ROCCAPASSA
Amatrice e le sue frazioni, sono poste al centro di una verde conca, posta al confine tra Lazio e Abruzzo. Il suo territorio si articola in un altopiano centrale, tra i 900 e i 1000 metri, ospitante il lago Scandarello e circondato da rilievi che sul lato orientale superano i 2400 metri, in corrispondenza della dorsale principale dei Monti della Laga. Oltre al delizioso Lago, nelle conche e sui pendii trovano sede numerosi centri abitati facilmente raggiungibili attraverso le comode strade che, hanno nella Via Salaria la loro spina dorsale.
Roccapassa è immersa nel parco Parco nazionale dei monti della Laga e del Gran Sasso. A
nord-est scorre il Rio Scandarello che alimenta il Lago omonimo.
La zona è ricca dacqua: nella valle sgorgano numerose sorgenti e scorrono numerosi
torrenti, quali il Mozzano, il Mondragone, il Rio Piano, uno dei quali, verosimilmente il
Fosso Selva delle Conche è ritenuto la vera sorgente del fiume Aterno che passa
all'Aquila, poi, nei pressi di Popoli, preso il nome di Pescara sfocia nellAdriatico
appunto presso quel capoluogo il Tronto. Sempre vicino ad Aringo, il Tronto, che sul
versante opposto, volge verso Amatrice e poi passato Ascoli Piceno, sfocia sempre
nellAdriatico, nei pressi di S. Benedetto del Tronto.
In questo tratto dello spartiacque tirreno-adriatico - che sulla Salaria è segnato dal passo di Torrita (1017 metri) -
l'Appennino si apre in un vasto altopiano di 900-1000 metri di quota, a cavallo appunto dei bacini del Velino e del Tronto e compreso tra le catene dei Sibillini
a settentrione e dei Reatini col Terminillo a sud. Lo scenario è magnifico ed è tanto più imprevedibile per chi venendo da Rieti ha attraversato,
dopo Posta, la boscosa e spopolata Valle della Meta. La vista spazia sulle belle montagne dalle cime arrotondate e sui piccoli nuclei abitati che punteggiano i clivi e le valli.
A destra si staglia imponente il massiccio dei Monti della Laga la cui cima più alta, il Monte Gorzano, rappresenta con i suoi 2458 metri la maggiore elevazione del Lazio.
Ma la peculiarità più interessante di questa catena sta nella sua «diversità» rispetto alla maggior parte dei gruppi montuosi dell'Appennino centrale.
Mentre questi infatti sono prevalentemente calcarei, i Monti della Laga sono costituiti da arenane e marne.
Di qui la particolare morfologia dei lineamenti addolciti, la ricchezza delle acque, la varietà del manto vegetale (querce, faggi, abeti, castagni) che fino al 1800 doveva essere ancora splendido e di cui restano lembi consistenti soprattutto sul versante abruzzese e sulle pendici interne. Non a caso questo gruppo montuoso è stato riconosciuto Parco Nazionale ed è indicato dalle guide come meta ideale per turisti ed escursionisti. Se verso Est e Nord-Est la Laga delimita ad emiciclo la bella Conca di Amatrice, altri gruppi meno elevati ma non per questo meno interessanti movimentano l'altopiano ad occidente. Sono individuabili, in successione da Nord a Sud, il Monte Utero (1807 metri) che scende in ripidi valloni verso Accumoli, il Monte Pozzoni (1904 metri) che domina Cittareale e le sorgenti del Velino, ed infine il Monte Boragine (1829 metri) che chiude la Valle Falacrina.
La natura arenacea dei terreni permette lo sviluppo rigoglioso di specie
silicicole. In gruppi sporadici sono presenti i pioppi, maggiociondoli, aceri,
tassi e frassini. Alle quote più elevate, oltre al pino nero riunito in
formazione di origine artificiale, è presente il faggio governato a ceduo. Oltre
le faggete iniziano le formazioni erbacee punteggiate dalle fioriture delle
sassifraghe, viole, genziane e orchidee. Il cerro (Quercus cerris) è poi particolarmente
esteso fino a oltre 1.000 metri per poi essere sostituito dai faggi. Ben presenti e
particolarmente visibili per contrasto di colore durante il periodo invernale, sono le
estese pinete di Pino Nero frutto dell'aiuto dell'uomo alla natura. Le faggete
si spingono fino ai 1.800 metri di altezza cedendo poi alle praterie molto
estese e appariscenti che rivestono le zone cacuminali. Su questi pascoli ricchi
di specie erbacee è ospitata ancora un’attività pastorale che costituisce talora
l’unica attività antropica a quelle altezze.
La vegetazione è verde per la maggior parte
dell'anno e dai circa 850 metri s.l.m, in su, presenta numerosi boschi di castagno.
La presenza del castagno (Castanea sativa) nel territorio del Parco risale a circa cinquemila anni fa, come documentato dai pollini rinvenuti nell’antica torbiera di Campotosto.
Questa specie è stata diffusa dall’uomo in maniera sistematica nel periodo romano e in quello medievale: i castagneti furono impiantati su terreni acidi, nella fascia altitudinale compresa tra 700 e 1100 metri, a discapito della primitiva copertura forestale, quasi sempre costituita da cerrete.
Per motivi legati alla natura dei suoli, i boschi di castagno si localizzano essenzialmente sui Monti della Laga, in particolare nei territori di Arqua
ta del Tronto, Acquasanta Terme e Valle Castellana, ove tuttora si registra una notevole produzione di castagne.
Nel corso dei secoli sono state selezionate anche diverse varietà locali, come il “marrone della Laga”, la “nzita” e il “pallante”, sicuramente le più diffuse.
I castagneti, per secoli, hanno rappresentato la risorsa principale per molte comunità della Laga.
I frutti costituivano la base dell’alimentazione: venivano raccolti e conservati per l’inverno dentro i ricci in buche scavate nel terreno, oppure essiccati su appositi graticci di canne appesi ai soffitti delle abitazioni.
Ogni famiglia possedeva la “pila”, un caratteristico mortaio ricavato da un grosso masso dove le castagne secche venivano pestate per essere sbucciate e ridotte in farina.
Anche il legno di questa specie, non a torto definita “l’albero del pane”, era tenuto in grande considerazione dalle popolazioni locali, sia per realizzare le travi degli edifici che i caratteristici balconi lignei, oppure per la paleria da utilizzare in agricoltura; infatti, l’alto contenuto in tannino del legno di castagno ne fa uno dei più resistenti ai parassiti e al tempo.
Sui Monti della Laga si possono ancora ammirare castagneti da frutto secolari, caratterizzati dalla presenza di alberi vetusti, contorti e cariati, spesso dalle dimensioni colossali, come il “Castagno di Morrice”, un vero e proprio gigante con i suoi quattordici metri di circonferenza del tronco.
Si tratta di boschi molto belli e suggestivi, resi misteriosi dalla presenza de “lu mazzemarelle”, il dispettoso e leggendario folletto dei boschi, e popolati da diverse specie di animali, tra cui alcuni uccelli legati alla foresta matura come la balia dal collare, il pigliamosche (Muscicapa striata) o la rarissima colombella (Columba oenas).
Purtroppo i castagneti, negli ultimi decenni, sono stati attaccati da parassiti particolarmente virulenti tra cui due funghi che producono “il mal dell’inchiostro” e il “cancro corticale”.
Sembra, però, che la fase più grave di queste patologie vegetali sia stata superata, mentre è subentrato un nuovo pericolo per queste formazioni forestali impiantate dall’uomo: quello dell’abbandono.
Infatti, a seguito dei rapidi cambiamenti avvenuti nell’economia, molti castagneti da frutto sono stati abbandonati e non più soggetti alle necessarie cure colturali.
L’Ente Parco, attraverso alcuni interventi mirati e finalizzati al recupero diretto dei castagneti e alla promozione delle varietà locali di castagne e dei prodotti di trasformazione, sta tentando di recuperare questo notevole patrimonio naturalistico e culturale della montagna.
lu mazzemarèlle simboleggia la vita, l'azione, la vittoria sulla morte ingiusta. Il ritorno misterioso tra i viventi è la riaffermazione di un diritto negato, l'equilibrio ristabilito nella vicenda esistenziale: è un atto di giustizia. Il bambino morto senza battesimo ritorna a vivere, ma trasformato in "mazzemarèlle", un essere quasi imprendibile con forme non ben definite. I suoi poteri sono vanificati, se perde il cappuccio che gli ricopre il capo. Conosce i luoghi dove sono nascosti i tesori, agisce nelle ore notturne in modo imprevedibile, è ilare e dispettoso. La sua presenza è causa di incubo, di fastidio, di paure per i viventi. E questi, per una strana legge del contrappasso non possono essere felici sulla terra: devono pagare il loro tributo di dolore alla dolorosa esistenza del folletto.
Nella Villa di Roccapassa (proprio prima di entrare in paese dalla Picente) è presente una fonte di acqua idrosolforosa saturata di iodio e di ferro, sgorganti da intricati meandri naturali riconducibile a quelle più note
della Valle del Velino e del comprensorio di Acquasanta (Ascoli Pieno). Già Gli antichi romani utilizzavano l’acqua solfurea delle terme che sgorgava dalle pendici di Monte Cotischio (attuale Monte Giano).
Il Rio Scandarello
(lungo circa 17 Km.), che scorre vicino il vecchio mulino di Roccapassa, nasce
dal Colle Paro (m 1127) col nome di Fosse delle Cese, poi Fosso di Basciano, a
quota 1.105 (coordinate 33TUH561 130 I.G.M. tavoletta 1:25.000) è sbarrato a 868 metri in località La Conca e
forma il lago di Scandarello lungo 3500 m, largo 700. E' un affluente di sinistra del fiume
Tronto al Ponte Scandarello ed è in parte costeggiato dalla strada Configno-Aringo.
Il lago di Scandarello è un bacino idroelettrico realizzato negli anni Trenta.
La diga è percorribile a piedi. Il lago di Scandarello è il terzo lago
artificiale del Reatino. Lo si trova a valle della via Salaria presso Amatrice,
all'estremo nord della Provincia di Rieti.
Queste sono le misure del lago:
Perimetro max: 10 Km circa. Profondità max: 41 metri circa. Altitudine: 872 s.l.m.
Capacità max: Mc 12 milioni circa. Laltezza della diga sulle fondazioni è nel
punto massimo di 55,5 metri, il coronamento 200 metri.
Il lago è popolato da: Carpe, tinche, coregoni, persici, lucci e arborelle ed è
circondato da: roverelle, cerri, ontani e salici. Il fondo geologico è costituito
da rocce arenarie. Come arrivare al lago:
Costa ovest: dalla Salaria prendere il bivio per Amatrice, dopo circa 500 metri voltare a
desta per l'abitato di La Conca, sulla riva del lago. Costa est: uscire da Amatrice sulla
strada che conduce a Montereale. Dopo circa 4 Km si prende, sulla destra, la strada che
porta a Colli, oppure dopo circa 6 Km quella che conduce a San Benedetto; da entrambi i
paesi il lago è raggiungibile con circa 20 minuti di cammino.
Oltre alla frazione di Roccapassa e la sua Chiesa, facilmente
raggiungibili a piedi: carrarecce, piste forestali, mulattiere e sentieri forma un
reticolo fitto utilizzabile per escursioni e trekking.
Parco Nazionale dei Monti della Laga
Istituito nel 1991 (Legge n. 394/91), ha una superficie di Ha 206925.
Il parco è stato istituito per la conservazione di specie animali e vegetali, di
associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni
paleontologiche, di comunità biologiche, di biotipi, di valori scenici e panoramici, di
processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici e di equilibri ecologici.
Il vastissimo parco occupa terreni appartenenti in varia misura alle Regioni Lazio, Marche
ed Abruzzo.
In tutta l'area, mancandovi od essendovi presenti in minima misura tutte le cosiddette
opere di valorizzazione ambientale ovvero di selvaggio sfruttamento turistico, l'ambiente
è rimasto nella sua quasi totalità ben conservato. Vi sono zone che non vedono la
presenza umana da tempo immemorabile, cosa che ha permesso lo svilupparsi di una
rigogliosa vegetazione e la vita di una fauna di primario valore.
La zona compresa nel Reatino, nei dintorni di Roccapassa, è aspra e
prevalentemente montuosa tra cui spicca il Gorzano (m. 2458), costituita essenzialmente da rocce arenarie ascrivibili al Pliocene.
Le arenarie sono costituite da minuscoli granelli di sabbia depositati e
cementati attraverso il tempo. Tali rocce di origine sedimentaria si presentano
in strati di spessore variabile, anche di diversi metri. La parte Reatina e Teramana del parco è
particolarmente ricca di acque che formano numerose cascate.
Numerosi i bacini lacustri. Tra quelli artificiali, risalenti agli anni 30 citeremo il
bacino dello Scandarello (Prov. Di Rieti) e il vastissimo lago di Campotosto situato a
quota 1313 mt. Frequenti e di altissimo valore naturalistico-ambientale sono alcuni
laghetti naturali come il lago Secco (quota 1548) e il lago della Selva (quota 1496)
situati nel versante reatino del Pizzo di Sevo.
La Flora è costituita da piccoli campi e agli ampi pascoli si alternano vastissime aree
boscate in preponderanza costituite da cerro.
Gli ambienti poco frequentati dall'uomo hanno permesso la conservazione e la vita di una
fauna ancora oggi particolarmente ricca. Non è raro l'avvistamento del lupo, solitario
predatore di queste montagne. Ma sono frequenti altri predatori quali volpi, fame,
donnole, martore, puzzole.
Particolarmente numerosi sono i cinghiali, le lepri e i tassi. Nei torrenti dalle acque
limpide è stata segnalata anche la lontra. La fauna arboricola comprende ghiri,
scoiattoli, moscardini e arvicole. Varia è la presenza di rapaci. Fra quelli notturni si
segnala il gufo, l'allocco, il barbagianni, la civetta. Fra i diurni l'astore e la poiana,
anche l'aquila è stata più volte avvistata. Fra gli altri uccelli si ricorda la
coturnice, il cuculo, il picchio.
Fra gli ofidi particolarmente importante è la vipera dell'Orsini, la meno pericolosa per
l'uomo. E' un rettile di lunghezza compresa fra i 40 e i 50 cm. la cui diffusione è
limitata a poche zone dell'Italia centrale.
Gli itinerari turistici sono previsti prendendo come punto di riferimento la via Salaria.
Ci sono, tuttavia, altre possibilità di accesso che offrono percorsi di grande interesse naturalistico.
Strumenti essenziali sono:
la Carta turistica della Provincia di Rieti;
la Carta del Parco Nazionale del Gran Sasso Monti della Laga (reperibile presso l'Ente Parco, via Roio 10-12, 67100 L'Aquila, tel. 0862/701903), oppure quella realizzata dal CAI (presso le edicole)
; le piante dei singoli centri.
Importanti riferimenti sono le Pro-loco, ma spesso, per le visite alle chiese e ai santuari, è necessario rivolgersi ai Parroci, ai Comuni e alle associazioni ambientaliste.
Ecco alcuni indirizzi utili:
Azienda di Promozione turistica della Provincia di Rieti, via Cinzia 87, 02100 Rieti; tel. 0746/201146; Ufficio informazioni, tel. 0746/203220; Pro-loco di Amatrice, Corso Umberto 1, 98; tel. 0746/826344; Comune di Amatrice, Corso Umberto I; tel. 0746/826392; Comune di Accumoli, tel. 0746/80932; Comune di Cittareale, tel. 0746/94032; Pro-loco di Cittareale,
piazza S. Maria; Comune di Borbona, tel. 0746/940037.
Roccapassa - villa dell'Amatrice - inquadramento storico
Posta a ridosso della via Salaria e in una zona ricca dacqua, Roccapassa era senzaltro un punto di frequente transito. (da qui il probabile nome di Rocca “Passa” nel senso di limite di confine, anche se qualcuno lo fa derivare da “Pazza”, da un vicino manicomio, come riportato da “Il registro delle chiese della Diocesi di Rieti del 1398 nelle "Memorie" del vescovo Saverio Marini, 1779-1813” – Hospitale San Claudii de Roccha Dodi Pazzi o Pazi, dove afferma ”era verso la Villa di Roccapassa ma non vi resta memoria alcuna”. E' attestata come "Dassa" (per Passa) nel Catalogus Baronum (redatto verso la metà del XII secolo e successivamente aggiornato) durante il periodo Normanno.
Nella chiesa è presente, seppur non in buonissime condizioni, il quadro della “Presentazione di Maria al Tempio”, da cui il nome della chiesa. É una composizione orizzontale, manierista, del sottobosco dell’arte del Seicento, o del primo Settecento, attualmente bisognoso di ripulitura e restauro. Da una prima superficiale analisi lo si potrebbe attribuirebbe alla scuola di Pietro Novelli detto il Monrealese, molto attivo nella zona in quel periodo o Giovan Battista Crespi detto il Cerano o anche alla bottega o ai seguaci di Giulio Cesare Bedeschini (Piacenza 1582? - L’Aquila intorno al 1640), capostipite di una famiglia di artisti che operò per tutto il Seicento soprattutto all’Aquila e nel suo territorio. Un’altra ipotesi di attribuzione, se spostiamo la datazione del dipinto verso la seconda metà del XVII secolo, potrebbe essere quella di Cesare Fantitto, che stando alle fonti sarebbe stato collaboratore e amico di Francesco Bedeschini,
incisore che a partire dagli anni Ottanta del Seicento, che tradusse in stampa
molte delle invenzioni del maestro aquilano e fu impiegato in qualità di pittore
nella commissione dei ritratti degli Uomini Illustri del 1688.
Al centro dell'Altare un bel Cristo ligneo processionale e un reliquario di pregevole fattura. Nella chiesa anche lo stendardo processionale (con la scritta: MATER PACIS ORA PRO NOBIS/ ROCCAPASSA 1919) dedicato alla
Madonna della Pace, con la Madonna anche il Bambino Gesù e due putti
(numero catalogo generale dei beni culturali 00173908). Lo stendardo fu offerto alla chiesa alla fine del primo conflitto
mondiale.
La Chiesa di Roccapassa è tra gli edifici di culto che fornisce una specie di filo conduttore a chi voglia conoscere la Conca amatriciana e i suoi abitanti. Paradossalmente, le stesse difficoltà che si incontrano per visitare questi edifici possono far scoprire che intorno ad essi esiste, da parte della gente del luogo, una attenzione sempre più consapevole, informata e intraprendente. Per esempio, cercare le opere di Dionisio Cappelli, comprese quelle a lui solo attribuite, può essere una chiave per inoltrarsi in una realtà molto ricca e ricostruire un'epoca attraverso le manifestazioni artistiche.
In effetti, nel periodo che va dall'ultimo decennio del '400 al primo '500 vengono realizzate in Amatrice e nel suo distretto opere pittoriche su cui si è appuntata l'attenzione dei critici. Si tratta di pitture murali e di tele che testimoniano un'epoca di fervore religioso ma anche di benessere economico, visto che privati e ordini religiosi potevano permettersi di attribuire committenze ad artisti sia locali che provenienti da regioni vicine. Talvolta in chiese settecentesche troviamo dipinti del '400 e del '500, perché gli edifici sono stati sottoposti più volte ad interventi di ristrutturazione e di restauro. In alcuni casi, il piacere della scoperta è attenuato dalle notizie di furti, anche recenti, di spostamenti arbitrari di opere, e dal dubbio che alcune iniziative sia pure lodevoli possano pregiudicare futuri recuperi e restauri secondo un corretto criterio di conservazione.
Anche un Papa è passato per Roccapassa ....
Un episodio alquanto "strano" accadde il 18 aprile 1988, la salma del Santo
Celestino V fu trafugata dalla Basilica di Collemaggio, all'Aquila, e poi ritrovata due
giorni dopo,in un loculo del cimitero di Rocca Passa, balzando alla cronaca su tutti i
quotidiani nazionali.
La vicenda si intreccia sulla rivalutazione storica di Celestino V, sia per il mistero che
circonda il suo paese d'origine (Isernia?) sia per un misterioso episodio che è stato
rivelato alla stampa da Padre Quirino Salomone.
Il fatto risale al 1988 quando a L’Aquila fu trafugato il corpo di Papa Celestino V, quello della Perdonanza e del “gran rifiuto” descritto da Dante Alighieri nella Divina Commedia. La notizia finì sui notiziari di tutto il mondo. La città rimase con il fiato sospeso per quattro, lunghi giorni. Chi cercava le spoglie all'Aquila, chi le cercava lontano dalla città.
Furono trovate il 21 aprile dell’88 dalla polizia all' interno di una cassa di legno-compensato in un loculo del cimitero di Rocca Passa, una frazione di Amatrice, quindi a una sessantina di chilometri dall' Aquila
Come ci erano arrivate? Chi ha indirizzato gli inquirenti fino là?
I resti del santo erano stati trovati in perfetta conservazione, coperti con i paramenti bianchi dei Papi. A una prima ricognizione effettuata dal vicario generale dell' Aquila, monsignor Giuseppe Molinari, le ossa e il volto, modellato con cera sul cranio di san Pietro Celestino (a somiglianza però del cardinale Confalonieri, che volle il mausoleo nella basilica dell' Aquila), non avevano subìto danni. All' interno della cassa c' era anzi della naftalina, proprio per meglio conservare le spoglie. E’ rimasta sempre una divergenza tra la storia ufficiale, raccontata dalla polizia alla stampa, e alcune obiezioni alle quali nessuno ha saputo né voluto rispondere. Di sicuro i ‘rapitori’ avevano avuto il tempo di compiere più di un sopralluogo nella basilica. Le misure della cassa di compensato, forse costruita da un artigiano della zona, erano precise al millimetro rispetto alla salma del santo. In quelle ore di ‘rapimento’ spiegava il questore avevano ricevuto telefonate anonime, mitomani che si spacciavano per appartenenti alle Brigate rosse, alla ' ndrangheta, alla mafia, chiedendo fortissimi riscatti.
Invece secondo la versione passata alla storia, pedinati e seguiti i colpevoli fino a Rocca Passa, le spoglie erano state ritrovate ma i responsabili erano sfuggiti alla cattura, come spiegò ai cronisti il questore dell’epoca. Ma già secondo i resoconti giornalistici del tempo la versione ufficiale non convinceva: possibile, in effetti, che gli scooter potessero sfuggire a un inseguimento delle “pantere” della Volante?
Ecco il diffondersi della tesi complottista, di un “patto” con uno dei ladri, in nome dell’interesse superiore del ritrovamento della reliquia, in cambio della sua impunità. Una tesi che mai nessuno ha voluto confermare.
Possiamo aggiungere al mistero che potrebbe essere non causale il ritrovamento a Roccapassa dove era presente il convento di S.Paolo dei clareni e Pietro da Morrone (Celestino V) aveva avuto sicuri contatti con Angelo Clareno.
Dopo il ritrovamento della salma fu eseguita una TAC sotto l'autorizzazione di Città del
Vaticano, e il portavoce della Santa Sede non lo aveva mai reso pubblico. La Tac eseguita
sul cranio del Santo, rivela un foro perfettamente circolare provocato quasi sicuramente
da un chiodo conficcato in testa da misteriosi sicari. Tutto ciò accaduto mentre
l'Eremita da Morrone si trovava al Castello di Fumone, lì rinchiuso da Bonifacio VIII.
Il punto di vista della Chiesa, fanno trapelare alla Congregazione per le Casue dei santi
in Vaticano, è che ciò non fa cambiare assolutamente nulla: Celestino V fu canonizzato
il 5 maggio 1313, quindi da ben 685 anni è venerato per la sua santità in tutta la
Chiesa.
Gli atti ufficiali dell'epoca però registrano che il 19 maggio 1926, fu trovato morto nel
Castello di Fumone, deceduto per cause naturali, ma della notizia del foro nel cranio, che
quindi tanto originale non è, se ne parla già dal '500, come riporta anche l'Abate
Giuseppe Celidonio nel suo volume dal titolo "San Pietro del Morrone - Celestino
V" ristampato nel 1954.
La maschera
d'argento di Celestino V (di Camillo Berardi 18 settembre 2022)
Le spoglie di Celestino V sono custodite nella Basilica di Collemaggio a
L'Aquila. In seguito alla ristrutturazione
della Basilica, a causa del terremoto del 2009, è stata fatta anche la ricognizione dell’urna contenente i resti del
Papa e
sostituita la maschera di cera in argento ormai deteriorata,
che lo raffigurava con le sembianze del Cardinale Carlo Confalonieri. La nuova
maschera di Celestino V è opera dell’autorevole scultore Maestro Marino Di Prospero di Tornimparte (AQ).
Ecco come il M° Marino Di Prospero ha descritto il suo lavoro:
“Ho già realizzato in passato maschere funerarie per altri beati (il Beato Giaccardo, e il Beato Alberione): in questi casi il lavoro è stato più facile perché si trattava di corpi mummificati, e relativamente recenti, agevolato comunque dall’ausilio delle immagini fotografiche dei volti. Nel caso di Celestino V, in primo luogo, ho avuto il compito non facile di rimuovere la maschera di cera con le sembianze del cardinale Confalonieri, che si era saldata perfettamente al cranio, constatando anche che mancava la mandibola. Con l’aiuto del medico legale G. Sacchetti abbiamo ricostruito ed integrato il cranio con il modello di una mandibola perfettamente compatibile, al fine di avere un teschio completo per realizzare un calco in gesso. Su questo calco ho individuato i primi riferimenti obbligati come le orbite oculari e l’attacco delle orecchie, del naso e della bocca. Successivamente con la tecnica degli spessori, delle fasce muscolari e dei tessuti molli ho tracciato la base di riferimento. Parallelamente, un laboratorio specializzato nella ricostruzione virtuale con il laser scanner, ha ricostruito un’anatomia del volto e questa ricostruzione è stata solo un supporto marginale al mio lavoro, in quanto, anche usando metodologie simili, abbiamo avuto esiti formali profondamente diversi. Il risultato dell’operazione con il laser scanner del laboratorio, è stato quello di un volto di un giovane cinquantenne. Il mio compito in sostanza non è stato solo quello della modellazione materiale da una ricostruzione virtuale fredda e priva di espressività, ma soprattutto quello della modellazione di un vecchio novantenne, santo, con il volto sereno e rilassato di un morto, che al contempo suscitasse emozione, compito meno scientifico e più artistico”.
Oggi, grazie al pregevole lavoro dello scultore, le spoglie di Celestino V mostrano dignitosamente i tratti originali del vero volto di uno dei Santi più importanti dell’Abruzzo e il Molise, il cui mito ha attraversato i secoli sino ai giorni nostri e continuerà ad affascinare studiosi, credenti e non, in ambito nazionale e internazionale.
La maschera di Celestino V
- Libro gioco di Alberto Orsini e Angelo De Nicola
Celestino V è anche il protagonista di un “librogame” investigativo, un romanzo interattivo dalla trama che cambia a seconda delle scelte del lettore, con possibili diversi finali, per vivere una misteriosa avventura ambientata nei giorni della visita del Papa alla Perdonanza Celestiniana dell’Aquila, l’annuale giubileo Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità Unesco dal 2019.
La lapide commemorativa posta sul cimitero di Roccapassa (sulla Via Picena direzione Montereale) del passaggio di Celestino V.
A destra il pontefice ritratto da Giulio Cesere Bedeschini e conservato nel
Museo nazionale di Abruzzo all'Aquila
ALTRE CURIOSITA' ....
Quante leggende sono fiorite intorno ai piccoli brandelli di notizie storiche verificabili e documentate! È il caso, ad esempio, del ritrovamento all'inizio del 1800, di alcuni grandi denti all'interno di una gola del Pizzo di Sevo, subito attribuiti agli elefanti di Annibale, morti nel corso della mitica traversata della Penisola. Risulta difficile pensare a motivi plausibili per la scelta di un itinerario, da parte di Annibale, ad oltre duemila metri di quota, rispetto a percorsi molto più comodi, quali la via Salaria ed il corso stesso del fiume Tronto. È certo, tuttavia, che in Campo Carano, presso Cornillo Nuovo o S. Lorenzo a Flaviano e un po' dappertutto nel comune di Amatrice, sono stati trovati segni della presenza dell'uomo preistorico, risalenti anche ai primi tempi dell'età della pietra. Un'altra leggenda, questa volta fiorita in una delle «ville», riguarda il passaggio nella zona degli apostoli Pietro e Paolo, impegnati nell'opera di propagazione della fede. Essi, giunti a Voceto, furono ospitati dalla famiglia Casareale, una delle poche rimaste nel villaggio quasi spopolato a causa di una invasione di vipere. I due santi, dopo aver operato il miracolo di allontanare le vipere, quale ricompensa per la loro ospitalità diedero ai membri della famiglia Casareale il potere, tramandato poi di padre in figlio, di immunizzare dal veleno quei paesani che, senza consultare prima un medico, si fossero rivolti a loro. Né i transiti illustri finiscono qui. Si racconta che nel 1300 abbia sostato in Amatrice Dante Alighieri, diretto a Roma per l'Anno Santo. Il Sommo Poeta, le cui terzine avevano ormai oltrepassato i confini della Toscana, trovò nella cittadina degna ospitalità, avendo modo tra l'altro di conoscere i bucatini all'amatriciana nella versione più autentica e gustosa. Pare che Dante ne rimase entusiasta e si impegnò a propagandare la ricetta tra 43i suoi conoscenti. Alla storia, che ci presenta quanto meno una immagine inconsueta del Poeta, qualcuno ha dato anche un seguito: avendo il Poeta mantenuto la promessa, gli Amatriciani vollero premiarlo assegnandogli un posto tra i personaggi affrescati nell'«Albero di Jesse» che possiamo ammirare nella Chiesa di S. Francesco. Viene naturale, a proposito di questo aneddoto, ricordare che la poesia, in queste contrade, è stata da sempre una compagna per i pastori i quali, non solo conoscevano a memoria la «Divina Commedia» ed altri poemi celebri, ma hanno elaborato essi stessi, nel tempo, uno straordinario talento di creare versi. In versi famiglie e gruppi sociali tramandavano le loro storie e celebravano i momenti significativi della vita; in versi si svolgeva il «canto a braccio» che vede ancora oggi, nelle feste popolari, impegnati degli autentici virtuosi dell'improvvisazione.
NEI DINTORNI DI ROCCAPASSA SULLE TRACCE DI VESPASIANO
In età romana il territorio conosciuto come Sabina, del quale l'Alto Reatino è il cuore, era compreso, come dice Livio, tra il Lazio, il Piceno e l'Umbria, e limitato su due lati dall'Appennino. Queste terre in prevalenza montuose e collinari ospitavano popolazioni autonomamente strutturate e consapevoli della propria identità già prima che Roma cominciasse la sua ascesa. I Sabini infatti appartenevano a quelle genti italiche che, emerse dall'unità culturale che aveva caratterizzato l'Italia peninsulare dal 1550 al 900 a.C. circa (media età del Bronzo-Bronzo finale), formarono nella prima età del Ferro uno straordinario mosaico di popoli e di culture. Roma tra l' VIII e il I secolo a.C. unificò queste genti senza, per fortuna, cancellarne le specificità, tanto vero che dopo la caduta dell'Impero ripresero forza e oggi possiamo riconoscerle nelle varietà regionali del nostro Paese. Pare ormai certo che dalla loro sede originaria individuata in Testruna presso Amiternum (in provincia de L'Aquila), i Sabini avevano intrapreso in più direzioni una lenta e sistematica espansione e attraverso le tipiche migrazioni che prendono il nome di ver sacrum avevano occupato un territorio molto più esteso di quello testimoniato in età romana. Infatti tra la fine del VII e la prima metà del V secolo a.C. nelle Marche, in Abruzzo e nella Sabina è archeo-logicamente documentata una cultura unitaria espressa da genti che parlavano la stessa lingua e si chiamavano Sabini. Una conferma, insomma, di quanto sostengono le fonti letterarie antiche. Nelle aree appenniniche il popolamento era articolato per ambiti territoriali (pagi) in cui i piccoli agglomerati e le case sparse trovavano un luogo di aggregazione nei santuari minori collocati presso le acque sorgenti e lungo i percorsi naturali. I pagi, poi, facevano capo a gruppi tribali che avevano un punto di incontro religioso e politico nei santuari maggiori; questi, isolati nella campagna, costituivano anche il sito ideale per le fiere e i mercati. La pasto-rizia transumante era la principale risorsa economica di queste popolazioni, al cui interno grazie alla ricchezza rappresentata dalla quantità di bestiame posseduto emergevano gruppi aristocratici.
Mentre le genti dell'entroterra appenninico (benché il loro isolamento fosse relativo in quanto erano toccate dalle correnti di traffico che l'attraversavano in lungo e in largo) conservarono a lungo questa struttura socio-economica legata
alle condizioni ambientali, quelle che si stanziarono in terre confinanti con aree culturali evolute subirono una lenta ma sostanziale trasformazione. È il caso di quei Sabini che nella loro espansione verso Ovest colonizzarono prima la Conca reatina, da dove secondo alcune fonti avrebbero scacciato i precedenti abitanti (gli Aborigeni); e in seguito, oltrepassati i Monti Sabini, giunsero al Tevere stabilendosi in quella che viene definita la Sabina Tiberina. Qui vennero a contatto con gli Etruschi e i Falisci-Capenati, e tramite le valli dei fiumi Nera, Velino e Tronto si aprirono ai traffici e agli scambi culturali con gli Umbri e le popolazione medio-adriatiche. Essi tra l' VIII e il VII secolo raggiunsero, come testimoniano gli scavi più recenti, un livello complesso di organizzazione socio-economica del territorio.
È con questi Sabini che fin dall'età regia Roma dovette fare i conti. I rapporti con la Sabina interna, invece, cominciarono solo nel III secolo a.C. allorché la Repubblica romana intraprese l'occupazione dei punti chiave della catena appenninica per impedire il coalizzarsi ai suoi danni delle genti italiche, come era già accaduto nello scontro con i Sanniti. L'essere entrati nell'orbita romana in età arcaica, quando cioè la diffusione della scrittura era ancora scarsa, ha reso e rende molto difficile la definizione di un profilo storico culturale complessivo della civiltà dei Sabini da parte degli studiosi moderni. Essi devono orientarsi tra una messe copiosa di notizie ricavate dalle fonti letterarie classiche, interessate allo studio dei Sabini soprattutto in funzione di una ricostruzione e glorificazione della storia di Roma, e la modesta quantità dei dati materiali raccolti finora. Tale discorso poi vale in modo particolare per la Sabina interna.
Al di là, comunque, dell'attendibilità delle fonti antiche, alcune delle quali identificano come sabini ben tre re (Tito Tazio, Numa Pompilio, Anco Marcio), e attribuiscono una origine sabina ad importanti famiglie (la Claudia, la Valeria, la Cornelia e la Flavia), pare probabile che gruppi sabini immigrati in città nel corso dell'VIII secolo a.C. si siano inseriti nella vita economica, politica e religiosa di Roma raggiungendo posizioni di prestigio. In ogni caso, nella prima fase della sua espansione Roma si scontrò più volte con i Sabini del Tevere, finché nel 449 a.C. dopo un conflitto decisivo li sottomise e assimilò definitivamente. Ma, come si è detto, solo un secolo e mezzo dopo, nel 290 a.C., Manlio Curio Dentato portò a compimento la conquista della regione con l'invasione e la devastazione della Sabina interna. Una parte delle terre confiscate ai vecchi proprietari fu assegnato in lotti di sette iugeri ai cittadini romani; gli abitanti ottennero in un primo tempo la cittadinanza senza diritto di voto e nel 241 a.C. quella integrale.
Per un migliore sfruttamento del territorio furono intraprese bonifiche, costruite strade e creati alcuni centri urbani sia pure di dimensioni modeste; ma fu soprattutto a partire dal II secolo a.C. che si affermarono le villae rusticae, fattorie che disseminate nella regione specializzarono la loro
produzione finalizzandola alle esigenze di consumo delle città e di Roma in particolare. La mancanza di resti monumentali di rilievo (terme, anfiteatri, templi) ci conferma che furono le ville e non i centri urbani la presenza più significativa e incisiva nella Sabina, e in quella interna in particolare. Accanto alle ville, e soprattutto lungo la Salaria, sono stati ritrovati avanzi di numerosi monumenti sepolcrali (tombe grandiose, mausolei ecc.) che testimoniano la ricchezza dei proprietari. Questa posizione subalterna si perpetuò in età imperiale, né l'aver dato i natali a celebri scrittori come l'erudito Varrone, proprietario di una tenuta nel Reatino, o agli imperatori Vespasiano e Tito originari della valle Falacrina cambiò il destino di questa regione che nel III secolo, con la diffusione del grande latifondo improduttivo e la conseguente scomparsa di gran parte della fattorie, visse una grave e generale crisi. Per quanto riguarda i secoli successivi è una vera impresa districarsi tra gli eventi riguardanti la storia della Sabina in genere e dell'Alto Reatino in particolare per farne un chiaro ed esauriente quadro complessivo. Si può tentare qui di delineare una breve sintesi degli avvenimenti significativi e richiamare l'attenzione su alcuni problemi di fondo, soprattutto in funzione di una migliore comprensione della storia locale cui necessariamente si farà cenno a proposito dei singoli centri e relativi comprensori. Ad esempio, si può dire sin d'ora che, oltre alla posizione geografica, la vicinanza a Roma e il forte spirito di autonomia delle genti sabine hanno, nel bene e nel male, giocato un ruolo determinante nelle scelte, nelle attività, negli atteggiamenti delle popolazioni.
La perdita quasi generale di fonti relative ai secoli IV e V non impedisce di ricavare notizie sulle distruzioni e sulle violenze causate nella regione dai Goti e contemporaneamente sulla precoce penetrazione del Cristianesimo, testimoniata da sepolture, cimiteri, culti di martiri, a cui seguì alla fine del V secolo una vera e propria organizzazione ecclesiastica fondata sui Vescovadi. Questi, insieme ai monasteri, costituirono un riferimento importante per le popolazioni locali nel momento in cui la struttura amministrativa imperiale di Roma si disfaceva e nuove genti si insediavano nella Penisola.
Al
passo di Torrita, nel punto più alto della Salaria (1.010 mt .l.m), che
costituisce lo spartiacque fra la valle del Tronto sul versante adriatico e
quella del Velino sul versante tirrenico, durante delle campagne di scavo curate dalla Soprintendenza Archeologica del Lazio iniziate già dagli anni
cinquanta, a seguito di alcuni
ritrovamenti casuali, sono stati portati alla luce importanti resti archeologici di epoca romana
che accrediterebbero la già diffusa tesi in base alla quale il “Vicus Phalacrinae” (detto Falacrine),
luogo di nascita e di soggiorni estivi dell'imperatore Vespasiano, coinciderebbe con il sito archeologico di Torrita.
Più recentemente è stato invece proposto che nel sito si dovesse riconoscere i resti di una villa rustica. Indubbiamente inaccettabile la
prima congettura, molto più credibile la seconda, anche se non possono essere scartate ipotesi legate alla possibile presenza di una mansio o di una statio, punto di sosta del cursus publicus, considerato che il complesso che è situato a 1018 m slm, proprio nel punto di valico tra le valli del Velino e del Tronto.
Lo scavo fu poi ripreso da parte di Maria Santangelo nel 1971 e nel 1975 essendo minacciato da una variante della via Salaria allora in progettazione. A questa studiosa si deve il più importante rendiconto dello scavo stesso, pubblicato sui Fasti del 1975-1976 con la presentazione della pianta del complesso che fornisce poi il punto di partenza per tutti gli studi successivi nonostante sia senza orientamento e sia priva di una scala metrica.
Torrita è una delle arterie di comunicazione più antiche, nata ancor prima della nascita di Roma come itinerario del sale che dai monti della Sabina andava verso la valle del Tevere fino all’isola Tiberina per proseguire lungo la riva destra del fiume fino alle saline della foce, sistemata successivamente dai romani come grande via di comunicazione tra Roma l’entroterra appenninico e il versante adriatico. La via arrivò da prima fino a Rieti, poi, dopo
la sottomissione romana dell’intera Sabina, nel III° sec. a.C., fu condotta per le valli del Velino e del Tronto fino all’Adriatico dove aveva termine a Castrum Truentinum, l’odierno Porto D’Ascoli.
Esistono in realtà numerose contrastanti teorie circa l’origine, i luoghi di nascita e di soggiorno della Gens Flavia che interessano la regione ed in modo particolare la frazione di Torrita: la “tradizione amatriciana” situa Falacrine nella zona di Torrita, dove, secondo la legenda, esisteva una grande città da cui avrebbe preso nome la valle sottostante.
La posizione strategica a controllo del valico sulla via Salaria e a confine con il territorio dei Piceni rappresenterebbero secondo alcuni studiosi una testimonianza precisa e definitiva su Phalacrinae-Torrita. L’umanista reatino Mariano Vittori (1518-1572), confermando la tradizione falacrinese per cui Falacrine sarebbe la terra natale di Vespasiano, precisava che quest’ultima sarebbe coincisa con S. Silvestro di Cittareale.
Secondo la voce locale (amatriciana) la Gens Flavia sarebbe invece originaria di San Lorenzo a Flaviano, frazione a pochi chilometri da Amatrice.
I resti di interessanti costruzioni romane affiorarono effettivamente, sullo spartiacque della Meta, accanto alla nuova via Salaria, e precisamente in località denominata “Le Pantane”.
Nel complesso, indagato solo parzialmente, sono stati trovati: un peristilio, che conserva parte dello stilobate e le basi di quattro colonne tuscaniche, e vari ambienti tra i quali è possibile identificare un impianto termale: il portico colonnato, di metri 28,60 per 26,20, venuto alla luce presenta infatti delle “suspensurae” vale a dire delle piccole colonnine in mattoni che avrebbero permesso il passaggio di aria calda sotto la pavimentazione.
Lungo il lato nord-orientale si trovano sette ambienti che appartenevano al complesso termale. I muri del primo ambiente sono in opera incerta, reticolata e vittata. Fra il primo ambiente ed il successivo si trovava un praefurnium. Nel secondo ambiente, pavimentato con bipedali, sono state ritrovate tracce di suspensurae, mentre le pareti sono parte in reticolato, parte in opera vittata. Il terzo ambiente è molto simile al secondo, dal quale lo separa un muro divisorio con una serie di praefurnia. Gli altri ambienti presentano grosso modo caratteristiche molto simili. La varietà delle tecniche edilizie adottate attesta chiaramente la lunga vita del complesso termale ed i continui restauri ai quali fu sottoposto. In linea generale la datazione di queste fasi può essere con buona approssimazione compresa tra la metà del I secolo a.C. ed il III-IV secolo d.C. Sarebbe, peraltro, molto interessante riprendere le indagini archeologiche in modo più scientifico, attraverso uno scavo stratigrafico, per comprendere con miglior chiarezza le funzioni e l'arco cronologico di vita di questo complesso particolarmente importante per delineare i tempi, i modi e le forme della romanizzazione delle alte valli del Velino e del Tronto.
Nella villa sono stati rinvenuti molti pezzi di vetro (lacrimatoi, balsamari, vetrate per finestre), nonché fibule, piccole asce, monete, basamenti di colonne, capitelli e numerosi reperti che segnalano la presenza di un artigiano metallurgico (stampi di terracotta, scalpelli, pinzette, compassi, e molti altri attrezzi ed oggetti realizzati).
Venne ritrovato inoltre uno splendido busto, alto circa 60 cm di chiara iconografia repubblicana (probabilmente Cesare), rinvenuto nel ’74 ed ora custodito nei locali della Soprintendenza Archeologica del Lazio.
Ancora negli anni Settanta i lavori di scavo portarono alla luce una statua di marmo di circa 90 cm di altezza raffigurante una figura femminile nuda, trafugata la notte della scoperta stessa dai locali della scuola elementare di Torrita dov’era stata provvisoriamente sistemata.
A circa 500 metri dall’attuale area di scavo, al 141° Km della via Salaria, era stata precedentemente rinvenuta una lapide funeraria con epigrafe latina dedicata al Quattorviro e Pretore Caius Securius Vestigator; l’iscrizione, collocata inizialmente in un’abitazione di Torrita disabitata e parzialmente crollata e successivamente all’ingresso della sede comunale di Amatrice, si trova attualmente nel Museo Civico “Nicola Filotesio”.
Nel 1986 tutti i reperti recuperati vennero depositati a Roma, in Via Pompeo Magno, per volere della Soprintendenza Archeologica per il Lazio.
Nel complesso scoperto a Torrita si distinguono, in base alle tecniche costruttive, varie fasi di rifacimento e restauro in un arco cronologico che va dal primo sec. a. C. al III – IV sec. d. C..
Un Convegno indetto ad Amatrice nell’estate dell’84 cercò di chiarire la dibattuta questione della funzione di tale complesso; in tale occasione venne formulata una duplice ipotesi che impegnò i partecipanti: villa imperiale o centro abitato.
Se la ricchezza delle decorazioni e la qualità dei materiali indicherebbe che non si tratta di una villa rustica bensì di un edificio fastoso, ad esempio una grande villa residenziale con annesso un posto di guardia per il cambio dei cavalli, numerose ipotesi sono state avanzate circa l’esatta natura del complesso: le più recenti lo identificano con una stazione di posta o una statio, punto di sosta del cursus publicus, considerando che il complesso si trova a 1018 m s.l.m. nel punto di valico tra le valli del Velino e del Tronto. La Santangelo che curò lo scavo nella campagna degli anni 70, interpretava il Peristilio come il foro di un Vicus, che identificava con il vicus Phalacrinae.
Purtroppo, a causa dell’incuria e della mancanza di interesse da parte delle autorità, la zona del monumento è stata ripetutamente saccheggiata nel corso degli ultimi cinquanta anni ed i lavori di scavo e di esplorazione non sono più ripresi.
In luogo molto vicino a questo ritrovamento, a circa 1 km in linea aerea, denominato monte Tito (in dialetto chiamato Monticillu) nei pressi della frazioni
di Casali della Meta, furono rinvenuti altri reperti archeologici, travertini e
altri materiali risalenti alla stessa epoca romana ma purtroppo, anche in questo
caso, l’incuria ed il disinteresse non hanno portato a significativi avanzamenti
nelle ricerche
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
- Buonocore, M. 1988, La via Salaria nel tratto Collicelle-Torrita: nuove acquisizioni epigrafiche., in Miscellanea greca e romana, Roma, tav. II.
- Camerieri, P./ Tripaldi, L. 2009, La viabilità., in Falacrinae: Le origini di Vespasiano., Roma, fig. 4 p. 42..
- Santangelo, M. 1982, Falacrinae, Torrita di Amatrice (Sabina, Rieti)., in Fasti Archaeologici: annual bulletin of classical archaeology, p. 804.
Comunità Montana del Velino
ROCCAPASSA SULLA VIA DEI BRIGANTI
In questi territori il fenomeno del brigantaggio è sempre stato diffuso. Fin dal XVII secolo la zona era il confine tra lo Stato Pontificio ed il Regno delle Due Sicilie e come ogni territorio di confine piuttosto impervio, non erano frequenti le scorrerie dei briganti.
Nel corso del 1600 nella vasta zona compresa tra Borgovelino, Borbona, Posta e Cagnano Amiterno, agiva il famoso brigante Giulio Pezzola del Borghetto. La leggenda vuole che costui abbia comandato una numerosa banda di briganti, composta in gran parte da parenti e amici, che operava tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, depredando i ricchi e consegnando gli altri banditi (concorrenti) alle autorità, in modo da accaparrarsi la protezione dei sovrani e conquistarsi l’esclusiva della zona.
Giulio Pezzola, prima capo masnada e poi acerrimo sostenitore del governo spagnolo nelle frazioni di guerra contro il duca di Guisa, dopo essere stato il favorito ed il confidente di Filippo IV di Spagna, caduto in disgrazia della reggenza e rinchiuso in Castelnuovo di Napoli, concepì nella sua tarda età di settantacinque anni il disegno di tornare in mezzo ai banditi: e fra le ombre della notte, con una fune volle disperatamente provarsi a fuggire dalla fortezza in cui era stato rinchiuso ma rottasi la fune, cadde e morì. Fu seppellito nelle arene del ponte della Maddalena. Correva il giorno 17 luglio dell’anno 1673.
Dopo oltre 300 anni dalla sua morte la leggenda del brigante Giulio Pezzola è ancora viva nel paese che l’ha visto nascere, Borgo Velino
(sulla Salaria poco prima di arrivare ad Antrodoco), nelle sue innumerevoli diverse versioni. Ogni anziano del paese ha una sua storia. Glie l’ha raccontata il padre ed al padre il nonno e così via. Solo che i padri ed i nonni ed i bisnonni, anziché mettersi d’accordo, ci hanno messo, di proprio, quasi tutto, all’infuori di quel palazzo che è in piazza, che ha una sala con uno splendido camino e che tutti indicano, e certamente fu reggia, in pace, di Giacomo Pezzola.
Nei momenti duri, quando c’era da menar le mani e sparare dall’alto contro chi stava avventurandosi su per le montagne per vederci chiaro in certi traffici e certe ruberie, a Borgo Velino sono concordi che il Pezzola ed i suoi fidi si rifugiassero nel "Casino dei Blasetti". La torretta, ormai irrimediabilmente e goffamente mozzata, lo splendido soffitto a cassettoni, irragionevolmente demolito, certe feritoie agli angoli del quadrato edificio bianco, che dalla collinetta su cui è situato domina la vallata "Santa" sottostante, offrono appigli di certezza ad una convinzione popolare semplicemente campata in aria. La torretta e le feritoie sono in effetti piccionaie! Ed il soffitto, né molto antico, né guerriero era residuo del fasto borghese di un proprietario terriero, che alternava soggiorni in città a soggiorni campagnoli.
Anche la leggenda della tomba nel Convento Francescano è una finzione… Un vigoroso calcio alla storia ed alla realtà, pura fantasia popolare, concorde nel seppellire il bandito in tale Convento, abbandonato da oltre un secolo e sempre in restauro. Non molto lontano dal Casino dei Blasetti, il Convento ospita al suo interno una lapide, troppo piccola per essere una tomba, che però ricorda un cospicuo lascito ai frati francescani, amici del Pezzola, da parte della vedova, affinché questi dicessero messe in suffragio di suo marito.
Su tale lapide si parla di diversi scudi d’oro; tanto è bastato per alimentare le fantasie popolari e dei ragazzi, sempre pronti ad organizzare spedizioni alla ricerca di un tesoro nascosto, sempre avendo come punto di riferimento la vecchia osteria del Sor Antonio, ora distrutta a causa della costruzione di un sottopasso e che era posta lungo una vecchia mulattiera a Valle Onica.
Il Pezzola era si un brigante, ma era anche una persona di origini umili e come tale non si azzardava mai a compiere dei sinistri contro la povera gente. Le tante leggende infatti sono tutte concordi nell’affermare che il brigante Pezzola nelle sue scorrerie da un confine all’altro e cioè fra Stato Pontificio e Regno di Napoli, si era specializzato in assalti e rapine di frontiera a viandanti, diligenze, carovane e soprattutto nel rapinare monsignori, mercanti e ricconi. Mai belle dame e povera gente. Pezzola era il difensore dei frati e dei deboli! In breve però, divenne ricco e potente, così, per forza di cose, anche lui passò dall’altra parte, tant’è che il Re di Napoli, "Franceschiello" per alcuni, per altri, Ferdinando IV, un Borbone insomma, lo fece suo colonnello. Per secoli infatti il potere borbonico si resse sui briganti; la nomina di Capitano infatti non fu un regalo, e non fu neanche un semplice riconoscimento per i tanti servigi prestati e per i danni arrecati alla Chiesa, fu soprattutto un gesto che schierò il Pezzola definitivamente contro lo Stato Pontificio. Egli prese molto sul serio i suoi galloni, si inorgoglì e divenne intrattabile. Le sue gesta andarono via via perdendo il lievito di protesta sociale, di rivolta proletaria e contadina per trasformarsi in repressioni, soprusi e tirannia.
Era un bell’uomo, aveva un grosso debole per le belle donne, dalle quali era richiamato per quell’alone di eroismo e di mistero che lo circondava e per la sua contadinesca, sfacciata ma efficace e fascinosa galanteria.
Fu ucciso a tradimento, ancora giovane, a causa proprio dio una donna. Uno zingaro di passaggio lo accoltellò alla schiena sulla piazza di Borgo Velino, davanti la sua abitazione e nel bel mezzo di una festa popolare perché aveva insidiato la sua giovane sposa.
Tutta la vita odiò Papi, Cardinali e preti, il loro potere, le loro ricchezze. Venerò al contrario e come abbiamo già detto i frati, e rispettò, a suo modo Dio e i Santi. Fu una sorta di anticlericale cristiano; di laicista cattolico "ante litteram" e come tutti i briganti figlio di povera gente e a servizio della stessa. L’aiutò in tutti i modi, ne vendicò le offese ricevute; Sparì con loro ogni sorta di ricchezza, di bottino, e con loro, specie se in compagnia di belle ragazze festeggiò ogni ritorno dopo le vittoriose e ladresche imprese.
Nella leggenda, anzi nelle tante leggende, del Pezzola si ribadisce sempre il suo odio verso i ricchi ed i potenti; è a ben guardare la costante di fondo di tutte le leggende ma anche di tutti i briganti: Frà Diavolo, Passatore, Mammone, Parafante, Taccone, Musolino ecc. dei briganti del Sud e di quelli del nord. Vendicatori dei soprusi dei potenti, contro i quali la povertà, la miseria e l’ignoranza hanno sempre ritenuto ben più validi e sicuri, piuttosto che una buona legge, d’altro canto improbabile per quell’epoca, il castigo e la vendetta consumati sotto i propri occhi, li sulla porta di casa. Giustizia spicciola, in cui si ha fiducia ed è vicina, mentre le leggi ed i tribunali sono lontani ed incerti.
Fra Diavolo ed il Pezzola, a Borgo Velino e nella vallata erano la stessa persona, come anche, forse,… Michele Pezza, Pezzola,… chissà un diminutivo.
Del resto se la leggenda è la storia di ciò che si vorrebbe sia stato, anche Frà Diavolo, brigante di Borgo Velino, in barba alle date ed ai documenti, ci può stare.
Nel periodo post unificazione dell'Italia, su vasta parte del territorio centro-meridionale, si diffuse il fenomeno del brigantaggio. Vediamo di individuare le motivazioni sociali, sanitarie e politiche che costituirono la base di un fenomeno ancora oggi non definitivamente chiarito.
Il regno delle due Sicilie non si era contraddistinto per la liberalità e la floridezza economica, ma certamente aveva instaurato un regime fiscale mite e tollerante, misurato sulla capacità contributiva dell'economia agricola locale.
Anche nello Stato Pontificio esistevano degli equilibri che avevano evitato fino a quel momento il degenerare della situazione sociale.
Con l'annessione al regno d'Italia, si procedette a tutta una riorganizzazione del territorio, sia dal punto di vista del potere amministrativo, sia di quello giudiziario. Il nuovo governo, convinto di essere depositario dei principi di liberalità e di giustizia, in ciò sostenuto da tutta una storiografia ottocentesca, nel procedere a queste ristrutturazioni, perpetrò notevoli abusi e vessazioni in nome della campagna di liberazione del centro-sud dall'oscurantismo borbonico e pontificio.
Al fenomeno del brigantaggio, dal punto di vista documentale e, per utilizzare un termine oggi abusato, mediatico, è sempre stato riservato un trattamento di basso profilo, evitando quindi di sviscerarne le cause di base e sottraendo gli allora governanti da responsabilità che, a distanza di 130/140 anni, l'analisi dei documenti attesta in modo abbastanza evidente.
In realtà i nuovi poteri, nel tentativo di ridefinire il possesso del demanio comunale e le necessarie “quotizzazioni” che ne scaturivano, entrarono in rotta di collisione con i ricchi possidenti che controllavano grandi estensioni di territorio, riconoscendo ai comuni risibili compensi. Tutto ciò portò a tensioni, contrasti, prepotenze ed usurpazioni che, in particolare nell'agro reatino, si sommarono ad una situazione ambientale quanto meno poco salubre, tanto che la malaria sterminava ogni anno centinaia di contadini e braccianti, costituendo un male endemico delle campagne sabine dell'ottocento. Tale situazione complessiva determinò un continuo movimento migratorio tra la montagna e la pianura, con diffusione quindi, come risvolto positivo, di varie pratiche agrarie e l'incrocio culturale tra varie popolazioni. Ma il problema della malaria, lungi dall'essere quanto meno evitato, assunse dimensioni molto significative soprattutto dopo l'unificazione, con l'inizio del massiccio disboscamento delle aree collinari e montane. Si soffrivano poi ancora gli esiti di alcune calamità registrate nel periodo preunitario, come l'epidemia di colera del 1837, che, debellata con sommo sforzo in molti anni, aveva determinato l'istituzione di un cordone sanitario lungo il confine tra Stato pontificio e regno di Napoli, per impedire l'ingresso nello Stato di braccianti affamati provenienti dall'Abruzzo e dal distretto di Cittaducale. Naturalmente questo comportò un squilibrio sociale con numerose persone bloccate nei movimenti migratori.
A partire dall'unità i fenomeni migratori lungo il confine comunque si accentuarono notevolmente, dimostrando la grave congiuntura pre e post unitaria. Il brigantaggio va quindi letto come un indicatore dello stato di enorme disagio in cui si dibatteva l'Italia centrale postunitaria, con il ceto contadino costretto dall'indigenza ad intraprendere azioni di lotta. Durante le azioni che portarono poi all'unità, si registrarono delle fratture tra i contadini ed il ceto medio, questo ultimo favorevole al processo di unificazione. In realtà moti di resistenza al processo di unificazione si erano registrati sia nello Stato pontificio che nel regno di Napoli, con il coinvolgimento del ceto rurale tutto. L'esercito sabaudo era impreparato ad affrontare una situazione instabile e inattesa, dovendo misurarsi con una forte resistenza popolare e mettendo in atto delle violente repressioni. In questa fase si registrarono delle controffensive contro i Sabaudi: la prima, guidata da Klitsche de la Grange , contava su circa 2.000 militari di linea più un migliaio di braccianti armati alla meglio; riuscì a sfondare le linee garibaldine riprendendo Avezzano il 19 ottobre 1860; la seconda, composta da soldati papalini, svizzeri e zuavi, affiancata dalla solita massa male armata dei braccianti, era condotta dal colonnello borbonico Francesco Saverio Luverà e nel 1861 riconquistò Tagliacozzo. Ma questa seconda armata si disperse subito dopo l'eccidio di Scurcola Marsicana perpetrato dai piemontesi. In questo contesto risultava chiaro come il movimento dei braccianti poteva mostrare una valenza “insurrezionale” fintanto che esisteva la possibilità di un fallimento dell'unificazione italiana. Quando in rapida successione caddero nelle mani dei sabaudi la piazzaforte di Gaeta (rifugio del re borbonico), le cittadelle di Messina e Civitella del Tronto, la possibilità di un fallimento dell'unificazione parve scomparire, per cui tutti gli oppositori furono costretti a ripiegare, fuggendo e cercando riparo alla macchia. E così continuarono, per quanto loro possibile, a combattere, ma furono definitivamente etichettati come briganti, lasciando difficoltà insormontabili per distinguere le azioni insurrezionali da quelle brigantesche vere e proprie.
Le bande più importanti che operarono sul territorio furono: Banda di Pizzoli; Banda di Cagnano Amiterno; Banda di Borgo Velino; Banda di Laculo e Canetra guidata da Lorenzo Pandolci e Pietro Agelini;
Banda di Antrodoco guidata da Domenico Natalucci, Pasquale Di Silvestro, Bernardo Di Biaggio, Angelo Di Biaggio, Giovanni Cenfi, Giuseppe Gregari, Carmine Bianchini, Giovanni Grassi e Giovanni De Angelis; Banda di Borbona; Banda di Vallemare
e le Bande del Cicolano-Tornimparte-Lucoli
Nei territori di Accumoli e Amtrice i giornali locali riportano:
AMATRICE, Giornale del Governo di Abruzzo Ulteriore Secondo, Anno 1860: "Il contadino, poi brigante alla macchia Sabatino Ciaralli, venne condannato in contumacia perché accusato dalla Gran Corte Criminale di “Discorsi e fatti pubblici tendenti a spargere il malcontento contro il Governo, avvenuti a Villa Prata, Circondario di Amatrice il 29 ottobre 1860” .
Nicola Leopardi, sindaco di Amatrice e capitano della Guardia Nazionale, si distinse, invece, per operosità e coraggio nel perseguire il brigantaggio in ogni occasione (rapporto del comando delle truppe al confine pontificio).
I militi Germano Mari, Domenico Rubei ed Emidio Santarelli, furono anche essi elogiati per il coraggio dimostrato durante il brigantaggio. In particolare il luogotenente Rubei, il giorno 8 luglio 1861, alla testa di un drappello, sostenne un violento scontro a fuoco con una banda brigantesca, appoggiando le operazioni militari della truppa piemontese. Vennero infine proposti per la menzione onorevole , le guardie nazionali: Leopardi, Mari e Rubei, mentre al coraggioso milite Emidio Santarelli, fu assegnato dalla commissione provinciale un premio pecuniario."
ACCUMOLI, Giornale del Governo di Abruzzo Ulteriore Secondo, Anno 1860:
"Il reazionario Raffaele Marini (sarto), simpatizzante dei Borboni, venne arrestato dalla Guardia Nazionale di Accumoli nell'agosto del 1860, con l'accusa di: Discorsi tendenti ad eccitare la ribellione contro il legittimo Governo”.
I sacerdoti don Pietro Casini, parroco di Poggio Casoli, don Sante De Santis, parroco di Collespada, don Marcello Cervelli, parroco di Roccasalli, furono arrestati dalla Guardia Nazionale di Accumoli con l'accusa di: Fatti e discorsi tendenti ad eccitare la popolazione contro l'attuale Governo e contro i cittadini che lo sostengono, nonché voci allarmanti contro lo stesso governo, avvenuto nel comune di Accumoli nell'ottobre del 1860” .
Luigi Organtini (proprietario di Accumoli), fu arrestato come reazionario contrario all'unificazione ed accusato di: “Attentato per cambiare l'attuale Governo ed eccitare la guerra civile tra i cittadini e sparlare della forma di Governo. Ingiurie gravi in persona di Pubblica Sicurezza, il 23 Febbraio 1861” .
Vincenzo Valentini, contadino di Accumoli, Emidio Valeri, garzone di Collemoresco, Evangelista Spalla e Berardino Perilli, contadini di Collemoresco, Pasquale Angeletti, contadino di Patarico, Camillo Rendina e Filippo Micozzi, contadini di Grisciano, furono arrestati dai soldati piemontesi e della Guardia Nazionale con l'accusa di: “Corrispondenza con bande armate. Discorsi pubblici per eccitare lo sprezzo e il malcontento per il re Vittorio Emanuele e le istituzioni costituzionali, misfatto commesso in Collemoreso nei mesi di Luglio ed Agosto 1861” .
Ancora, il benestante filo-borbonico Luigi Organtini di Accumoli, la sera dell'8 gennaio 1862 sobillò la popolazione ad assalire la caserma della Guardia Nazionale. Dopo la sommossa, che causò diversi feriti tra i contadini ed i soldati, il benestante venne arrestato con l'accusa di: “Discorso pubblico di natura da eccitare lo sprezzo ed il malcontento contro la Sacra Persona del Re e le istituzioni costituzionali. Resistenza con violenza e vie di fatto contro la Forza Pubblica. Minaccia e ferita contro un Ufficiale dell'Ordine Pubblico, incaricato nell'esercizio delle sue funzioni, commesso in Accumoli l'8 gennaio 1862” .
La zona di Roccapassa e più precisamente nella frazione di Varoni (latitudine 42°35'50,00'' longitudine 00°46'00,00'' E) nel 1983 è stata oggetto di un esplorazione petrolifera
(bacino idrogeologico "Avanfossa Messiniana Bacino della Laga") da parte dell'Agip.
La zona presenta terreni di età del Triassico medio inferiore (pre-Burano) presenti probabilmente nella seconda falda tettonica. L'obiettivo secondario
dell'esplorazione era costituito da calcari, della formazione del Massiccio (Lias inferiore),
ma risultato sterile sia per la scarsa porosità presenti nei livelli reservoir che per una mancanza di una vera roccia madre. Inoltre il reservoir è risultato flussato da acque meteoriche.
L'area di perforazione
del primo pozzo
ha avuto di fatto uno "scarso interesse minerario" (raggiungimento perforazione fino a 5766 metri),
l'esporazione (visibile una piattaforma cementizia) è stata delimitata e non proseguita
(cessata nel 1991) sia per la necessità di proseguire ad una perforazione di
un'eventuale "seconda falda" al di sotto della "formazione di Burano", sia per
il rischio sismico della zona.
TRADIZIONI, FOLKLORE, CUCINA E ATTIVITA' ECONOMICHE
La persistenza di alcune forme culturali arcaiche, che sinteticamente potremmo definire «tradizioni locali», ha, nel caso di Amatrice, una spiegazione particolare. Infatti, a tenere vive le tradizioni non sono stati i gruppi sociali permanentemente residenti, che hanno seguito la trasformazione dell'economia agricolo-pastorale, ma piuttosto le comunità di Amatriciani che si sono ricostituite in città (in particolare a Roma) e che hanno sentito il bisogno di ricomporre una identità culturale di riconoscimento e di differenziazione nell'arcipelago urbano. È, quindi, forse la nostalgia che ha permesso di conservare vecchie canzoni popolari e perfino l'uso di strumenti, che è ancora possibile ascoltare nelle sere d'estate, quando gli «emigranti» fanno ritorno alle loro case. Lo strumento più tipico è la «zampogna», che in queste zone ha caratteristiche diverse da quelle della Ciociaria o del Molise, in quanto costituita da due «calamelli», con effetto polifonico, significativamente denominati «maschio» e «femmina»: per questo motivo prende il nome di ciaramella. L'area di diffusione delle ciaramelle ha gli stessi limiti che sono definiti dall'orografia del territorio, in cui le montagne sembrano circoscrivere un ambito compatto e raccolto: condizione geografica che ha favorito lo sviluppo di una cultura locale, poco permeabile agli influssi esterni. L'uso più tradizionale e frequente delle ciaramelle era legato alle feste di nozze, con la sonata per la sposa; quando le ciaramelle invitano a lanciarsi nel frenetico ballo della saltarella, sono accompagnate dall'organetto e dal tamburello.
La sonata per la sposa rispetta rigorosamente tre fasi: la prima, detta «piagnereccia», sottolinea il momento in cui la sposa abbandona con tristezza la casa paterna; la seconda, «camminareccia», accompagna il corteo nuziale fino alla chiesa; la terza è la «crellareccia», eseguita alla fine della funzione religiosa e serve per introdurre una saltarella nella cerimonia. Il periodo di maggiore vivacità nelle feste popolari è stato quello legato alle dominazioni spagnola e borbonica, durante le quali specialmente le feste reli-giose permettevano di dare spazio alla fantasia; oltre all'invenzione di musiche e canti erano messe in gioco tutte le qualità artigianali nella lavorazione del legno (statue e macchine da festa, altari), nella decorazione dei tessuti, ecc.. Lentamente, con il mutare dei modelli di vita associativa, si erano andate perdendo le occasioni (il Natale, S. Antonio Abate, la Candelora, il Carnevale, la Pasqua ecc.) per dare vita a rituali che erano l'esaltazione del cibo, dell'acqua, del fuoco e che ispiravano la vena poetica dei popolani, che si impegnavano in «competizioni» improvvisate, in dialetto e in lingua. Quello delle «competizioni poetiche a braccio» era un genere che spesso assumeva notevole dignità, pur nell'imitazione di modelli illustri, come il Tasso e l'Ariosto. I soggetti erano quelli della vita, dei suoi personaggi, dell'amore, della bellezza delle montagne, intrecciati in ritmi narrativi che ricordavano quelli dei cantastorie e dei giullari.
Spesso la vena poetica era riservata ad esaltare le rivalità esistenti tra le diverse «ville», in tono scherzoso ma a volte anche pungente; tanto che le fantasiose definizioni appiccicate agli «avversari» potevano diventare veri e propri «blasoni». Vincenzo Di Flavio riporta, per esempio, una strofetta che descrive i vari «villaroli» alla festa di S. Antonio di Cornillo Nuovo:
«Sant'Antonio de Cornigliu, balleno bene li Pretarigli, / canteno meglio li Cornillari / magnacicuta li Capricchiari».
È evidente che lo spopolamento dei piccoli centri e l'azzeramento delle distanze ha annullato le differenze e le distinzioni, smorzando anche gli orgogli campanilistici che animavano i confronti. Tuttavia, nell' ambito di una ripresa del gusto per le tradizioni, si assiste oggi al recupero di cerimonie e feste, perfino nelle forme più tipiche. Una sfera sociale che ha assunto particolare rilievo, anche molto al di là dei confini regionali, è quella della gastronomia. Oltre ad essere buongustai gli Amatriciani e gli abitanti della Conca sono bravi cuochi, che si fanno apprezzare nei ristoranti delle grandi città italiane. La preferenza va ad ingredienti semplici e genuini come salumi, formaggi, carni locali, funghi e ortaggi. Sono famosi gli «spaghetti all'amatriciana» (o «matriciana»), rigorosamente preparati con guanciale di maiale, olio d'oliva, pomodoro, formaggio pecorino. Una ricetta semplice e molto gustosa che sembra si sia arricchita del pomodoro alla fine del '700, quando nel Regno di Napoli si affermò l'uso di questo straordinario ortaggio. La versione «in bianco» della matriciana è detta «gricia».
La maggior parte dei nuclei si trova tra i 700 e i 1100 metri (con Amatrice a 950 metri); caratteristica che ne definisce ancor più l'economia di tipo agricolo-pastorale e silvo-pastorale. La posizione intermedia, infatti, da una parte consente la vicinanza ai terrazzamenti coltivabili per soddisfare le esigenze alimentarie dall'altra favorisce l'accesso ai più alti pascoli di montagna. Sulla base dei documenti si può dire, però, che solo dal secolo scorso ha acquistato maggiore peso l'agricoltura che, oltre alla coltivazione del frumento, del granturco e della patata, ha sviluppato anche i vigneti e gli alberi da frutta, come peschi, peri, meli. La pastorizia, che nel passato era l'attività di gran lunga prevalente, con l'alternarsi dei periodi stanziali e di transumanza verso la Campagna Romana o addirittura verso il Tavoliere delle Puglie, è oggi limitata allo sfruttamento del latte per la produzione del formaggio. Il pensiero non può non riandare al grande significato storico che hanno avuto i percorsi della transumanza, che lentamente hanno tracciato sul territorio le linee di una rete di comunicazione, che ha favorito la diffusione e lo scambio di cultura, di pensiero, di tecnologia. Oggi certamente la transumanza non può più avere queste valenze e non si può chiedere ai giovani l'esercizio di un mestiere duro, solitario, che non ha il
supporto di un' adeguata organizzazione industriale. Di qui l'esodo verso la città e la perdita di concorrenza sul mercato della produzione e della lavorazione della lana, che una volta costituiva nella zona un' attività molto fiorente ed apprezzata. Lo spopolamento ha avuto i suoi riflessi negativi anche sull'attività boschiva e sulla lavorazione del legno, in cui gli Amatriciani avevano raggiunto un notevole livello artigianale. Altra fonte di produzione era fornita dalla terra stessa, per la sua ricchezza di argilla; anche l'industria del mattone è però scomparsa, lasciando nel paesaggio le sagome di ciminiere non più utilizzate. L'arte del ferro battuto, invece, ha visto una certa rinascita, ravvivando una tradizione di cui sono testimonianza i bei lavori che è possibile ammirare percorrendo le stradine di Amatrice e di alcune «ville». Attualmente l'occupazione è concentrata nel terziario, anche grazie alla vicinanza di Rieti e de L'Aquila. Questo tuttavia non esclude un mercato ancora vivace per i prodotti alimentari locali di tipo tradizionale, come gli insaccati e i prodotti caseari, o di quelli più «moderni», come i prodotti del settore agro-biologico, dal miele alle marmellate, al farro ecc.. Tutto questo contribuisce, insieme alle bellezze naturali, ad arricchire l'offerta turistica, come testimoniano l'apertura di centri turistici e i maneggi. Durante l'estate nella zona si triplicano le presenze e fioriscono le iniziative di turismo escursionistico, trekking, mostre d'artigianato e manifestazioni che valorizzano la cultura e le tradizioni locali.
Sentieri CAI zona dell'Amatrice
Itinerari ed escursioni CAI zona dell'Amatrice
Roccapassa non ha strutture ricettive, se volete passare un bel week-end in zona vi consigliamo:
Le Verande sull'Aterno (Aringo)
Agriturismo Il Narciso (Scai)
Agriturismo La Grotta (Scai)
Villa San Sebastiano (ospitalità religiosa - Scai)
Monastero Suore Benedettine Santa Caterina (ospitalità religiosa - Scai)
B & B LDL (Le Cornelle)
Roccapassa non ha strutture per la ristorazione (anche se nella zona ce ne sono ovviamente numerose) la più vicina è sulla strada
che collega Roccapassa a Scai:
da Annarella Via Roccapassa 124 Frazione Scai, tel. 0746/818033
Testi dove approfondire:
La Storia di Amatrice. Dalla preistoria ai giorni nostri di E. Moriconi
Amatrice e le sue Ville di A. Massimi
Amatrice dolce e amara terra miadi E. Moriconi
Bibliografia sui monti della Laga (storia ed itinerari) e Amatrice
Amatrice. Viaggio amaro nella memoria tra dolori ricordi e speranza un articolo di Agostino Bagnato
Terminus: Lungo l'antico confine tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie di M. Scataglini
LINK
Il sito ufficiale del Comune di Amatrice
Il sito ufficiale del Parco Nazionale
d'Abruzzo e dei monti della Laga
Sezione CAI di Amatrice
www.Amatriciana.org
Aringo di Montereale
Il sito
ufficiale della provincia di Rieti sul Parco dei Monti della Laga
Roccapassa e i Giustiniani di Genova
Un intreccio di interessi tra Francia, Spagna
e Stato Pontificio si è consumato nei secoli in questi luoghi. La stessa
intricata matassa ha anche caratterizzato lo storia di Genova e dei Giustiniani in quel
periodo.
La famiglia genovese dei Giustiniani non è legata ad una stirpe, nasce come “nome” di una società per azioni il 14 novembre 1362 dall’unione di dodici famiglie per l’amministrazione dell’isola di Chios nel mare Egeo per conto della Repubblica di Genova. Tale dominio fu esercitato collegialmente fino al 1566, anno della definiva conquista ottomana.
Seppur apparentemente curioso, una di queste famiglie ha avuto una feconda discendenza nella “villa” di Roccapassa.
La presenza dei Giustiniani di Genova nell'Amatriciano è stata scoperta dalle ricerche di Raffaele Sassone Corsi genealogista napoletano nel 1939,
su committenza di Roberto Giustiniani
(originario di Roccapassa), a cui fu riconosciuto dalla Consulta Araldica il
titolo di "patrizio genovese", che fu l'ultimo della famiglia ad essere tumulato
nella cappella Giustiniani nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva. I documenti della sua ricerca sono presenti presso l’Archivio Storico di Napoli:“Busta Giustiniani n. 02 – Fondo Sassone Corsi, Raffaele , 1785 - 1951 - pezzi 8”.
Carlo Giustiniani (ramo “Longhi”), nato a Genova il 7 marzo 1695, bisnipote del
Doge Luca Giustiniani di Genova, figlio di Luca Cosmo e Livia Balbi, muore a Roccapassa il 1
maggio 1766 e vi è sepolto nella Chiesa di Santa Maria della Presentazione con
la dicitura
"D. CAROLUS LUCAE COSMO FILIUS EX JUSTINIANEA JANUENSI FAMILIA OBIIT KAL.MAI MDCCLXVI ANNO AETATIS SUA LXXI M. I D. XXIV D. ANGELO ANTONIUS REV D. JOANNES BAPTISTA HUIUS PARAECIAE RECTOR FILII EIUS P.P. Da ROSA ALFIERI XUSOR Di CAROLI OBIIT XXIX AP. A.D. MDCCLXIV"
lapide sormontata dallo stemma di famiglia “castello a tre torri
con al capo l'aquila imperiale con le ali spiegate”.
Carlo Giustiniani fu iscritto all’albo d’oro della nobiltà Genovese il 12 marzo 1706.
Purtroppo la lapide non è ad oggi visibile in quanto la pavimentazione originale
della Chiesa negli anni ottanta è stata coperta da un nuovo pavimento.
Il ramo "Giustiniani Longo" è tra i più importanti della famiglia
Giustiniani: oltre Giovanni
difensore di Costantinopoli, ricordiamo due Dogi (entrambi diretti ascendenti
del ramo di Roccapassa): Alessandro (nel biennio 1611-1613) e Luca (nel 1644).
Non conoscono le ragioni che indussero Carlo Giustiniani, terzogenito di Luca Cosmo e di Livia Balbi, “a cambiare cielo". Sia stato per ragioni di salute, di amore o di convenienza finanziaria, o per tutte queste ragioni, ciascuna per la sua parte o prese insieme, è molto probabile.
Carlo fu battezzato a Genova nella Parrocchia di Santa Maria di Castello 17 mesi dopo la sua nascita, perché in pericolo di morte (e, come tanti altri casi uguali, visse lungamente) cercò di consolidare il suo organismo nelle aure sane e frizzanti dell’Appennino centrale. D’altro canto interessi lo chiamavano verso il mezzogiorno.
Carlo Giustiniani, quale erede di Luca Cosmo, si trovò a rivendicare alcune rendite annuali su i fiscali delle Università di Amalfi, S. Giorgio e S. Severino della Provincia del Principato di Citra. E’ notorio come nasceva la ragione di tali eredità:
o i comuni, stretti dal bisogno, chiedevano somme ai privati e, fino all’estinzione del debito, delegavano il pagamento degli interessi annuali alcune partite fiscali dipendenti dai provvedimenti comunali; o lo Stato imponeva tali deleghe su detti proventi, quando non li vendeva addirittura, per interessi di somme ad esso prestate; e poiché, come per l’attuale debito pubblico e prestiti municipali, una volta accesi tali debiti, dallo Stato o dai comuni difficilmente si estinguevano, gli eredi dei creditori dovevano dimostrare, con mezzi legali, il diritto all’esenzione dei fiscali, cioè dovevano ottenere l’intestazione di essi a loro favore.
Così dovette fare Carlo Giustiniani, il quale ottenne il decreto della Regia Camera della Sommaria in data 20 ottobre 1742 che ordinava che i suddetti fiscali venissero a lui intestati in base al Decreto di preambolo della Curia di Genova, che lo dichiarava figlio ed eredi di Luca Cosmo, riconosciuto e confermato da Decreto della Corte della Vicaria di Napoli in data 25 settembre 1742. A conferma della discendenza genovese della famiglia un documento datato 1899
che conferisce ai Giustiniani di Roccapassa la Gran Croce di Giustizia dell'Ordine di San Giovanni d'Acri e San Tommaso, di origine Bizantina Frigia Amoriense,
quali discendenti dei Giustiniani di Genova e dinasti di Chios. Il documento è supportato dal ben noto stemma dei Giustiniani di Genova con la concessione del capo d'Amorio, come riportato qui a
sinistra.
Dichiarazione della Curia Vescovile di Rieti e del Parroco di Roccapassa del
luglio 1940 sull'esistenza di una Lapide Sepolcrale nella
Chiesa di Santa Maria della Presentazione, sulla tomba di Carlo Giustiniani e Rosina Alfieri "D. CAROLUS LUCAE COSMO FILIUS EX JUSTINIANEA JANUENSI FAMILIA OBIIT KAL.MAI MDCCLXVI ANNO AETATIS SUA LXXI M. I D. XXIV D. ANGELO ANTONIUS REV D. JOANNES BAPTISTA HUIUS PARAECIAE RECTOR FILII EIUS P.P. Da ROSA ALFIERI XUSOR Di CAROLI OBIIT XXIX AP. A.D. MDCCLXIV"- Archivio Sassone Corsi Raffaele – Busta 02/Giustiniani Archivio Storico di Napoli
Da una più attenta ricerca presso lArchivio di Stato
dellAquila (di cui Amatrice faceva parte della provincia fino al 1923) condotta
nel fondo "catasti", e precisamente nei volumi relativi all'Università di
Amatrice e delle sue Ville, sono emersi documenti riguardanti i Giustiniani. Nei catasti
onciari, volume catastale n°138/230, (compilato nellanno 1749 e completato fino al
dicembre 1762), tra le varie ditte (persone cui sono intestati i beni) appartenenti a
Villa Cornelle sono presenti i nomi di Biaggio Giustiniani (cc. 223r - 224r), di anni 65
inabile con i figli Bernardino, il figlio di lui Giovanni, Domenico Antonio, Andrea e Don
Marco. Michele
Giustiniani (cc. 228r - 229r) di anni 28 bracciante con i figli Bartolomeo e Barbara e don
Marco Giustiniani (cc. 232r - 233r) figlio del suindicato Biagio.Nello stesso volume,
sec. XVIII, tra i possessori di beni di Roccapassa è presente il nome di Carlo Iustiniani
(cc. 257r - 259r) di anni 61 (al 1749 quindi nato nel 1688) bracciante, con la moglie Rosa
di anni 56, con i figli Angelo (bracciante) di anni 25, Giovanni (chierico) di anni 19 e
Caterina di anni 28; possessore di beni per un totale di oncie 65,9 tra i maggiori
possidenti della Villa.
Tra i possessori di beni a Roccapassa sono citati nel 1755 (o 1756): Andrea de Francesco, Antonio
di Gianfrancesco, Bernardino di Francesco, Bernardino di Francesco da Fano, Bernardino di
Giansante, Biase di Lorenzo, Candeloro di Sabatino, Carlo Iustiniani, Domenico Giovannini,
Feliciangelo dAntonio, Giampaolo Dragone, Giampietro di Giampietro, Luca Dragone,
Marco Nobile, Natalizio di Pietro e Paolo DAntonio. Sempre nel volume dei catasti onciari 138/230 sono registrati per
Roccapassa un elenco di possessori di beni. Tali possessori rappresentano la totalità dei
cittadini registrati nella Villa della Roccapassa e dei loro relativi famigliari. Nello
schema i soggetti, le once di beni posseduti (immobili, beni mobili, censi e animali al
netto dei pesi), la qualifica riportata in catasto, letà (presumibilmente al 17+1) e famigliari a carico. Il totale degli
abitanti possessori e dei loro famigliari è di 20+84 per 104 persone.
I possessori di beni a Roccapassa nel 1761
I GIUSTINIANI, UNA NOBILE FAMIGLIA GENOVESE NELL'AMATRICIANO, DA PIAZZA LONGA A ROCCAPASSA
(Phasar edizioni Firenze)
di Enrico Giustiniani
(il testo è acquistabile direttamente dal sito della casa editrice Phasar al
prezzo di € 12,00)
La storia dei Giustiniani di Roccapassa è ora anche in un
testo edito nel gennaio 2022 dalla Phasar Edizioni. Dopo un primo capitolo in
cui viene tracciata la storia dei Giustiniani di Genova, nei successivi vengono
narrate le
vicende del ramo Longo di questa famiglia, una delle "dodici" che
costituirono la "Maona Giustiniani" che esercitò dal 1347 l’amministrazione dell’isola di Chios
nel mare Egeo per conto della Repubblica di Genova fino al 1566, anno della
definiva conquista ottomana.
Carlo Giustiniani olim Longo nato a Genova
il 7 marzo 1697,
terzogenito di Luca doge di Genova e Livia Balbi, si trasferisce a Roccapassa dove vi muore il 1 maggio 1766. Tumulato nella locale Chiesa di Santa Maria della Presentazione, il suo sepolcro è ornato dallo stemma di famiglia e dalla scritta: «D. CAROLUS LUCAE COSMO FILIUS EX JUSTINIANEA JANUENSI FAMILIA». Uno degli ultimi discendenti di questo ramo
Roberto Giustiniani, fu poi sepolto nel 1967 nella cappella gentilizia nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva insieme ai “grandi” della famiglia del ramo Negro-Banca
(lapide qui a destra).
Un capitolo è dedicato alle vicende giudiziarie del pio legato di Vincenzo Giustiniani marchese di Bassano istituito nel 1631 che ha interessato, nel corso di oltre tre secoli, tutti i discendenti delle dodici famiglie Giustiniani, fino alla definitiva liquidazione avvenuta nel 1958.
Oltre alle osservazioni di carattere prettamente storico e documentale riguardanti la storia dei Giustiniani,
l'autore aggiunge delle annotazioni intimistiche, e per alcuni versi romantiche, sulla “villa” di Roccapassa.
La
storia dei Giustiniani di Genova da Genova a Roma, la collezione dei grandi mecenati, la vicenda giudiziaria
delleredità del Marchese Vincenzo I Giustiniani.
Per contattarmi indirizzo e-mail: enrico@giustiniani.info