tratto, dopo un lungo intervallo, per uno sviluppo
inconsciente, elaborati in imagine compiuta, in pensiero complesso. Le medesime leggi
governano tutte le attività del nostro essere; e le attività di cui noi siam consapevoli
non sono che una parte delle nostre attività. Donna Bianca Dolcebuono era l'ideal tipo
della bellezza fiorentina, quale fu reso dal Ghirlandajo nel ritratto di Giovanna
Tornabuoni, ch'è in Santa Maria Novella. Aveva un chiaro volto ovale, la fronte larga
alta e candida, la bocca mite, il naso un poco rilevato, gli occhi di quel color tanè
oscuro lodato dal Firenzuola. Prediligeva disporre i capelli con abbondanza su le tempie,
fino a mezzo delle guance, alla foggia antica. Ben le conveniva il cognome, poiché ella
portava nella vita mondana una bontà nativa, una grande indulgenza, una cortesia per
tutti eguale, e una parlatura melodiosa. Era, insomma, una di quelle donne amabili, senza
profondità né di spirito né d'intelletto, un poco indolenti, che sembrano nate a vivere
in piacevolezza e a cullarsi ne' discreti amori come gli uccelli su gli alberi fiorenti.
Quando udì le frasi di Andrea, ella esclamò, con un grazioso stupore: - Dimenticate
Elena così presto? Poi, dopo alcuni giorni di graziose esitazioni, le piacque di cedere;
e non di rado ella parlava d'Elena al giovine infedele, senza gelosia, candidamente. - Ma
perché mai sarà partita prima del solito, quest'anno? - gli chiese una volta,
sorridendo. - Io non so - rispose Andrea, senza poter nascondere un po' d'impazienza e di
amarezza. - Tutto, proprio, è finito? - Bianca, vi prego, parliamo di noi! - interruppe
egli con la voce alterata, poiché quei discorsi lo turbavano e irritavano. Ella rimase un
momento pensosa, come se volesse sciogliere un enigma; quindi sorrise scotendo la testa,
come se rinunziasse, con una fugace ombra di malinconia su gli occhi. - Così è l'amore.
E rese all'amante le carezze. Andrea, possedendola, possedeva in lei tutte le gentili
donne fiorentine del Quattrocento, alle quali cantava il Magnifico: E' si vede in ogni
lato Che 'l proverbio dice il vero, Che ciascun muta pensiero Come l'occhio è separato.
Vedesi cambiare amore: Come l'occhio sta di lunge, Così sta di lunge il core: Perché
appresso un altro il punge. Col qual tosto e' si congiunge Con piacere e con diletto...
Allorché, nell'estate, ella era per partire, disse, prendendo congedo, senza nascondere
la sua commozione gentile: - Io so che, quando ci rivedremo, voi non mi amerete più.
Così è l'amore. Ma ricordatevi di un'amica! Egli non l'amava. Pure, nelle giornate calde
e tediose, certe molle cadenze della voce di lei gli tornavan nell'anima come la magia
d'una rima e gli suscitavano la visione d'un giardin fresco d'acque pel quale ella andasse
in compagnia d'altre donne sonando e cantando come in una vignetta del Sogno di Polifilo.
E Donna Bianca si dileguò. E vennero altre, talvolta in coppia: Barbarella Viti, la
mascula, che aveva una superba testa di giovinetto, tutta quanta dorata e fulgente come
certe teste giudee del Rembrandt; la contessa di Lùcoli, la dama delle turchesi, una
Circe di Dosso Dossi, con due bellissimi occhi pieni di perfidia, varianti come i mari
d'autunno, grigi, azzurri, risplendenti di quella prodigiosa carnagione, composta di luce,
di rose e di latte, che han soltanto i babies delle grandi famiglie inglesi nelle tele del
Reynolds, del Gainsborough e del Lawrences; la marchesa Du Deffand, una bellezza del
Direttorio, una Récamier, dal lungo e puro ovale, dal collo di cigno, dalle mammelle
saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta Cellesi, la dama degli smeraldi, che
volgeva con una lenta maestà divina la sua testa d'imperatrice tra lo scintillio delle
enormi gemme ereditarie; la principessa Kalliwoda, la dama senza gioielli, che nella
fragilità delle sue forme chiudeva nervi d'acciaio per il piacere, e su la cerea
delicatezza dei suoi lineamenti apriva due voraci occhi leonini, gli occhi d'uno Scita.
Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l'inebriò d'una
cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e
sottilità del vizio a lui ancóra ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le
infezioni. Corrompendosi, corrompeva. La frode gli invescava l'anima, come d'una qualche
materia viscida e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de' sensi
gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch'era in loro men nobile e men
puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le donne che avevan peggior fama; un
crudel gusto di contaminazione lo spingeva a sedurre le donne che avean fama migliore. Fra
le braccia dell'una egli si ricordava d'una carezza dell'altra, d'un modo di voluttà
appreso dall'altra. Talvolta (e fu, in ispecie, quando la notizia delle seconde nozze di
Elena Muti gli riaprì per qualche tempo la ferita) piacevasi di sovrapporre alla nudità
presente le evocate nudità di Elena e di servirsi della forma reale come d'un appoggio
sul qual godere la forma ideale. Nutriva l'imagine con uno sforzo intenso, finché
l'imaginazione giungeva a possedere l'ombra quasi creata. Pur tuttavia egli non aveva
culto per le memorie dell'antica felicità. Talvolta, anzi, quelle gli davano un appiglio
a una qualunque avventura. Nella Galleria Borghese, per esempio, nella memore sala degli
specchi, egli ottenne da Lilian Theed la prima promessa; nella Villa Medici, su per la
memore scala verde che conduce al Belvedere, egli intrecciò le sue dita alle lunghe dita
d'Angélique Du Deffand; e il piccolo teschio d'avorio appartenuto al cardinale Immenraet,
il gioiello mortuario segnato del nome d'Ippolita oscura, gli suscitò il capriccio di
tentare Donna Ippolita Albónico. Questa dama aveva nella sua persona una grande aria di
nobiltà, somigliando un poco a Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II de' Medici,
nel ritratto di Giusto Suttermans, ch'è in Firenze, dai Corsini. Amava gli abiti
suntuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi collari medìcei parevano la foggia
meglio adatta a far risaltare la bellezza della sua testa superba. In una giornata di
corse, su la tribuna, Andrea Sperelli voleva ottenere da Donna Ippolita ch'ella andasse la
dimane al palazzo Zuccari per prendere il misterioso avorio dedicato a lei. Ella si
schermiva, ondeggiando tra la prudenza e la curiosità. Ad ogni frase del giovine un po'
ardita, corrugava le sopracciglia mentre un sorriso involontario le sforzava la bocca; e
la sua testa, sotto il cappello ornato di piume bianche, sul fondo dell'ombrellino ornato
di merletti bianchi, era in un momento di singolare armonia. - Tibi, Hippolyta! Dunque
venite? Io vi aspetterò tutto il giorno, dalle due fino a sera. Va bene? - Ma siete
pazzo? - Di che temete? Io giuro alla Maestà Vostra di non toglierle nuppure un guanto.
Rimarrà seduta come in un trono, secondo il suo regal costume; e, anche prendendo una
tazza di te, potrà non posare lo scettro invisibile che porta sempre nella destra
imperiosa. E' concessa la grazia, a questi patti? - No. Ma ella sorrideva, poiché
compiacevasi di sentir rilevare quell'aspetto di regalità ch'era la sua gloria. E Andrea
Sperelli continuava a tentarla, sempre in tono di scherzo o di preghiera, unendo alla
seduzione della sua voce uno sguardo continuo, sottile, penetrante, quello sguardo
indefinibile che sembra svestire le donne, vederle ignude a traverso le vesti, toccarle su
la pelle viva. - Non voglio che mi guardiate così - disse Donna Ippolita, quasi offesa,
con un lieve rossore. Su la tribuna eran rimaste poche persone. Signore e signori
passeggiavano su l'erba, lungo lo steccato, o circondavano il cavallo vittorioso, o
scommettevano coi publici scommettitori urlanti, sotto l'incostanza del sole che appariva
e spariva fra i molti arcipelaghi delle nuvole. - Scendiamo - ella soggiunse, non
accorgendosi degli occhi seguaci di Giannetto Rùtolo che stava appoggiato alla ringhiera
della scala. Quando, per discendere, passarono d'innanzi a colui, lo Sperelli disse: -
Addio, marchese, a poi. Correremo. Il Rùtolo s'inchinò profondamente a Donna Ippolita; e
una sùbita fiamma gli colorò la faccia. Eragli parso di sentire nel saluto del conte una
leggera irrisione. Rimase alla ringhiera, seguendo sempre con gli occhi la coppia nel
recinto. Visibilmente, soffriva. - Rùtolo, alle vedette! - fecegli, con un riso malvagio,
la contessa di Lùcoli passando a braccio con Don Filippo del Monte, giù per la scala di
ferro. Egli sentì la punta nel mezzo del cuore. Donna Ippolita e il conte d'Ugenta, dopo
essere giunti fin sotto la specola dei giudici, tornavano verso la tribuna. La dama teneva
il bastone dell'ombrellino su la spalla, girandolo fra le dita; la cupola bianca le
roteava dietro la schiena, come un'aureola, e i molti merletti s'agitavano e si
sollevavano incessantemente. Entro quel cerchio mobile ella di tratto in tratto rideva
alle parole del giovine; e ancóra un lieve rossore tingeva la nobile pallidezza del suo
volto. Di tratto in tratto, i due si soffermavano. Giannetto Rùtolo, fingendo di voler
osservare i cavalli che entravano nella pista, volse il binocolo fra i due. Visibilmente,
gli tremavano le mani. Ogni sorriso, ogni gesto, ogni attitudine di Ippolita gli dava un
atroce dolore. Quando abbassò il binocolo, egli era assai smorto. Aveva sorpreso negli
occhi dell'amata, che si posavano su lo Sperelli, quello sguardo ch'egli ben conosceva
poiché n'era stato, un tempo, illuminato di speranza. Gli parve che tutto ruinasse
intorno a lui. Un lungo amore finiva, troncato da quello sguardo, irreparabilmente. Il
sole non era più il sole; la vita non era più la vita. La tribuna si ripopolava
rapidamente, già che il segnale della terza corsa era prossimo. Le dame salivano in piedi
su i sedili. Un mormorio correva lungo i gradi, simile a un vento sopra un giardino in
pendio. La campanella squillò. I cavalli partirono come un gruppo di saette. - Correrò
in onor vostro, Donna Ippolita - disse Andrea Sperelli all'Albónico, prendendo congedo
per andare a prepararsi alla seguente corsa, ch'era di gentiluomini. - Tibi, Hippolyta,
semper! Ella gli strinse la mano, forte, per augurio, non pensando che anche Giannetto
Rùtolo stava fra i contenditori. Quando vide, poco oltre, l'amante pallido scender giù
per la scala, l'ingenua crudeltà dell'indifferenza le regnava nei belli occhi oscuri. Il
vecchio amore le cadeva dall'anima, pari a una spoglia inerte, per l'invasione del nuovo.
Ella non apparteneva più a quell'uomo; non gli era legata da nessun legame. Non è
concepibile come prontamente e intieramente rientri nel possesso del proprio cuore la
donna che non ama più. " Egli me l'ha presa " pensò colui, camminando verso la
tribuna del Jockey-club, su l'erba che parevagli s'affondasse sotto i suoi piedi come
un'arena. Davanti, a poca distanza, camminava l'altro, con un passo disinvolto e sicuro.
La persona alta e snella, nell'abito cinerino, aveva quella particolare inimitabile
eleganza che sol può dare il lignaggio. Egli fumava. Giannetto Rùtolo, venendo dietro,
sentiva l'odore della sigaretta, ad ogni buffo di fumo; ed era per lui un fastidio
insopportabile, un disgusto che gli saliva dalle viscere, come contro un veleno. Il duca
Beffi e Paolo Caligàro stavano su la soglia, già in assetto di corsa. Il duca si chinava
su le gambe aperte, con un movimento ginnico, per provare l'elasticità de' suoi calzoni
di pelle o la forza de' suoi ginocchi. Il piccolo Caligàro imprecava alla pioggio della
notte, che aveva reso pesante il terreno. - Ora - disse allo Sperelli - tu hai molte
probabilità, con Miching Mallecho. Giannetto Rùtolo udì quel presagio, ed ebbe al cuore
una fitta. Egli riponeva nella vittoria una vaga speranza. Nella sua imaginazione vedeva
gi effetti d'una corsa vinta e d'un duello fortunato, contro il nemico. Spogliandosi, ogni
suo gesto tradiva la preoccupazione. - Ecco un uomo che, prima di montare a cavallo, vede
aperta la sepoltura - disse il duca di Beffi, posandogli una mano su la spalla, con un
atto comico. - Ecce homo novus. Andrea Sperelli, il quale in tal momento aveva gli spiriti
gai, ruppe in un di que' suoi franchi scoppi di risa, ch'erano la più seducente effusione
della sua giovinezza. - Perché ridete, voi? - gli chiese Rùtolo, pallidissimo, fuori di
sé, fissandolo di sotto ai sopraccigli corrugati. - Mi pare - rispose lo Sperelli, senza
turbarsi - che voi mi parliate in un tono assai vivo, caro marchese. - Ebbene? - Pensate
del mio riso quel che più vi piace. - Penso che è sciocco. Lo Sperelli balzò in piedi,
fece un passo, e levò contro Giannetto Rùtolo il frustino. Paolo Caligàro giunse a
trattenergli il barccio, per prodigio. Altre parole irruppero. Sopravvenne Don Marcantonio
Spada; udì l'alterco, e disse: - Basta, figliuoli. Sapete ambedue quel che dovrete fare
domani. Ora, dovete correre. I due avversari compirono la lor vestizione, in silenzio.
Quindi uscirono. Già la notizia del litigio s'era sparsa nel recinto e saliva su per le
tribune, ad accrescere l'aspettazion della corsa. La contessa di Lùcoli, con raffinata
perfidia, la diede a Donna Ippolita Albónico. Questa, non lasciando trasparire alcun
turbamento, disse: - Mi dispiace. Parevano amici. La diceria si diffondeva,
trasformandosi, per le belle bocche feminee. Intorno ai publici scommettitori ferveva la
folla. Miching Mallecho, il cavallo del conte d'Ugenta, e Brummel, il cavallo del marchese
Rùtolo, erano i favoriti; venivano poi Satirist del duca di Beffi e Carbonilla del conte
Caligàro. I buoni conoscidori però diffidavano de' due primi, pensando che la
concitazion nervosa dei due cavalieri avrebbe certamente nociuto alla corsa. Ma Andrea
Sperelli era calmo, quasi allegro. Il sentimento della sua superiorità su l'avversario
l'assicurava; inoltre, quella tendenza cavalleresca alle avventure perigliose, ereditata
dal padre byroneggiante, gli faceva vedere il suo caso in una luce di gloria; e tutta la
nativa generosità del suo sangue giovenile risvegliavasi, d'innanzi al rischio. Donna
Ippolita Albónico, d'un tratto, gli si levava in cima dell'anima, più desiderabile e
più bella. Egli andò incontro al suo cavallo, con il cuor palpitante, come incontro a un
amico che gli portasse l'annunzio aspettato d'una fortuna. Gli palpò il muso, con
dolcezza; e l'occhio dell'animale, quell'occhio ove brillava tutta la nobiltà della razza
per una inestinguibile fiamma, l'inebriò come lo sguardo magnetico di una donna. -
Mallecho, - mormorava, palpandolo - è una gran giornata! Dobbiamo vincere. Il suo
trainer, un omuncolo rossiccio, figgendo le pupille acute su gli altri cavalli che
passavano portati a mano dai palafrenieri, disse, con la voce roca: - No doubt. Miching
Mallecho esq. era un magnifico baio, proveniente dalle scuderie del barone di Soubeyran.
Univa alla slanciata eleganza delle forme una potenza di reni straordinaria. Dal pelo
lucido e fino, di sotto a cui apparivano gli intichi delle vene sul petto e su le cosce,
pareva esalare quasi un fuoco vaporoso, tanto era l'ardore della sua vitalità. Fortissimo
nel salto, aveva portato assai spesso nelle cacce il suo signore, di là da tutti gli
ostacoli, non rifiutandosi d'innanzi a una triplice filagna o d'innanzi a una maceria mai,
sempre alla coda dei cani, intrepidamente. Un hop del cavaliere l'incitava più d'un colpo
di sperone; e una carezza lo faceva fremere. Prima di montare, Andrea esaminò
attentamente tutta la bardatura, si assicurò d'ogni fibbia e d'ogni cinghia; quindi
balzò in sella, sorridendo. Il trainer dimostrò con un espressivo gesto la sua fiducia,
guardando il padrone allontanarsi. Intorno alle tabelle delle quote persisteva la folla
degli scommettitori. Andrea sentì su la sua persona tutti gli sguardi. Volse gli occhi
alla tribuna destra per vedere l'Albónico, ma non poté distinguer nulla tra la
moltitudine delle dame. Salutò da presso Lilian Theed a cui eran ben noti i galoppi di
Mallecho dietro le volpi e dietro le chimere. La marchesa d'Ateleta fece da lontano un
atto di rimprovero, poiché aveva saputo l'alterco. - Com'è quotato Mallecho? - chiese
egli a Ludovico Barbarisi. Andando al punto di partenza, egli pensava freddamente al
metodo che avrebbe tenuto per vincere; e guardava i suoi tre competitori, che lo
precedevano, calcolando la forza e la scienza di ciascuno. Paolo Caligàro era un demonio
di malizia, rotto a tutte le furberie del mestiere, come un jockey; ma Carbonilla, sebbene
veloce, era di poca resistenza. Il duca di Beffi, cavaliere d'alta scuola, che aveva vinto
più d'un match in Inghilterra, montava un animale d'umor difficile, che poteva rifiutarsi
innanzi a qualche ostacolo. Giannetto Rùtolo invece ne montava uno eccellente ed assai
ben disciplinato; ma sebben forte, egli era troppo impetuoso e prendeva parte a una corsa
publica per la prima volta. Inoltre, doveva trovarsi in uno stato di nervosità terribile,
come da molti segni appariva. Andrea pensava, guardandolo: " La mia vittoria d'oggi
influirà sul duello di domani, senza dubbio. Egli perderà la testa, certo, qui e là. Io
debbo essere calmo, su tutt'e due i campi. " Poi, anche, pensò: " Quale sarà
l'animo di Donna Ippolita? " Gli parve che intorno ci fosse un silenzio insolito.
Misurò con l'occhio la distanza fino alla prima siepe; notò su la pista un sasso
luccicante; s'accorse d'essere osservato dal Rùtolo; ebbe un fremito per tutta la
persona. La campanella diede il segnale; ma Brummel aveva già preso lo slancio; e la
partenza quindi, non essendo stata contemporanea, fu ritenuta non buona. Anche la seconda
fu una falsa partenza, per colpa di Brummel. Lo Sperelli e il duca di Beffi si sorrisero
fuggevolmente. La terza partenza fu valida. Brummel, sùbito, si staccò dal gruppo,
radendo lo steccato. Gli altri tre cavalli seguirono di pari, per un tratto; e saltarono
la prima siepe, felicemente; poi, la seconda. Ciascuno dei tre cavalieri faceva un gioco
diverso. Il duca di Beffi cercava di mantenersi nel gruppo perché d'innanzi agli ostacoli
Satirist fosse istigato dall'esempio. Il Caligàro moderava la foga di Carbonilla, a
conservarle le forze per gli ultimi cinquecento metri. Andrea Sperelli aumentava
gradatamente la velocità, volendo incalzare il suo nemico in prossimità dell'ostacolo
più difficile. Poco dopo, infatti, Mallecho avanzò i due compagni e si diede a serrare
da presso Brummel. Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incalzante, e fu preso da
tale ansietà che non vide più nulla. Tutto alla vista gli si confuse, come s'egli fosse
per perdere gli spiriti. Faceva uno sforzo immenso per tenere piantati gli speroni nel
ventre del cavallo; e lo sbigottiva il pensiero che lo forze lo abbandonassero. Aveva
negli orecchi un rombo continuo, e in mezzo al rombo udiva il grido breve e secco d'Andrea
Sperelli. - Hop! Hop! Sensibilissimo alla voce più che ad ogni altra instigazione,
Mallecho divorava l'intervallo di distanza, non era più che a tre o quattro metri da
Brummel, stava per raggiungerlo, per superarlo. - Hop! Un'altra barriera attraversava la
pista. Il Rùtolo non la vide, poiché aveva smarrita ogni conscienza, conservando solo un
furioso istinto di aderire all'animale e di spingerlo innanzi, alla ventura. Brummel
saltò; ma, non coadiuvato dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e ricadde dall'altra
parte così male che il cavaliere perse le staffe, pur restando in sella. Seguitò
tuttavia a correre. Andrea Sperelli teneva ora il primo posto; Giannetto Rùtolo, senza
aver recuperato le staffe, veniva secondo, incalzato da Paolo Caligàro; il duca di Beffi,
avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva ultimo. Passarono sotto le tribune, in
quest'ordine; udirono un clamore confuso, che si dileguò. Su le tribune, tutti gli animi
stavan sospesi nell'attenzione. Alcuni indicavano ad alta voce le vicende della corsa. Ad
ogni mutamento nell'ordine dei cavalli, molte esclamazioni si levavano tra un lungo
mormorio; e le dame ne avevano un fremito. Donna Ippolita Albónico, ritta in piedi sul
sedile, appoggiandosi alle spalle del marito il quale era sotto di lei, guardava senza mai
mutarsi, con una meravigliosa padronanza; se non che le labbra troppo chiuse e un
leggerissimo increspamento della fronte potevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo.
A un certo punto, ritrasse dalle spalle del marito le mani per tema di tradirsi con un
qualche involontario moto. - Sperelli è caduto - annunziò a voce alta la contessa di
Lùcoli. Mallecho, infatti, saltando, aveva messo un piede in fallo su l'erba umida ed
erasi piegato su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. Andrea gli era passato dal
collo, senza danno; e con una prontezza fulminea era tornato in sella, mentre il Rùtolo e
il Caligàro sopraggiungevano. Brummel, sebbene offeso alle zampe posteriori, faceva
prodigi, per virtù del suo sangue puro. Carbonilla infine spiegava tutta la sua
velocità, condotta con arte mirabile dal suo cavaliere. Mancavano circa ottocento metri
alla mèta. Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma raccolse tutti gli spiriti per
riafferrarla. Teso su le staffe, curvo su la criniera, gittava di tratto in tratto quel
grido breve, èsile, penetrante, che aveva tanto potere sul nobile animale. Mentre Brummel
e Carbonilla, affaticati sul terreno pesante, perdevano vigore, Mallecho aumentava la
veemenza del suo slancio, stava per riconquistare il suo posto, già sfiorava la vittoria
con la fiamma delle sue narici. Dopo l'ultimo ostacolo, avendo superato Brummel,
raggiungeva con la testa la spalla di Carbonilla. A circa cento metri dalla mèta, radeva
lo steccato, avanti, avanti, lasciando dietro di sé e la morella del Caligàro lo spazio
di dieci " lunghezze ". La campana squillò; un applauso risonò per tutte le
tribune, come il crepitar sordo di una grandine; un clamore si propagò nella folla su la
prateria inondata dal sole. Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: " La
fortuna è con me, oggi. Sarà con me anche domani? " Sentendo venire a sé l'aura
del trionfo, ebbe contro l'oscuro pericolo quasi una sollevazion d'ira. Avrebbe voluto
affrontarlo sùbito, in quello stesso giorno, in quella stessa ora, senza altro indugio,
per godere una duplice vittoria e per mordere quindi al frutto che gli offriva la mano di
Donna Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi d'orgoglio selvaggio, al pensiero di
posseder quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta. L'imaginazione
gli fingeva un gaudio non mai provato, quasi direi una voluttà d'altri tempi, quando i
gentiluomini scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e carezzevoli,
affondandovi la fronte ancóra grondante per la fatica dell'abbattimento e la bocca
ancóra amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella inesplicabile ebrezza
che dànno a certi uomini d'intelletto l'esercizio della forza fisica, l'esperimento del
coraggio, la rivelazione dell brutalità. Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia
originale torna al sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina
gentilezza dell'abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania
sanguinaria ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspirava la calda ed acre esalazion del
suo cavallo, pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi egli aveva fin allora
preferiti, nessuno aveva mai dato al suo senso un più acuto piacere. Appena smontò, fu
accerchiato da amiche e da amici che si congratulavano. Miching Mallecho, sfinito, tutto
fumante e spumante, sbuffava protendendo il collo e scotendo le briglie. I suoi fianchi
s'abbassavano e si sollevavano con un moto continuo, così forte che pareva scoppiare; i
suoi muscoli sotto la pelle tremavano come le corde degli archi dopo lo scocco; i suoi
occhi iniettati di sangue e dilatati avevano ora l'atrocità di quelli d'una fiera; il suo
pelo, ora interrotto da larghe chiazze più oscure, si apriva qua e là a spiga sotto i
rivoli del sudore; la vibrazione incessante di tutto il suo corpo faceva pena e tenerezza,
come la sofferenza d'una creatura umana. - Poor fellow! - mormorò Lilian Theed. Andrea
gli esaminò i ginocchi per veder se la caduta li avesse offesi. Erano intatti. Allora,
battendolo pianamente in sul collo, gli disse con un accento indefinibile di dolcezza: -
Va, Mallecho, va. E lo riguardò allontanarsi. Poi, avendo lasciato l'abito di corsa,
cercò di Ludovico Barbarisi e del barone di Santa Margherita. Ambedue accettarono
l'incarico di assisterlo nella questione col marchese Rùtolo. Egli li pregò di
sollecitare. - Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Domani, all'una dopo mezzogiorno,
io debbo essere già libero. Ma domattina lasciatemi dormire almeno fino alle nove. Io
pranzo dalla Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani; e poi, a ora tarda, al
Circolo. Sapete dove trovarmi. Grazie, e a rivederci, amici. Salì alla tribuna; ma evitò
di avvicinarsi sùbito a Donna Ippolita. Sorrideva, sentendosi avvolgere dagli sguardi
feminili. Molte belle mani si tendevano a lui; molte belle voci lo chiamavano
familiarmente Andrea; alcune anzi lo chiamavan con una certa ostentazione. Le dame che
avevano scommesso per lui gli dicevano la somma della loro vincita; dieci luigi, venti
luigi. Altre gli domandarono, con curiosità: - Vi batterete? A lui pareva di aver
raggiunto il culmine della gloria avventurosa in un sol giorno, meglio che il duca di
Buckingham e il signor di Lauzun. Egli era uscito vincitore da una corsa eroica, avava
acquistata una nuova amante, magnifica e serena come una dogaressa; aveva provocato un
duello mortale; ed ora passava tranquillo e cortese, né più né meno del solito, fra il
sorriso di tali dame a cui egli conosceva altro che la grazia della bocca. Non poteva egli
forse indicare di molte un vezzo segreto o una particolare abitudine di voluttà? Non
vedeva egli, a traverso tutta quella chiara freschezza di stoffe primaverili, il neo
biondo, simile a una piccola moneta d'oro, sul fianco sinistro d'Isotta Cellesi; o il
ventre incomparabile di Giulia Moceto, polito come una coppa d'avorio, puro come quel
d'una statua, per l'assenza perfetta di ciò che nelle sculture e nelle pitture antiche
rimpiangeva il poeta del Musée secret? Non udiva nella voce sonora di Barbarella Viti
un'altra indefinibile voce che ripeteva di continuo una parola invereconda; o nell'ingenuo
riso di Aurora Seymour un altro indefinibile suono, rauco e gutturale, che ricordava un
poco il rantolo dei gatti in su' focolari e il tubare delle tortore ne' boschi? Non sapeva
le squisite depravazioni della contessa de Lùcoli che s'inspirava su i libri erotici, su
le pietre incise e su le miniature; o gli invincibili pudori di Francesca Daddi che ne'
supremi aneliti, come un'agonizzante, invocava il nome di Dio? Quasi tutte le donne
ch'egli aveva ingannato, o che lo avevano ingannato, erano là e gli sorridevano. - Ecco
l'eroe! - disse il marito dell'Albónico, tendendogli la mano, con amabilità insolita, e
stringendogliela forte. - Eroe da vero - aggiunse Donna Ippolita, col tono insignificante
d'un complimento obbligato, parendo ignorare il dramma. Lo Sperelli s'inchinò e passò
oltre, perché provava non so che imbarazzo d'innanzi a quella strana benevolenza del
marito. Un sospetto gli balenò nell'animo, che il marito gli fosse grato d'aver attaccato
briga con l'amante della moglie; e sorrise alla viltà di quell'uomo. Come si volse, gli
occhi di Donna Ippolita s'incontrarono, si mescolarono con i suoi. Nel ritorno, dal
mail-coach del principe di Ferentino vide fuggire verso Roma Giannetto Rùtolo con un
piccolo legno a due ruote, al trotto fitto d'un gran roano ch'egli guidava chinato avanti,
tenendo la testa bassa e il sigaro tra i denti, senza curarsi delle guardie che gli
intimavano di mettersi nella fila. Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di
luce gialla come zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel
viola, fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe Andrea la conscienza intera del male
ch'egli faceva soffrire a quell'anima. La sera, in casa Giustiniani, disse all'Albónico:
- Riman dunque fermo che domani, dalle due alle cinque, io vi aspetterò. Ella voleva
chiedergli: - Come? non vi battete, domani? Ma non osò. Rispose: - Ho promesso. Poco
tempo dopo, si accostò ad Andrea il marito, mettendoglisi a braccio con affettuosa
premura, per chiedergli notizie del duello. Egli era un uomo ancor giovine, biondo,
elegante, con i capelli molto radi, con l'occhio biancastro, con i due canini sporgenti
fuor dalle labbra. Aveva una leggera balbuzie. - Dunque? Dunque? Domani, eh? Andrea non
sapeva vincere la ripugnanza; e taneva il braccio teso lungo il fianco, per dimostrare che
non amava quella familiarità. Come vide entrare il barone di Santa Margherita, si liberò
dicendo: - Mi preme di parlare col Santa Margherita. Scusate, conte. Il barone l'accolse
con queste parole: - Tutto è stabilito. - Bene. Per che ora? - Per le dieci e mezzo, alla
Villa Sciarra. Spada e guanto di sala. A oltranza. - Chi sono gli altri due? - Roberto
Casteldieri e Carlo de Souza. Ci siamo sbrigati sùbito, evitando le formalità. Giannetto
aveva già pronti i suoi. Abbiamo steso il verbale di scontro, al Circolo, senza
discussione. Cerca di non andare a letto troppo tardi; mi raccomando. Tu devi essere
stanco. Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, Andrea andò al Circolo delle Cacce;
e si mise a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le due il Santa Margherita lo
sorprese, lo forzò ad abbandonare il tavolo, e volle ricondurlo a piedi fino al palazzo
Zuccari. - Mio caro, - ammoniva, in cammino - tu sei troppo temerario. In questi casi,
un'imprudenza può esser fatale. Per conservarsi intatta la vigoria, un buono spadaccino
deve avere a sé medesimo le cure che ha un buon tenore per conservarsi la voce. Il polso
è delicato quanto la laringe; le articolazioni delle gambe sono delicate quanto le corde
vocali. Intendi? Il meccanismo si risente d'ogni minimo disordine; lo strumento si guasta,
non obedisce più. Dopo una notte d'amore o di giuoco o di crapula, anche le stoccate di
Camillo Agrippa non potrebbero andar diritte e la parate non potrebbero essere né esatte
né veloci. Ora, basta sbagliare d'un millimetro per prendersi tre pollici di ferro in
corpo. Erano al principio della via de' Condotti; e vedevano, al fondo, la piazza di
Spagna illuminata dalla piena luna, la scala biancheggiante, la Trinità de' Monti alta
nell'azzurro soave. - Tu, certo, - seguitò il barone - hai molti vantaggi su
l'avversario: tra gli altri, il sangue freddo e la pratica del terreno. T'ho veduto a
Parigi contro il Gavaudan. Ti ricordi? Gran bel duello! Ti battesti come un dio. Andrea si
mise a ridere di compiacenza. L'elogio di quell'insigne duello gli gonfiava il cuore
d'orgoglio, gli metteva nei nervi una sovrabbondanza di forze. La sua mano,
istintivamente, stringendo il bastone faceva atto di ripetere il famoso colpo che trafisse
il braccio al marchese di Gavaudan il 12 dicembre del 1885. - Fu - egli disse - una "
contro di terza " e un " filo ". E il barone riprese: - Giannetto Rùtolo,
su la pedana, è un discreto tiratore; sul terreno, è di primo impeto. S'è battuto una
volta sola, con mio cugino Cassìbile; e n'è uscito male. Fa molto abuso di " uno,
due " e di " uno, due, tre ", attaccando. Ti gioveranno gli " arresti
in tempo " e specialmente le " inquartate ". Mio cugino, appunto, lo bucò
con una " inquartata " netta, al secondo assalto. E tu sei un tempista forte.
Abbi però l'occhio sempre vigile, e cerca di conservar la misura. Sarà bene che tu non
dimentichi d'avere a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, l'amante e su cui hai levato
il frustino. Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia metteva un chioccolìo roco ed
umile, luccicando alla luna che vi si specchiava dall'alto della colonna cattolica.
Quattro o cinque vetture publiche stavano ferme, in file, coi fanali accesi. Dalla via del
Babuino giungeva un tintinnio di sonagli e un romor sordo di passi, come d'un gregge in
cammino. A piè della scala, il barone s'accomiatò. - Addio, a domani. Verrò qualche
minuto prima delle nove, con Ludovico. Tirerai due colpi, per scioglierti. Penseremo noi
ad avvisare il medico. Va; dormi profondo. Andrea si mise su per la scala. Al primo
ripiano si soffermò, attirato dal tintinnio dei sonagli, che s'avvicinava. Veramente,
egli si sentiva un po' stanco; a anche un po' triste, in fondo al cuore. Dopo la fierezza
suscitatagli nel sangue da quel colloquio di scienza d'arme e dal ricordo della sua
bravura, una specie d'inquietudine l'invadeva, non bene distinta, mista di dubbio e di
scontento. I nervi, troppo tesi in quella giornata violenta e torbida, gli si rilassavano
ora, sotto la clemenza della notte primaverile. - Perché, senza passione, per puro
capriccio, per sola vanità, per sola prepotenza, erasi egli compiaciuto di sollevare un
odio e di rendere dolorosa l'anima di un uomo? - Il pensiero della orribile pena che certo
doveva affliggere il suo nemico, in una notte così dolce, gli mosse quasi un senso di
pietà. L'imagine di Elena gli traversò il cuore, in un baleno; gli tornarono nella mente
le angosce durate un anno innanzi, quando egli l'aveva perduta, e le gelosie, e le
collere, e gli sconforti inesprimibili. - Anche allora le notti erano chiare, tranquille,
solcate di profumi; e come gli pesavano! - Aspirò l'aria, per ove salivano i fiati delle
rose fiorite ne' piccoli giardini laterali; e guardò giù nella piazza passare il gregge.
La folta lana biancastra delle pecore agglomerate procedeva con un fluttuamento continuo,
accavallandosi, a similitudine d'un'acqua fangosa che inondasse il lastrico. Qualche
belato tremulo mescevasi al tinitinno; altri belati, più sottili, più timidi,
rispondevano; i butteri gittavano di tratto in tratto un grido e distendevano le aste,
cavalcando dietro e a' fianchi; la luna dava a quel passaggio d'armenti, per mezzo alla
gran città addormentata, non so che mistero quasi di cosa veduta in sogno. Andrea si
ricordò che in una notte serena di febbraio, uscendo da un ballo dell'Ambasciata inglese
nella via Venti Settembre, egli ed Elena avevano incontrata una mandra; e la carrozza
aveva dovuto fermarsi. Elena, china al cristallo, guardava le pecore passar rasente le
ruote e indicava gli agnelli più piccoli, un un'allegria infantile; ed egli teneva il suo
viso accosto al viso di lei, socchiudendo gli occhi, ascoltando lo scalpiccìo, i belati,
il tintinno. Perché mai gli tornavano ora tutte quelle memorie di Elena? - Riprese a
salire, lentamente. Sentì più grave, nel salire, la sua stanchezza; i ginocchi gli si
piegavano. Gli lampeggiò d'improvviso il pensiero della morte. " S'io rimanessi
ucciso? S'io ricevessi una cattiva ferita e n'avessi per tutta la vita un impedimento?
" La sua avidità di vivere e di godere si sollevò contro quel pensiero lugubre.
Egli disse a sé medesimo: " Bisogna vincere. " E vide tutti i vantaggi ch'egli
avrebbe avuti da quell'altra vittoria: il prestigio della sua fortuna, la fama della sua
prodezza, i baci di Donna Ippolita, nuovi amori, nuovi godimenti, nuovi capricci. Allora,
dominando ogni agitazione, si mise a curare l'igiene della sua forza. Dormì fino a che
non fu risvegliato dalla venuta dei due amici; prese la doccia consueta; fece distendere
sul pavimento la striscia d'incerato; e invitò il Santa Margherita a tirar due "
cavazioni " e quindi il Barbarisi a un breve assalto, durante il quale compì con
esattezza parecchie azioni di tempo. - Ottimo pugno - disse il barone, congratulandosi.
Dopo l'assalto, lo Sperelli, prese due tazze di tè e qualche biscotto leggero. Scelse un
paio di calzoni larghi, un paio di scarpe comode e col tacco molto basso, una camicia poco
inamidata; preparò il guanto, bagnandolo alquanto su la palma e spargendolo di pece greca
in polvere: vi unì una stringa di cuoio per fermar l'elsa al polso; esaminò la lama e la
punta delle due spade; non dimenticò alcuna cautela, alcuna minuzia. Quando fu pronto,
disse: - Andiamo. Sarà bene che ci troviamo sul terreno prima degli altri. Il medico?
Aspetta di là. Giù per le scale, egli incontrò il duca di Grimiti che veniva anche da
parte della marchesa d'Ateleta. - Vi seguirò nella villa, e porterò poi sùbito la
notizia a Francesca - disse il duca. Discesero tutti insieme. Il duca salì nel suo
legnetto, salutando. Gli altri salirono nella carrozza coperta. Andrea non ostentava il
buon umore, perché i motti prima d'un duello grave gli parevano di pessimo gusto; ma era
tranquillissimo. Fumava, ascoltando il Santa Margherita e il Barbarisi discutere, a
proposito d'un recente caso avvenuto in terra di Francia, se fosse o non fosse lecito
adoperar la mano sinistra contro l'avversario. Di tratto in tratto, chinavasi allo
sportello per guardar nella via. Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal
sole. Lungo la corsa, una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor
nell'ombra; il portone d'un palazzo mostrava il fondo d'un cortile ornato di portici e di
statue; dall'architrave barocco d'una chiesa di travertino pendevano i paramenti del mese
di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case verdastre, verso l'isola
di San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, apparve la città immensa, augusta, radiosa,
irta di campanili, di colonne e d'obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente
intagliata, come un'acropoli, nel pieno azzurro. - Ave, Roma. Moriturus te salutat - disse
Andrea Sperelli, gittando il residuo della sigaretta, verso l'Urbe. Poi soggiunse: - In
verità, cari amici, un colpo di spada oggi mi seccherebbe. Erano nella Villa Sciarra,
già per metà disonorata dai fabricatori di case nuove; e passavano in un viale di lauri
alti e snelli, tra due spalliere di rose. Il Santa Margherita, sporgendosi fuor dello
sportello, vide un'altra carrozza, ferma sul piazzale, d'innanzi alla villa; e disse: - Ci
aspettano già. Guardò l'orologio. Mancavano dieci minuti all'ora precisa. Fece fermare
il legno; e insieme col testimone e col chirurgo si diressero verso gli avversari. Andrea
rimase nel viale, ad attendere. Mentalmente, si mise a svolgere alcune azioni di offesa e
di difesa, ch'egli intendeva eseguire con probabilità di esito; ma lo distraevano i vaghi
miracoli della luce e dell'ombra per l'intrico dei lauri. I suoi occhi erravano dietro le
apparenze dei rami commossi dal vento mattutino, mentre il suoa animo meditava la ferita;
e gli alberi, gentili come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli facevano
sospiri in sul capo ove regnava il pensiero del buon colpo. Sopraggiunse a chiamarlo il
Barbarisi, dicendo: - Siamo pronti. Il custode ha aperto la villa. Abbiamo a disposizione
le stanze terrene; una gran comodità. Vieni a spogliarti. Andrea lo seguì. Mentre si
spogliava, i due medici aprivano i loro astucci dove riscintillavano i piccoli strumenti
d'acciaio. Uno era ancor giovine, pallido, calvo, con le mani feminee, con la bocca un po'
cruda, con un continuo visibile attrito della mandibola inferiore sviluppata
straordinariamente. L'altro era già maturo, fatticcio, sparso di lentiggini, con una
folta barba rossastra, con un collo taurino. L'uno pareva la contradizione fisica
dell'altro; e la lor diversità richiamava l'attenzion curiosa dello Sperelli.
Preparavano, sopra un tavolo, le fasce e l'acqua fenicata per disinfettar le lame. L'odore
dell'acido spandevasi nella stanza. Quando lo Sperelli fu in assetto, uscì col suo
testimone e con i medici, sul piazzale. Ancóra una volta, lo spettacolo di Roma tra le
palme attrasse i suoi sguardi e gli diede un gran palpito. L'impazienza l'invase. Egli
avrebbe voluto già trovarsi in guardia e udire il comando dell'attacco. Gli pareva d'aver
nel pugno il colpo decisivo, la vittoria. - Pronto? - gli chiese il Santa Margherita,
andandogli incontro. - Pronto. Il terreno scelto era a fianco della villa, nell'ombra,
sparso di fina ghiaia e battuto. Giannetto Rùtolo stava già all'altra estremità, con
Roberto Casteldieri e con Carlo de Souza. Ciascuno aveva assunto un'aria grave, quasi
solenne. I due avversarii furono posti l'uno di fronte all'altro; e si guardarono. Il
Santa Margherita, che aveva il comando del combattimento, notò la camicia di Giannetto
Rùtolo fortemente inamidata, troppo salda, con il colletto troppo alto; e fece osservar
la cosa al Casteldieri, ch'era il secondo. Questi parlò al suo primo; e lo Sperelli vide
il nemico accendersi d'improvviso nel volto e con un gesto risoluto far l'atto di
scamiciarsi. Egli, con tranquillità fredda, seguì l'esempio; si rimboccò i pantaloni;
prese dalle mani del Santa Margherita il guanto, la stringa e la spada; si armò con molta
cura, e quindi agitò l'arma per accertarsi di averla bene impugnata. In quel moto, il
bicipite emerse visibilissimo, rivelando il lungo esercizio del braccio e l'acquisito
vigore. Quando i due stesero le spade per prendere la misura, quella di Giannetto Rùtolo
oscillava in un pugno convulso. Dopo l'ammonimento d'uso intorno la lealtà, il barone di
Santa Margherita comandò con una voce squillante e virile: - Signori, in guardia! I due
scesero in guardia nel tempo medesimo, il Rùtolo battendo il piede, lo Sperelli
inarcandosi con leggerezza. Il Rùtolo era di statura mediocre, assai smilzo, tutto nervi,
con una faccia olivastra a cui davan fierezza le punte de' baffi rilevate e la piccola
barba acuta in sul mento, alla maniera di Carlo I ne' ritratti del Van Dyck. Lo Sperelli
era più alto, più slanciato, più composto, bellissimo nell'attitudine, fermo e
tranquillo in un equilibrio di grazia e di forza, con in tutta la persona una sprezzatura
di grande signore. L'uno guardava l'altro entro gli occhi; e ciascuno provava internamente
un indefinibile brivido alla vista dell'altrui carne nuda contro cui appuntavasi la lama
sottile. Nel silenzio, udivasi il mormorio fresco della fontana misto al fruscìo del
vento su per i rosai rampicanti ove le innumerevoli rose bianche e gialle tremolavano. - A
loro! - comandò il barone. Andrea Sperelli aspettava dal Rùtolo un attacco impetuoso; ma
colui non si mosse. Per un minuto, ambedue rimasero a studiarsi, senza avere il contatto
del ferro, quasi immobili. Lo Sperelli, chinandosi ancor più su' garretti, in guardia
bassa, si scoperse interamente, col portar la spada molto in terza; e provocò
l'avversario, con l'insolenza degli occhi e col batter del piede. Il Rùtolo venne innanzi
con una finta di botta diritta, accompagnandola con una voce, alla maniera di certi
spadaccini siciliani; e l'assalto incominciò. Lo Sperelli non isviluppava alcuna azione
decisiva, limitandosi quasi sempre alle parate, costringendo l'avversario a scoprire tutte
le intenzioni, a esaurire tutti i mezzi, a svolgere tutte le varietà del gioco. Parava
netto e veloce, senza ceder terreno, con una precision mirabile, come s'ei fosse su la
pedana, in un'academia di scherma, d'innanzi a un fioretto innocuo; mentre il Rùtolo
attaccava con ardore, accompagnando ogni botta con un grido spento, simile a quello degli
abbattitori d'alberi in esercitar l'accetta. - Alt! - comandò il Santa Margherita, a' cui
vigili occhi non isfuggiva alcun moto delle due lame. E si accostò al Rùtolo, dicendo: -
Ella è toccato, se non erro. Infatti, colui aveva una scalfittura su l'antibraccio, ma
così lieve che non ci fu nemmen bisogno del taffetà. Alenava però; e la sua estrema
pallidezza, cupa come un lividore, era un segno dell'ira contenuta. Lo Sperelli,
sorridendo, disse a basa voce al Barbarisi: - Conosco ora il mio uomo. Gli metterò un
garofano sotto la mammella destra. Sta attento al secondo assalto. Poiché, senza badarci,
egli posò a terra la punta della spada, il dottor calvo, quel della gran mandibola, venne
a lui con la spugna imbevuta d'acqua fenicata e disinfettò di nuovo la lama. - Per iddio!
- mormorò Andrea al Barbarisi. - M'ha l'aria d'un iettatore. Questa lama si rompe. Un
merlo si mise a fischiare tra gli alberi. Ne' rosai qualche rosa sfogliavasi e
disperdevasi al vento. Alcune nuvole a mezz'aria salivano incontro al sole, rade, simili a
velli di pecore; e si disfacevano in bioccoli; e a mano a mano si dileguavano. - In
guardia! Giannetto Rùtolo, conscio della sua inferiorità al paragon del nemico, risolse
di lavorar sotto misura, alla disperata, e di rompere così ogni azion seguita dell'altro.
Egli aveva da ciò la bassa statura e il corpo agile, esile, flessibile, che offriva assai
poco bersaglio ai colpi. - A loro! Andrea Sperelli sapeva già che il Rùtolo sarebbesi
avanzato in quel modo, con le solite finte. Egli stava in guardia inarcato come una
balestra pronta a scoccare, intento per scegliere il tempo. - Alt! - gridò il Santa
Margherita. Il petto del Rùtolo faceva un po' di sangue. La spada dell'avversario eragli
penetrata sotto la mammella destra, ledendo i tessuti fin quasi alla costola. I medici
accorsero. Ma il ferito disse sùbito al Casteldieri, con voce rude, in cui sentivasi un
tremito di collera: - Non è nulla. Voglio seguitare. Egli si rifiutò di rientrare nella
villa per la medicatura. Il dottor calvo, dopo aver spremuto il piccolo fòro, appena
sanguinante e dopo avergli fatta una lavanda antisettica, applicò un semplice pezzo di
drappo; e disse: - Può seguitare. Il barone, per invito del Casteldieri, senza indugio
comandò il terzo assalto. - In guardia! Andrea Sperelli s'avvide del pericolo. Di fronte
a lui il nemico, tutto raccolto su i garretti, quasi direi nascosto dietro la punta della
sua lama, appariva risoluto a un supremo sforzo. Gli occhi gli brillavano singolarmente e
la coscia sinistra, per l'eccessiva tension de' muscoli, gli tremava forte. Andrea questa
volta, contro l'impeto, si preparava a gittarsi da banda per ripetere il colpo decisivo
del Cassìbile, e il disco bianco del drappo sul petto ostile servivagli da bersaglio.
Egli ambiva rimettere ivi la stoccata ma trovar lo spazio intercostale, non la costa.
D'intorno, il silenzio pareva più profondo; tutti gli astanti avevano conscienza della
volontà micidiale che animava que' due uomini; e l'ansietà li teneva, e li stringeva il
pensiero di dover forse ricondurre a casa un morto o un morente. Il sole, velato dalle
pecorelle, spandeva una luce quasi lattea; le piante, or sì or no, stormivano; il merlo
fischiava ancóra, invisibile. - A loro! Il Rùtolo si precipitò sotto misura, con due
giri di spada e con una botta in seconda. Lo Sperelli parò e rispose, facendo un passo
indietro. Il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate velocissime, quasi tutte basse, non
accompagnandole più con i gridi. Lo Sperelli, senza sconcertarsi a quella furia, volendo
evitare un incontro, parava forte e rispondeva con tale acredine che ogni sua botta
avrebbe potuto passar fuor fuora il nemico. La coscia del Rùtolo, presso l'inguine,
sanguinava. - Alt! - tuonò il Santa Margherita quando se n'accorse. Ma in quell'attimo
appunto lo Sperelli, facendo una parata di quarta bassa e non trovando il ferro
avversario, ricevé in pieno torace un colpo; e cadde tramortito su le braccia del
Barbarisi. - Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità,
con lesione superficiale del polmone - annuziò nella stanza, quand'ebbe osservato, il
chirurgo taurino.
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