Le vicende di Genova, il Regno di Spagna e lItalia durante il 1600 - 1750
COSIMO II - SUA POLITICA - IMPRESE DI DACOPO INGHIRAMI CONTRO I TURCHI - MORTE DI COSIMO
II - REGGENZA - FERDINANDO II - TRISTE STATO DELLA TOSCANA - COSIMO III - SUO MATRIMONIO
CON MARGHERITA D'ORLÉANS - SUOI FIGLI - CONTESE PER LA SUCCESSIONE MEDICEA - LA CASA DI
LORENA DESIGNATA A RACCOGLIERE LA SUCCESSIONE DEI MEDICI - MARTE DI COSIMO III - GIAN
GASTONE, L'ULTIMO GRANDUCA DELLA CASA DEI MEDICI -- GENOVA NEL SECOLO XVII - CONGIURA DI
G. C. VACHERO - CONGIURE DI G. PAOLO BALBI E GABRIELLO DELLA TORRE - GUERRA TRA GENOVA E
CARLO EMANUELE II - GENOVA E LUIGI XIV
------------------------------------------------------------------------------
GLI ULTIMI MEDICI: COSIMO II, FERDINANDO II, COSIMO III, GIAN GASTONE
Il successore di FERDINANDO I de' Medici, che -come nelle altre pagine precedenti abbiamo
accennato- morì nel 1608, fu COSIMO II 18enne.
Cosimo nato a Firenze nel 1590, era fornito di una discreta cultura, avendo avuto come
maestri il Galilei, Giambattista Strozzi e Celso Cittadini; ma mancava di energia e non
aveva la stoffa dell'uomo politico, tant' è vero che lasciò alla madre, alla moglie e al
ministro CURZIO PICHENA gli affari del governo, e quando lui volle prender l'iniziativa in
qualche trattativa politica fallì.
Sapendolo ricchissimo, la Spagna cercava di farselo amico per aggiogarlo alla sua politica
di predominio e sarebbe riuscita nel suo intento se i ministri del Granduca, temendo di
inimicarsi la Francia, non avessero vigilato e saputo abilmente destreggiarsi.
Tuttavia Cosimo II e i suoi ministri non seppero continuare la politica di indipendenza
dalla Spagna che era stata adottata da Ferdinando I, del quale invece imitarono la
politica favorevole ai Gonzaga, non accorgendosi che i tempi erano mutati e che alla
Toscana conveniva stringere amicizia col duca di Savoia e assecondarne i disegni. Difatti
andarono a monte le trattative tra Savoia e Medici per combinare un matrimonio tra
VITTORIO AMEDEO, figlio di Carlo Emanuele I, e una principessa toscana, e nel 1612, alla
morte di Francesco Gonzaga, il governo granducale si adoperò con la Spagna, con la
Francia e con Venezia perché fosse riconosciuto il cardinale Ferdinando Gonzaga duca di
Mantova, osteggiando le aspirazioni del duca sabaudo, il quale sosteneva che la
successione spettava alla nipote Maria.
Questa politica, che andava a tutto beneficio della Spagna, mise in urto tra loro le corti
di Firenze e di Parigi. I dissapori crebbero talmente che LUIGI XIII ordinò al residente
toscano di allontanarsi entro tre giorni da Parigi ed entro due settimane dal territorio
francese; e fu solo per la mediazione del duca di Lorena, sollecitata da Cosimo II, che i
rapporti tra la Francia e la Toscana ritornarono cordiali.
Dove l'azione del governo granducale si dimostrò veramente energica ed efficace fu nella
difesa delle coste italiane contro i barbareschi. Non riuscì, è vero, a Cosimo II di
pacificare la Spagna e la Francia e di stringere in lega contro il Turco tutte le potenze
cristiane, ma seppe dare tale impulso alla sua marina da guerra da renderla temutissima in
tutto il Mediterraneo.
Affidata all'Ordine di Santo Stefano, ammiraglio della sua flotta era il marchese JACOPO
INGHIRAMI di Volterra, che nella sua gioventù aveva partecipato alle guerre civili di
Francia militando negli eserciti della Lega Santa. Diventato capo della marineria toscana,
non solo aveva reso sicure le coste tirreniche dalle incursioni barbaresche, ma si era
più volte spinto nei mari di Levante a molestare i Turchi con alcuni successi,
ritornandone con schiavi e ricche prede.
Nel maggio del 1613, l'Inghirami, recatosi nelle acque della Caramania, assalì la
fortezza di Akliman, situata di fronte a Cipro, la espugnò, la saccheggiò, la bruciò, e
dopo una battaglia accanita si impadronì di due galee capitane della Guardia turca di
Cipro; catturò poi altre navi mercantili e ritornò in Italia con ingente bottino, con
trecento schiavi musulmani e con duecentoquaranta cristiani liberati dalla schiavitù.
Il governo di Cosimo II va ricordato per i lavori del porto di Livorno, che, interrotti
sotto Cosimo I e Ferdinando I, furono da lui ripresi. Fu modificato però il progetto di
Bernardo Buontalenti perchè, essendo troppo grandioso, richiedeva una spesa enorme, e il
porto, rimpicciolito, risultò più utile, nelle nuove proporzioni, alla difesa ma non è
che pregiudicò le esigenze commerciali della nuova città avviata a un grande futuro.
COSIMO II cessò di vivere il 28 febbraio del 1621 dopo dodici anni circa di regno.
Siccome non aveva che un figlio decenne, FERDINANDO II, Cosimo II affidò la Reggenza alla
madre Cristina di Lorena, e alla moglie Maria Maddalena, ordinando per testamento che le
coadiuvassero nel disbrigo degli affari di Stato l'arcivescovo di Pisa Giuliano de'
Medici, il conte Orso d' Elci, Niccolò dell'Antella e il marchese Fabrizio Colloredo, che
ebbero come segretari Curzio Pichena ed Andrea Cioli.
Sotto il governo della Reggenza la Toscana venne ridotta in deplorevoli condizioni. Di
questo governo fa una vivace rappresentazione il Callegari, da noi parecchie volte citato:
« Le reggenti non tennero conto di quello che Cosimo aveva stabilito nel suo testamento,
che cioè non si attribuissero impieghi a nessun straniero, che non vi fossero alla corte
confessori, se non francescani; e che con il tesoro ducale non si concedessero prestiti od
imprese mercantili. La corte invece si riempì di lusso, di intrighi, di frati, di
chiacchiere teologiche; si profusero titoli di duca e marchese fino a persone di servizio,
e col trafficare dei grani della Maremma Senese si rovinò quella provincia. Cominciarono
subito le rappresaglie, le vendette e le prepotenze; gli antichi ministri furono sbalzati
dalle loro cariche per cedere il posto a maldestri favoriti del nuovo governo; i frati si
insinuarono nel favore e nell'amministrazione dello Stato; la vanità, trasformata sotto
il manto della pietà e della convenienza, accrebbe la profusione alla corte a tal punto
che, consumati i risparmi fatti da Cosimo, si dovette ricorrere all'erario pubblico.
Il male, che serpeggiava alla corte sotto la Reggenza, si estese e portò i suoi negativi
effetti in tutto lo Stato toscano. Erano cresciute le gabelle, divenute un vero flagello
per il contribuente; gravi tasse si dovevano pagare per i contratti di ogni genere; i
magistrati dell' abbondanza facevano traffico nei grani arricchendosi così sulla miseria;
il Monte di Pietà, che doveva essere il soccorritore degli orfani e delle vedove,
cominciò a prestar denari alla Spagna, ricevendone in cambio mercanzie, così che divenne
banco e negozio e concentrò i capitali, rovinando con il suo monopolio ogni altro
traffico.
Macchinose procedure e sconsiderati divieti impacciavano ogni cosa; era indicato dalla
legge quali piante si dovessero coltivare, dove vendere le proprie derrate. In questo modo
cessava il commercio, languivano le manifatture, la terra non produceva, rovinavano le
famiglie e molti o per miseria o per vizio si gettavano alla campagna. Crebbero le file
dei bravi, incoraggiati dalle stesse leggi con le frequenti immunità ed asili.
Ad accrescere la confusione e il disordine nello Stato concorrevano anche le intemperanze
e le esigenze degli ecclesiastici, che sollevavano le proprie pretese giurisdizionali fino
al punto da attribuire a sé il diritto di pronunciare ogni giudizio, introducendo con
artificio in qualunque controversia la causa ecclesiastica, lanciando monitori e
scomuniche, e considerando la corte di Toscana come il semplice esecutore degli ordini di
Roma. Aggiungi a questo un eccessivo numero di frati, che inondavano lo stato e che,
segretamente spronati da Roma, andavano spargendo dottrine sediziose contro il governo, e
con il loro esempio animavano i sudditi a violare le leggi. Il favore, che alcuni di essi
godevano alla corte e il predominio già da allora acquistato nell'opinione pubblica, li
rendevano invulnerabili di fronte alle leggi, mentre con il condurre una vita dissoluta
davano al mal costume un incitamento maggiore..."" (Callegari).
Quando FERDINANDO II uscì dalla minore età, non riuscì a sottrarsi alla volontà della
madre e dell'ava, tuttavia cercò di porre un rimedio ai mali che il tristo governo della
Reggenza aveva arrecato alla Toscana e con la sua bontà e pietà presto si guadagnò
l'affetto dei sudditi che lo videro prodigarsi con grande abnegazione durante la peste del
1630.
Ferdinando avrebbe operato volentieri sagge riforme, ma le condizioni politiche dell'
Europa e specie dell'Italia lo costrinsero a dedicare la maggior parte della sua attività
alla difesa dello stato. Quanto a politica estera egli non seppe fare meglio che
destreggiarsi tra la Spagna e la Francia e si mostrò deciso soltanto quando, preoccupato
dello spirito aggressivo di URBANO VIII, si alleò con Venezia e con Modena in difesa di
ODOARDO FARNESE.
Eccettuato quest'atto di risolutezza, tutta l'azione politica di Ferdinando II ha per
caratteristica l'indecisione e la debolezza, specie nei riguardi della Santa Sede. Egli
non seppe né volle porre un freno all' ingerenza del clero, che nei suoi stati si era
fatta grandissima, e subì senza mai ribellarsi la volontà prepotente del Sant' Ufficio.
Quando GALILEO GALILEI, chiamato a Roma da URBANO VIII, invocò la protezione del
granduca, nulla questi fece per aiutarlo, lo esortò anzi ad ubbidire alle autorità
ecclesiastiche. Allo stesso modo non andò in soccorso di MARIANO ALIDOSI che nel 1631
consegnò al tribunale dell' Inquisizione, dimenticando l'esempio datogli dal padre Cosimo
II, il quale nel 1606 aveva ordinato la scarcerazione di Rodrigo Alidosi, padre di
Mariano, imprigionato dal Sant' Ufficio, e nel 1616 si era rifiutato di riconsegnarlo.
Nonostante la sua debolezza e il suo remissivo ossequio alla volontà della madre e
dell'ava, Ferdinando II riuscì a correggere parecchi abusi di governo e a introdurre
nell'amministrazione pubblica una benefica economia, e sebbene grande fosse il potere che
sulla moglie e sulla madre esercitava il clero, accettò le dottrine galileiane, protesse
l'Accademia del Cimento favorendola nei suoi importanti esperimenti e, calcando le orme
dell'avo, fu prodigo di aiuti ai letterati e agli scienziati, dando incremento alle tre
università del granducato e contribuendo all'erezione del gabinetto di fisica e al museo
di Boboli.
FERDINANDO II visse fino al 1670, nel quale anno gli successe sul trono il figlio COSIMO
III. Con lui le condizioni della Toscana peggiorarono perché il nuovo granduca era inetto
al governo e, siccome era largo nello spendere e gli piaceva condurre una vita fastosa,
per procurarsi i mezzi necessari vendeva le cariche pubbliche, inaspriva i tributi e
creava nuove imposte che dissanguavano i sudditi. Come sotto il governo paterno così
sotto il suo la corte era piena di frati intriganti e di preti. Cosimo faceva grande
ostentazione della sua religiosità non solo dedicando gran parte del suo tempo ai pii
esercizi, che contrastavano stranamente con il fasto eccessivo, ma facendo generose
offerte a santuari, favorendo la fondazione di conventi e dotando a spese dello stato le
pie istituzioni.
Nel 1661 egli aveva sposata MARGHERITA d'ORLEANS. Fu questo un matrimonio infelice perché
la giovane sposa, colta e vivace, non potendo sopportare la compagnia di un uomo così
orgoglioso, poco socievole e bigotto, finì con il ritornarsene in Francia e chiudersi nel
monastero di Montmartre, dove più tardi uscì per darsi ai giuochi, ai balli e ad altri
svaghi mondani.
Dal suo matrimonio Cosimo ebbe tre figli, Ferdinando, Gian Gastone ed Anna Maria Luisa.
Quest'ultima sposò l' Elettore Palatino Giovanni Guglielmo; Ferdinando si unì con
Violante Beatrice di Baviera, Gian Gastone condusse in moglie ANNA MARIA FRANCESCA di
Sassonia Lawerburg. Ma nessuno di questi matrimoni riuscì fecondo, né lo fu quello del
cardinale FRANCESCO MARIA de' Medici, fratello di Cosimo, con la giovane ELEONORA, figlia
di Vincenzo Gonzaga duca di Guastalla, che forse non riuscì mai vincere la sua ripugnanza
per il vecchio marito.
Morti il fratello e il primogenito Ferdinando, COSIMO III stabilì che se si estinguessero
tutti i suoi congiunti di sesso maschile la corona di Toscana sarebbe passata sul capo
della figlia ANNA MARIA. Il decreto granducale sulla successione medicea ebbe l'immediata
ratifica del senato. Più di uno erano i pretendenti alla successione medicea: vi erano
gli Estensi, vi erano i Farnesi e vi era la Francia, la quale vantava diritti sulla
Toscana in forza dei matrimoni di Caterina e di Maria de' Medici; bisognava inoltre fare i
conti con l'imperatore CARLO VI, interessato alla successione in virtù dei diritti
feudali. Carlo VI fece sapere a Firenze che la scelta di Anna Maria, elettrice di
Sassonia, era di suo gradimento, ma che, essendo senza prole, era necessario -d'accordo
con lui- di regolare meglio l'eredità. Si avviarono pertanto negoziati tra il granduca e
l' imperatore, e Cosimo III scelse come erede, dopo la morte dell'elettrice, la casa
estense alle seguenti condizioni: Il granducato di Toscana e il ducato di Modena
formerebbero un solo stato, sotto un medesimo sovrano residente a Firenze; gli Estensi
difenderebbero sempre e contro tutti la libertà e l' indipendenza del dominio fiorentino;
il successore non muterebbe la costituzione del governo toscano, conserverebbe al senato
di Firenze le prerogative e alle città del dominio gli antichi privilegi; i debiti
pubblici sarebbero a carico del successore; infine l'ordine di successione si stabilirebbe
con atto solenne, per diritto di primogenitura, escluse le donne.
La corte estense accettò le condizioni imposte da Cosimo III e per ottenere l'adesione di
Carlo VI la duchessa di BRUVSNICK, madre della moglie del duca Rinaldo di Modena e
dell'imperatrice, si impegnò di scrivere alla figlia. Però le cose si fermarono lì
perché nell'accordo di Londra del 2 agosto 1718, stipulato tra l'impero, la Francia e
l'Inghilterra, si stabilì di riservare la successione al ducato di Parma e Piacenza e al
granducato di Toscana, dichiarato feudo imperiale, all' infante di Spagna don Carlo.
Il 31 ottobre del 1723, dopo cinquantatrè anni di regno, moriva in età di settantun anno
COSIMO III, lasciando il paese in tristissime condizioni, e gli succedeva il figlio GIAN
GASTONE, il quale, appena salito al trono, dichiarò che non accettava per erede l'infante
di Spagna, chiese per mezzo dell'ambasciatore Neri Corsini alle potenze firmatarie
dell'accordo di Londra che revocassero ciò che avevano disposto per la successione
medicea e protestò altamente per la violenza che si voleva commettere ai danni della
Toscana.
Richiesta e protesta furono vane. Allora Gian Gastone, consigliato dal domenicano ASCANIO,
si accordò direttamente con la corte spagnola, riconoscendo come erede don Carlo a
condizione che questi mantenesse la costituzione della Toscana; ma l' imperatore,
minacciandolo di guerra, lo costrinse a rispettare i trattati conclusi dalle potenze e il
granduca, cedendo alla forza, protestò ancora dichiarando tuttavia che accettava le
decisioni altrui ma solo perché ne era forzato.
Ma l'ultima parola per la successione medicea non era stata ancor detta. Nell'ottobre del
1735 tra Francia ed Austria si concludevano i preliminari di pace in cui si stabiliva che
don Carlo - il quale era già stato investito del regno di Napoli - avrebbe conservato lo
stato dei Presidii rinunciando ai suoi diritti sulla Toscana; che Livorno sarebbe stato
dichiarato porto franco; e finalmente che il granducato Mediceo, morto Gian Gastone;
sarebbe passato a FRANCESCO STEFANO di LORENA.
Sedici mesi dopo, il 24 gennaio del 1737, l' imperatore disponeva che, all'estinzione
della famiglia dei Medici, il granducato passasse sotto la sovranità del Lorenese e dei
suoi discendenti maschi per ordine di primogenitura. In mancanza di prole maschile la
Toscana doveva essere ereditata dal fratello Carlo e, morendo questi senza eredi maschi,
sarebbe passata al ramo femminile della casa di Lorena.
Il 9 luglio dello stesso anno, moriva Gian Gastone, principe colto, ma dissoluto, che
aveva lasciato il governo all'arbitrio di un prepotente libertino, il DANI, ed aveva
sperperato il denaro dello Stato in gioielli, oggetti d'arte e nelle sue dissolutezze. Con
lui s'estingueva la famiglia dei Medici, che a Firenze prima e in quasi tutta la Toscana
poi per oltre tre secoli aveva esercitato il suo potere. Dal ritorno dei Medici in
Firenze, dopo la caduta della repubblica, alla morte di Gian Gastone erano passati due
secoli e sei anni.
CONGIURA DEL VACHERIO, DEL BALBI E DELLA TORRE GUERRA TRA GENOVA E CARLO EMANUELE II -
GENOVA E LUIGI XIV
Da cinquant'anni durava a Genova la pace stabilita nel 1576 per opera del Pontefice, dell'
Imperatore e della Spagna, ma pareva che quel non breve periodo di quiete accennasse a
finire e dovessero avere inizio nuovi torbidi. Lo si poteva prevedere da un sordo
malcontento che serpeggiava nella cittadinanza, fra cui non pochi erano quelli i quali si
lamentavano della scarsa e ingiusta applicazione dei patti della pace ed erano parecchi
quelli che con uno smodato desiderio di comando erano spinti ad agitare le acque.
Capo di questi era GIULIO VACHERIO, il quale, per mezzo del genovese GIOVANNI ANTONIO
ANSALDO che dimorava in Torino, offrì a CARLO EMANUELE I la signoria di Genova a
condizione che fornisse aiuti ai malcontenti. Il duca di Savoia che si trovava allora in
guerra con Genova promise al Vacherio di aiutarlo nella sua impresa, ma, conclusa più
tardi una tregua con la città nemica, non pensò più a mantenere i rapporti con i
cospiratori.
Questi però non abbandonarono i loro propositi, anzi, temendo che gli indugi potessero
portare alla scoperta della congiura, stabilirono di metterla in atto il 1 aprile del 1628
uccidendo il doge e i senatori; ma non fecero in tempo, perché FRANCESCO BODINO, complice
del Vacherio, tradì la causa dei congiurati, rivelando al governo della repubblica le
loro intenzioni. Alcuni dei cospiratori riuscirono a fuggire, ma il Vacherio ed altri
vennero presi e condannati alla pena capitale, dalla quale cercò di salvarli Carlo
Emanuele I con la minaccia di uccidere i prigionieri genovesi che aveva dentro le sue
carceri. Ma Genova non si lasciò intimorire dalle minacce del duca, che poi non furono
effettuate, e fece eseguire la, sentenza, quindi il governo, per prevenire ogni, tentativo
contro la repubblica, creò sei Inquisitori di Stato cui affidò il compito di vigilare
alla sicurezza pubblica e di giudicare tutte le persone sospette di intrighi ai danni
della città.
La severità usata contro il Vacherio e i nobili se diede del respiro alla città non fece
però cessare il malcontento, accresciuto dalle risvegliate rivalità tra la vecchia e la
nuova nobiltà, che nel 1650 diedero luogo a nuove agitazioni. La repubblica era in quel
tempo in trattative con la Spagna per l'acquisto di Pontremoli, e il senato genovese per
raccogliere la somma necessaria aveva escogitato di vendere fra i nobili del Portico
Vecchio l'iscrizione di nuove famiglie nel patriziato. L'acquisto non riuscì aver luogo
per l'opposizione del granduca di Toscana; ma quelli del Portico Nuovo si offesero per le
decisioni del Senato e non mancarono di esprimere il loro sdegno, aizzati da un certo GAN
PAOLO BALBI, che oltre all' audacia non era privo del fascino della parola.
Gli inquisitori di stato ritenendolo pericoloso, lo mandarono in esilio; e Balbi si illuse
di avere più libertà per lavorare contro la repubblica; ma i suoi tentativi di
rovesciare il governo di Genova per mezzo di potentati stranieri non riuscirono, perché
la Spagna, da lui sollecitata, si rifiutò di intervenire e il cardinale Mazarino,
richiesto di aiuti, fece capire che li avrebbe dati ma a patto d'imporre poi su Genova la
sovranità della Francia. Scoperte gli intrighi del Balbi, molti suoi complici vennero
arrestati e condannati a morte. Molto più importante fu la congiura tramata una ventina
d'anni dopo da RAFFAELLO DELLA TORRE perchè condusse ad una guerra tra Genova e il duca
di Savoia. Il Della Torre aveva sciupato tutto il suo patrimonio nel lusso e nelle
crapule. Carico di debiti, nel 1671 con una gruppo di scapestrati aveva assalito una
feluca genovese piena di merci diretta a Livorno. Per questo reato era stato condannato
alla pena capitale alla quale si era sottratto fuggendo a Torino. Lui sapeva che regnavano
dissidi tra Genova e il duca di Savoia per ragioni di confine e sapeva anche che CARLO
EMANUELE II, non potendo facilmente comunicare con Nizza ed Oneglia, aspirava al possesso
di Savona o di Genova; recatosi quindi dal duca, entrò nella sua fiducia e lo mise a
parte di un suo disegno che aveva lo scopo di togliere la libertà alla repubblica.
Il Della Torre assicurava di disporre di due o tremila uomini armati con i quali non gli
sarebbe riuscito difficile di penetrare a Genova perché il capitano di una delle porte
era d'accordo con lui, e di trarre a ribellione la città in cui contava molti aderenti; e
proponeva a Carlo di offrirgli la sovranità di Genova e il possesso di Savona a
condizione però che lo aiutasse nell'impresa con duemila fanti e mille cavalli. Carlo
Emanuele si lasciò convincere dalle lusinghevoli parole del fuoruscito e, persuaso che
non avrebbe avuto noie da parte della Spagna e della Francia, stabilì con lui un accordo
con il quale si dichiarava pronto a concorrere all'impresa con un reparto di fanteria e di
cavalleria e a stringere una lega offensiva e difensiva con Genova purché gli fossero
consegnati la città, il territorio, il porto e il castello di Savona.
Raffaello Della Torre provvisto di denari dal duca assoldò avventurieri nelle campagne di
Piacenza e Parma e stabilì di tentare il colpo di mano la notte precedente alla festa di
San Giovanni Battista per trarre profitto dalle grandi feste che i Genovesi solevano
celebrare in onore del Santo Protettore della repubblica. Con i suoi armati doveva
penetrare in città per la porta delle mura di San Simone, espugnare di sorpresa poi
quella dell'Aquassola, liberare i carcerati, impadronirsi delle armi e delle munizioni,
far saltare il palazzo della città e rendersi padrone dello stato. Mentre il fuoruscito
faceva i suoi preparativi, Carlo Emanuele con il pretesto di dare il cambio ad alcune
guarnigioni di confine, concentrava truppe a Saliceto. Queste, quando furono pronte,
marciarono su Savona, ma giunte a poca distanza dalla città seppero che la congiura di
Gabriello della Torre era stata scoperta, e che la repubblica aveva rinforzato il presidio
della terra e le guarnigioni di tutti i posti di confine.
Allora l'esercito ducale fu diviso in due schiere: una, al comando di don GABRIELE di
SAVOIA fu mandata a sostenere il suo presidio di Oneglia, l'altra guidata dal conte
CATALANO ALFIERI fu incaricata di procedere all'occupazione del marchesato di Zuccarello,
del quale da un secolo si contendevano il possesso la casa Savoia e Genova.
Quest'impresa si risolse in un disastro per le armi sabaude, che a Castelvecchio vennero
disastrosamente sconfitte e lasciarono sul campo ottocento morti, tra cui il conte della
Trinità, i marchesi del Carretto e della Pieve, i conti Morozzo e Piossasco e il
cavaliere Carlo Benso di Cavour, e oltre millecinquecento prigionieri nelle mani del
nemico.
Bramoso di prendersi la rivincita e di liberare Oneglia, Briga e Prinaldo, che erano ora
cadute in potere della repubblica, Carlo Emanuele II fece grandi preparativi di guerra e,
sceso di nuovo in campo, riprese Oneglia e tolse ai Genovesi Ovada. Dopo questi due
successi iniziarono trattative tra i due stati belligeranti e nell'autunno del 1672 si
concluse una tregua, mutata più tardi in pace, con la quale furono reciprocamente
restituiti i prigionieri e i luoghi occupati.
Ma la guerra col duca di Savoia fu nulla in confronto a quella che di lì a non molti anni
Genova doveva sostenere contro il prepotente LUIGI XIV. Questi era mosso ad agire contro
la repubblica sia dal risentimento in lui prodotto dagli aiuti che aveva prestati
all'Austria, sia dal desiderio di impadronirsi di una città che in altro tempo era stata
della Francia e che per le sue ricchezze e per la sua posizione faceva enormemente gola al
monarca francese.
Tutti i pretesti possibili furono cercati da Luigi XIV per muovere guerra alla repubblica:
una vertenza sorta perché a Genova era stata armata una nave olandese la si compose con
l' intervento del Papa e del re d'Inghilterra; un'altra, provocata dal mancato saluto
delle artiglierie genovesi alle navi di Francia, ebbe per conseguenza l'ordine del re di
cannoneggiare S. Remo e S. Pier d'Arena.
Non contento di queste provocazioni, Luigi XIV chiese che gli si permettesse di stabilire
un magazzino di sale a Savona, poi mandò in Genova come ambasciatore, con il compito di
far nascere incidenti, il marchese di Sant'Olon, che si comportò con tanta insolenza da
costringer la repubblica a chiedere il suo richiamo a Parigi; infine pretese che Genova
restituisse a un Fieschi i beni confiscati alla famiglia.
Il contegno della Francia era così provocatorio che i Genovesi stimarono opportuno di
prepararsi a respingere possibili offese provvedendosi di armi e mettendo in assetto di
guerra 4 galee. Ed era quello che aspettava il re di Francia, infatti questi intenzionali
preparativi vennero considerati come casus belli. Luigi XIV mandò nelle acque di Genova
il Dusquesne e il marchese di Seignelay con una flotta di quattordici vascelli, tre
fregate, venti galee, dieci palandre per gettar bombe e parecchie altre navi minori. Sotto
la minaccia di bombardare la città se entro cinque ore non obbediva alle richieste del
re, il comandante dell'armata chiese che fossero consegnate le quattro galee e che quattro
Senatori andassero a domandar perdono al sovrano in Versailles e a promettergli
obbedienza.
Genova, sebbene non avesse mezzi adeguati alla difesa, non volle piegarsi e sopportò con
superba fermezza il furioso bombardamento francese che gli provocò rilevanti danni.
Tredicimila bombe vennero lanciate sulla città e il tiro delle artiglierie cessò
solamente quando furono esaurite le munizioni (29 marzo 1684).
Allontanatasi la flotta francese, Genova in previsione di un nuovo furioso assalto, che
probabilmente avrebbe distrutto l'intera città, inviò a Madrid GIAN ANDREA SPINOLA
perchè inducesse la Spagna a formare una lega contro la Francia; ma l'ambasciatore non
ottenne nulla e la repubblica, abbandonata da tutti, fu dolorosamente costretta a
sottoscrivere a Versailles il 12 febbraio del 1685 un trattato di pace con il quale
accettava di mandare dal re il doge e quattro senatori a chiedere scusa, di ridurre il suo
naviglio, di rinunziare a tutte le leghe strette dopo il 1683, di pagare ai Fieschi
centomila scudi e di indennizzare i sudditi francesi (di pagare insomma a Luigi XIV le
13.000 bombe che l'avevano distrutta).
Peggio di così Genova non poteva finire. Da questa data ebbe inizio il suo declino.
Entrarono in crisi due importanti settori economici: l'attività armatoriale e l'industria
della seta, mentre le rimanenti attività commerciali in larga misura furono gestite da
stranieri. Con il crollo demografico (già drammaticamente iniziato con la peste di pochi
anni prima, del 1656-1657) per due secoli la stessa struttura urbanistica della città non
subì modifiche rilevanti. Fallita la scelta neutralista, si accentuarono i legami
politici-diplomatici con la Francia, la cui influenza crebbe nel corso del XVIII secolo,
fino alla formazione della Repubblica ligure (1797), unita all'impero napoleonico nel
1805. Ma anche la successiva annessione al regno di Sardegna non portò alla sperata
ripresa economica, provocando invece un diffuso malcontento che proprio in queste contrade
si espresse poi con l'adesione ai ben noti moti mazziniani; che non trattiamo ovviamente
qui, ma in altri riassunti del XIX secolo.
CONGIURE E SOLLEVAZIONI CONTRO LA SPAGNA ( 1623 - 1680 )
CONGIURA DEL DUCA D' OSSUNA - CONGIURA DI GIULIO GENUINO - FRA TOMMASO PIGNATELLI -
GIOVANNI OREFICE - TENTATIVO DI TOMMASO DI SAVOIA D'IMPADRONIRSI DEL REGNO DI NAPOLI -LA
RIVOLUZIONE NAPOLETANA DEL 1647 - MASANIELLO - SOLLEVAZIONE DI AQUILA - MORTE DI
MASANIELLO - FRANCESCO TORATTO - SPEDIZIONE DI DON GIOVANNI D'AUSTRIA CONTRO NAPOLI -
GENNARO ANNESE - IL DUCA DI GUISA - CAMILLO TUTINI E L'INSURREZIONE NAPOLETANA DEL 1649 -
RIVOLUZIONE DI PALERMO - NINO LA PELOSA - GIUSEPPE D'ALESSI - CONGIURA DEL VAIRO -
CONGIURE DI GABRIELLO PLATENELLA, DI PIETRO MILANO, DI FRANCESCO FERRO, DI ANTONINO LO
GIUDICE E GIUSEPPE PESCE - RIVOLUZIONE DI MESSINA - I MESSINESI CHIEDONO AIUTO ALLA
FRANCIA - LUIGI XIV ABBANDONA MESSINA - REAZIONE SPAGNOLA
--------------------------------------------------------------------------
Abbiamo parlato in un altro capitolo delle insurrezioni e delle congiure che ebbero, luogo
nel secolo XVI nel Napoletano e nella Sicilia; parleremo ora di quelle ben più numerose e
più gravi del Seicento. La storia delle congiure contro la Spagna nel secolo XVII si apre
registrando un nome illustre e spagnolo per giunta : duello di don PEDRO TELES GIRON, duca
d' OSSUNA, uomo duro ed energico, che fu per qualche tempo vicerè di Napoli.
Questi, finito il suo periodo di governo, per l'odio che nutrivano verso di lui i gesuiti,
i nobili del regno e parecchi potenti personaggi perfino spagnoli come lui, tra cui il
conte d' OLIVARES, venne richiamato in patria. Fidando nel favore del popolo, che aveva
saputo guadagnarsi ribassando il prezzo del pane, e approfittando del difficile momento
politico che la sua nazione attraversava, il duca concepì l'idea di far ribellare i
Napoletani contro la Spagna.
Fece pertanto pratiche con la repubblica di Venezia, col duca di Savoia e con la Francia,
proponendo alla prima di consegnarle alcuni porti dell'Adriatico se gli avesse fornito
l'aiuto della flotta e qualche migliaio di soldati. Il senato veneto però si rifiutò di
favorire il piano di un uomo che, come avremo occasione di dire, aveva tramato ai danni di
Venezia, e consigliò Carlo Emanuele di non fidarsi dell'Ossuna. Il duca di Savoia (lo
abbiamo conosciuto nella sua biografia) come al solito non ascoltò i consigli della
repubblica veneta e continuò le pratiche insieme col Lesdiguières, il quale agiva per
conto del re di Francia. Il disegno del duca d'Ossuna non riuscì mai ad esser messo in
esecuzione. Sia che gli mancasse il coraggio, sia che credesse di non poter fare grande
assegnamento sull'aiuto del popolo napoletano, sia anche perché sospettava che la corte
di Parigi avesse avvisato quella di Madrid, di modo che il vicerè non seppe risolversi ad
agire, anzi inviò al suo sovrano un messaggero per assicurarlo della sua fedeltà e per
accusare come autore della congiura il duca di Savoia (che per le note vicende già
narrate, alcuni a Parigi già si fidavano poco di lui).
Delle indecisioni del duca d'Ossuna approfittò il cardinale BORGIA, andato a sostituirlo
nella carica di vicerè: egli riuscì a penetrare di notte nel castello senza che l'Ossuna
si accorgesse di nulla. Quando le artiglierie diedero l'annunzio alla città dell'arrivo
del nuovo governatore era troppo tardi per opporsi. Al duca non restò che di partire,
pronunciando gravi minacce all' indirizzo del Borgia, il quale non ne tenne gran conto e
facilmente riuscì ad avere ragione della plebe, che guidata da GIULIO GENUINO, tumultuava
non volendo far partire l'ex-vicerè.
Alcuni anni dopo, essendo vicerè il cardinale ZAPPATA (1622), il popolo napoletano
nuovamente si sollevò spinto dalla carestia. Il moto assunse l'aspetto di una certa
gravità e costrinse il cardinale a cercare rifugio qua e là, presso l'arcivescovo e
nella certosa di S. Martino, ma alla fine la rivolta in qualche modo fu sedata i promotori
furono appesi alle forche.
Di un altro moto contro il governo spagnolo fu capo un frate calabrese, GIOVANNI FRANCESCO
PIGNATELLI, un discepolo del Campanella (lo abbiamo conosciuto nelle precedenti
ribellioni) dal quale aveva appreso ad odiare i dominatori stranieri. D'accordo con
Antonio Maria Pepe, Giuseppe Grillo, Michele Cervelloni e Pompeo Mazza, aveva progettato
di impadronirsi del Castello di Napoli per mezzo di alcuni albanesi vestiti da frati, di
uccidere l'arcivescovo e il vicerè e di spingere il popolo alla rivolta. Ma uno dei
congiurati, il Mazza, lo tradì. Il 18 settembre del 1634 fu dichiarato reo di lesa
maestà e sconsacrato e il 28 fu consegnato alla giustizia; il 3 ottobre fu contro di lui
pronunciata la sentenza capitale, la quale, anziché nella piazza del Mercato, per
intercessione della viceregina venne eseguita nel carcere.
Date le condizioni del Napoletano e gli odi che dividevano le classi, queste congiure
erano naturalmente destinate al fallimento. Aspetto più minaccioso e probabilità di
successo ebbero invece quando vennero aiutate o dirette da potenze straniere e italiane in
lotta con la Spagna.
Dopo il trattato di Rivoli dell' 11 luglio del 1635 tra Vittorio Amedeo I di Savoia, Luigi
XIII di Francia, i Gonzaga e i Farnesi, centro di tutti i moti contro la Spagna divenne
Roma perché allora era Pontefice URBANO VIII che all'odio contro gli Spagnoli veniva
aizzato dai suoi nipoti, il cardinale FRANCESCO ed ANTONIO BARBERINI.
Vittorio Amedeo mandò a Roma il cardinale MAURIZIO di SAVOIA, suo fratello, il quale,
insieme col conte GIAMBATTISTA MOMTALBANO, cominciò a lavorare attivamente per
fiancheggiare con una azione nel Napoletano la lega di Rivoli. Scopo era quello di
cacciare gli Spagnoli dall' Italia, le cui spoglie avrebbero dovuto esser divise tra il
duca di Savoia che avrebbe avuto il regno di Napoli, il Gonzaga cui sarebbe stato dato
Milano, e il Farnese che avrebbe ottenuto un ingrandimento del suo ducato. In compenso
dell'aiuto prestato, la Francia doveva avere la cessione di Savoia, Nizza e Villafranca e
i Barberini uno stato nel Napoletano; il Piemonte sarebbe stato governato dal cardinale
Maurizio di Savoia. Il regno di Napoli doveva essere invaso dalle genti del Conestabile
Colonna e di Antonio Barberini con l'aiuto di alcuni baroni, del bandito Pietro Mancino e
di Rodolfo d'Angelo di Altamura.
La congiura tramata da Maurizio non poté però avere effetto perché l'ambasciatore
spagnolo a Roma, marchese di Castel Rodrigo, avuta notizia dei segreti maneggi, mise in
avviso il vicerè di Napoli, il quale ordinò indagini e procedette ad arresti. Un frate
Epifanio Fioravante da Cesena, arrestato in Napoli perché trovato in possesso del piano
della fortezza di Taranto, nel giugno del 1636, fece delle confessioni e così l'azione
stabilita andò a monte; ma anche anche perché il diretto interessato il 7 ottobre del
1637 Vittorio Amedeo lui andava a conquistare il regno dei morti, e gli succedeva il
figlio cinquenne sotto la reggenza della madre.
La congiura fu ripresa nel 1638 col ritorno del cardinale Maurizio a Roma. Si stabilì che
il conte di Montalbano e Pietro Mancino avrebbero iniziato l' impresa impadronendosi il
primo di Gaeta e il secondo di Aquila, ma anche questa volta il marchese di Castel Rodrigo
venne a conoscenza del piano e fu in grado di informare di tutto il vicerè. Una delle
vittime della reazione spagnola fu Giovanni Orefice principe di Sanza, il quale fu
decapitato in Napoli nel 1639. Gli avvenimenti del Piemonte, dove i fratelli MAURIZO e
TOMMASO di Savoia si erano alleati con la Spagna contro la cognata Reggente tutta
asservita alla Francia, e la morte di Urbano VIII, cui successe INNOCENZO X che pendeva
verso gli Spagnoli, diedero alcuni anni di respiro al viceré di Napoli, ma, fatta la pace
Tomaso di Savoia con la Francia, si tornò ad agire ai danni della Spagna in Italia.
Chi dirigeva l'azione politica era il MAZARINO, il potente ministro francese, che nel 1644
riuscì ad accordarsi con il principe Tomaso su queste basi: il principe avrebbe avuto la
corona del regno di Napoli; la Francia sarebbe entrata in possesso di Gaeta e di un porto
dell'Adriatico rinunciando ai diritti della casa borbonica sul reame angioino; nel caso
che si estinguesse il ramo primogenito di Savoia e il ducato sabaudo passasse a Tomaso,
questi avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e la contea di Nizza.
Nel maggio del 1646, Tomaso di Savoia partì con una flotta francese e settemila soldati
per impadronirsi dello Stato dei Presidii, di cui voleva far base per le ulteriori
operazioni contro il Napoletano. I porti di Talamone e S. Stefano vennero facilmente
occupati, ma Porto Ercole, aiutato dalla Spagna che vi aveva mandato Carlo Della Gatta,
resistette e il Savoia dovette allontanarsene dopo un assedio durato dal 10 maggio al 24
luglio. Poi giunti dalla Francia altre navi e un rinforzo di cinquemila uomini, furono
presi e sistemati a difesa Piombino e Porto Longone.
Dopo queste operazioni, la minaccia del Napoletano si profilava gravissima. Il vicerè di
Napoli, duca d'Arcos, per potere resistere ai Francesi, si vide costretto a raddoppiare
gli armamenti, ma questi richiedevano forti spese e il denaro occorrente non poteva
trovarsi che gravando ancora per mezzo di imposte sul paese già impoverito dalla
rapacità spagnola.
Essendo le gabelle tutte vendute e non potendo con esse raccogliere il milione di ducati
votato dal Parlamento, il vicerè decise di rimettere la tassa sulla frutta. Fu questo un
passo falso: la mattina del 7 luglio del 1647, i fruttivendoli della campagna, venuti in
Napoli per vendere la frutta, si rifiutarono di pagare il nuovo tributo; i gabellieri
furono costretti a fuggire; l' Eletto del popolo mandato dal vicerè per calmare gli animi
dovette anch'esso salvarsi con la fuga; in breve il tumulto crebbe e si propagò; alcuni
frati cominciarono a predicare nelle chiese contro il governo spagnolo, cartelloni vennero
esposti nelle vie con scritte e figure che eccitavano alla rivolta e una fiumana di popolo
armato di bastoni si riversò nelle strade gridando minacciosamente.
A placare il tumulto il vicerè mandò il principe di BISIGNANO, che godeva la stima della
plebe; ma senza alcun risultato, il popolo cieco dall'ira non voleva ascoltar consigli e
si dirigeva verso il palazzo del vicerè. Giunta al corpo di guardia della milizia
spagnola, la folla si impadroni delle armi, quindi invase il palazzo e mise a soqquadro
ogni cosa. A stento il vicerè riuscì a scampare alla furia popolare. Rifugiatosi nelle
scuderie, di là passò nel convento di S. Francesco di Paola, poi di notte, travestito da
frate, se ne andò al Castello di Sant'Elmo e quindi in quello di Castelnuovo.
Invano, fallita l'opera del principe di Bisignano, si misero di mezzo il cardinale
FILOMARINO ed altri religiosi; invano lo stesso viceré, forse allo scopo di prendere
tempo, pubblicò un editto togliendo tutti i tributi che erano stati imposti ai Napoletani
da Carlo V in poi; invano concesse l'amnistia per tutti i prigionieri ch'erano stati
liberati dagl' insorti; il popolo non si calmò, s'impadronì di altre armi e di alcuni
pezzi d'artiglieria, assalì le case dei ministri e in breve divenne tanto forte da
sbaragliare alcune compagnie di Spagnoli e Tedeschi uscite a fronteggiarlo. Anima dell'
insurrezione era un giovane pescatore amalfitano, TOMMASO ANIELLO , detto comunemente
MASANIELLO, intelligente, audace, energico, fiero, noto fra la cittadinanza e caro alla
plebe. Il popolo, che lo aveva visto sempre alla testa del tumulto, lo elesse suo capo e
si lasciò ciecamente guidare da lui. Persuaso dal cardinale Filomarino, accondiscese ad
accettare le proposte di pace che il governo spagnolo faceva, e pareva che l' insurrezione
dovesse avere termine quando, sparsasi la voce che una congiura era stata tramata dai
nobili per disfarsi di Masaniello, la rivolta divampò più violenta di prima. Decine e
decine di migliaia di insorti guidati dal loro capo percorsero armati le vie,
saccheggiando e incendiando le case dei nobili che si sapevano partigiani del governo;
barricate vennero innalzate agli sbocchi delle strade; tutte le persone sospette che si
incontravano erano arrestate e passate a fil di spada o, giudicate alla svelta da
Masaniello venivano messe a morte in quella stessa piazza del Mercato che tante teste nel
corso dei secoli aveva visto rotolare dal patibolo; furono decretate taglie per coloro che
erano riusciti a fuggire; si misero guardie alle porte e nei punti strategici della città
e questa si mutò in un enorme bivacco di plebe armata, padrona oramai della grande
metropoli e capace di dettar legge al viceré, chiuso nella fortezza e impotente a domare
la rivolta, la quale sy era rapidamente estesa alle altre provincie del regno.
Intanto l'arcivescovo si adoperava presso Masaniello con il proposito di far tornare la
calma in città e riusciva a indurlo ad andare alla reggia, dove nel frattempo era tornato
il viceré, per accordarsi personalmente con lui. Accompagnato dal popolo, Masaniello si
recò al palazzo, ma, prima di entrare, ordinò ai suoi d'incendiare la reggia e la città
se lo avessero preso a tradimento ed ucciso.
Invece il duca d'ARCOS, che non potendo vincer con la forza voleva giocar d'astuzia, lo
accolse molto onorevolmente, gli fece leggere i capitoli dell'accordo e insieme con lui
fissò un giorno per giurarli in forma solenne, poi per propiziarsi il popolano gli
regalò una collana d'oro e diede al fratello di lui una grossa somma; da ultimo il
cardinale lo condusse sulla sua carrozza nella piazza del Mercato, dove lo aspettava la
folla. Nel giorno stabilito per il giuramento, Masaniello, vestito con abiti ricamati
d'argento, insieme col viceré si recò in Duomo dove lo aspettava il cardinale. Alla
porta del tempio vennero letti e spiegati al popolo i capitoli dell'accordo, quindi essi
furono giurati sul Vangelo e sul sangue di San Gennaro. La calma allora ritornò nella
città, ma i Napoletani non deposero subito le armi, rimasero in attesa che giungesse la
ratifica del re. Era appena cessata la rivolta a Napoli quando violenta scoppiava un'
insurrezione ad Aquila, dove niente si sapeva dei tumulti napoletani e non erano perciò
stati applicati i capitoli concordati con Masaniello. Anche qui la plebe, guidata da un
popolano, GIUSEPPE di SOMMA, percorse le vie armata, saccheggiò, incendiò, e il governo
per calmarla dovette venire a patti e fare delle concessioni. Queste però non furono
mantenute e il popolo tornò a tumultuare; allora fu necessario l' intervento del
Governatore degli Abruzzi, il quale, venuto ad Aquila con un corpo di milizie, ristabilì
l'ordine, fece impiccare ventiquattro capi dell' insurrezione e procedette al disarmo
della popolazione.
Intanto a Napoli il popolo era ancora padrone della città e tutti obbedivano a
Masaniello. Ma l'ebbrezza del potere aveva dato alla testa al pescatore di Amalfi.
Credendo di potersi tutto permettere, cominciò a disdegnare il consiglio degli altri, a
commettere atti di inaudita violenza, a inferocire contro tutti coloro di cui sospettava,
a procedere in modo così crudele e strano da giustificare la credenza, nata tra il
popolo, che il viceré gli avesse propinato una bevanda misteriosa per farlo uscir di
senno. In breve Masaniello si alienò le simpatie dei più assennati cittadini, i quali,
abbandonato il loro capo, si sottomisero al viceré e, fatta causa comune con i nobili,
cominciarono a innalzar barricate per difendersi dalla plebaglia che ancor numerosa
ubbidiva al pescatore.
Ma oramai per lui si avvicinava la fine. La sua potenza, che risiedeva sulla concordia
degli animi e sull'odio verso lo straniero, era minata; per ordine del viceré molti
partigiani del governo si erano mescolati alla plebe e spiavano l'occasione per togliere
di mezzo il feroce tribuno. Questa non tardò a presentarsi: un giorno, mentre in piazza
del Mercato stava arringando il popolo, fu provocato dagli agenti spagnoli un parapiglia e
nella confusione Masaniello ebbe reciso il capo, il quale, posto sopra una picca, venne
portato in trionfo per la città.
Con la soppressione di Masaniello il duca d'Arcos credeva di poter presto diventare
padrone della situazione; ma non fu così: la plebe non disarmò e gli stessi che avevano
abbandonato il tribuno, pentiti, si staccarono dal viceré. Tutto il popolo volle
tributare onori funebri solenni all'ucciso, il cadavere deposto sopra un magnifico
cataletto, venne accompagnato per la città da ottantamila cittadini e da quarantamila
soldati, quattromila tra preti e frati celebrarono le esequie e per tutto il tempo che
durò la cerimonia furono sparate le artiglierie e suonate le campane della città.
Così la rivoluzione, che sembrava dovesse esaurirsi con la fine di Masaniello, tornava a
divampare in tutto il regno; le ire del popolo si appuntavano contro i nobili, che non
solo vennero costretti a pagare i tributi, ma furono dappertutto ferocemente perseguitati;
alcuni di essi si asserragliarono nei loro palazzi, altri cercarono rifugio nelle
fortezze, chi riuscì a scappare uscì dalla città. L'anarchia intanto imperversava; le
artiglierie dei ribelli tuonavano contro i forti; le violenze si moltiplicavano e la fame
si cominciava a far sentire.
Tentò ancora una volta il cardinale di ricondurre la calma, ma fu vana l'opera di
persuasione, dal momento che il popolo, invece di deporre le armi, mostrò di voler dare
un indirizzo più deciso alla rivoluzione e si scelse un capo pieno di senno e di valore
nella persona di don FRANCESCO TORATTO principe di Massa. Questi era uomo d'ordine e se
accettò la carica lo fece per far cessare l'anarchia e per giovare a coloro che in lui
avevano riposto fiducia. Prima sua cura fu quella di venire ad accordi onorevoli e
duraturi col viceré con il quale iniziò trattative. Erano queste a buon punto quando
improvvisamente giunse nelle acque di Napoli una flotta comandata da don GIOVANNI
d'AUSTRIA, figlio naturale di Filippo IV, che la Spagna mandava appositamente per domare
la rivoluzione. Il popolo napoletano, che non era insorto contro il re ma contro il
malgoverno dei ministri spagnoli, fece sapere a don Giovanni che lo avrebbe accolto con
tutti gli onori. Era questa un'occasione propizia per far cessare i disordini e restaurare
l'autorità se colui che doveva coglierla fosse stato ispirato dalla prudenza e da
saggezza politica; don Giovanni d'Austria invece si lasciò guidare da una male intesa
dignità e, anziché approfittare delle buone disposizioni dei Napoletani a suo riguardo,
dichiarò che non sarebbe sceso a terra se prima non fossero state deposte le armi e
ritirati i capitoli convenuti. Le richieste di don Giovanni furono sdegnosamente respinte
dal popolo napoletano, che si organizzò per la difesa. Intanto dalle navi venivano
sbarcate le truppe; quindi veniva iniziato il bombardamento della città. Le milizie
spagnole però non erano in numero sufficiente per impadronirsi della città, la quale,
difesa valorosamente dalla popolazione, resistette tanto da far perdere a don Giovanni
d'Austria la speranza di sottometterla.
Guida sapiente della difesa era don FRANCESCO TORATTO, il quale cercava con una bella
resistenza di piegare a consigli più miti don Giovanni e il viceré. Era però persuaso
che a lungo tale resistenza non poteva durare e si sforzava di persuadere i più accaniti
sostenitori della lotta ad oltranza che il modo migliore di uscire da quella situazione
era di venire ad un accordo onorevole. I suoi consigli di moderazione furono causa della
sua rovina perché il popolo, invece di ascoltarli e di esser grato al principe dell'opera
infaticabile rivolta al bene della cittadinanza, era convinto che don Francesco Toratto
volesse tradire la rivoluzione e lo uccise, sostituendolo con GENNARO ANNESE, bella figura
di popolano, al cui fianco mise MARCANTONIO BRANCACCIO, già capitano dell'artiglieria.
Sotto il governo dell'Annese la rivoluzione napoletana, che prima aveva carattere di lotta
contro l'esoso governo dei viceré, diventò vera e propria guerra nazionale tendente a
scacciare dalla regione gli stranieri. Difatti fu dichiarata decaduta la sovranità della
Spagna e proclamata la repubblica; molte città di provincia, invitate a seguire l'esempio
di Napoli e ad inviarvi i loro rappresentanti, si sollevarono contro i baroni e si diedero
un governo popolare. La repubblica napoletana non aveva veramente grandi probabilità di
sostenersi contro la schiacciante potenza della Spagna. Diversi erano i motivi che la
condannavano all' insuccesso; prima di ogni altro l'odio che irreparabilmente divideva il
popolo dalla nobiltà. Altra causa di debolezza erano le diverse aspirazioni degli stessi
insorti. I più volevano l'assoluta indipendenza del Napoletano, altri volevano darsi un
re, ma di questi fautori della monarchia una parte proponeva di dar la corona a TOMASO di
SAVOIA, un'altra parte, più numerosa, faceva il nome di ENRICO di LORENA, duca di GUISA.
C'era infine l'ANNESE, il quale, sapendo di non poter da solo continuare nella lotta,
aveva iniziato trattative con i ministri di Francia per cedere il Napoletano.
Per un momento ebbe il sopravvento il partito del duca di Guisa, che, sollecitato mentre
si trovava a Roma, si affrettò a recarsi a Napoli, su cui vantava diritti come
discendente di Renato d'Angiò. Enrico di Lorena, appena giunto, pensò a rafforzare la
sua posizione, facendo tacere alcuni avversari ed altri guadagnandone alla sua causa; poi
tentò di allearsi con i nobili per potere meglio lottare contro la Spagna, ma non vi
riuscì e perse il terreno che aveva conquistato perché si alienò le simpatie del
popolo. La sua posizione si fece più critica quando gli si dichiarò apertamente
contrario il ministro francese MAZARINO, sollecitato da Gennaro Annese. Allora il Guisa
giocò l'ultima carta: riuniti in assemblea tutti quelli di cui poteva fidarsi, si fece
nominare generalissimo della repubblica, quindi tolse ogni autorità all'Annese
lasciandogli soltanto - e fece male - il torrione del Carmine. Ma la posizione del duca di
Guisa non migliorò; i nemici, assaliti da lui nelle loro trincee, lo respinsero:
tornarono le discordie fra gli insorti e l'ANNESE per vendicarsi si riavvicinò agli
Spagnoli, avviando trattative segrete con il conte d' OGLIATE, nuovo viceré. L'opera
decisamente nefasta dell'Annese non tardò a dare i suoi frutti: le milizie spagnole,
favorite dal suo partito, entrate a Porta Alba si impadronirono dei quartieri popolari,
occuparono in poco tempo tutta la città e presero prigioniero il duca di GUISA (aprile
del 1648), che prima fu chiuso a Gaeta poi venne trasferito a Madrid e solo parecchi anni
dopo venne liberato.
Pensò allora il Mazzarino di mandare una spedizione contro Napoli per espugnare il forte
di Sant' Elmo per fare insorgere nuovamente la città; e sapendo che ai Napoletani era
bene accetto TOMASO di SAVOIA affidò a lui il comando delle truppe delle operazione; ma
l' impresa per lo scarso numero di milizie messe a disposizione del principe si limitò
all'occupazione di alcuni punti del Golfo, poi il Savoia, rimasto privo di rinforzi, andò
a rifugiarsi a Porto Longone.
Gennaro Annese, accusato da un certo Giuseppe Palumbo, suo acerrimo nemico, di intendersi
con i Francesi, fu arrestato e il 22 aprile del 1648 giustiziato assieme ad altri suoi
quattro compagni. La sua testa, conficcata sopra una picca, fu posta di faccia al torrione
del Carmine, il corpo rimase per due giorni nel luogo dell'esecuzione, poi venne
seppellito. Furono queste le prime vittime della reazione spagnola che infierì tremenda
nella povera città, ricaduta sotto l'artiglio straniero, che già tanto l'aveva
straziata. «Gli animi - scrive il Callegari - erano ancora amareggiati e sconvolti per le
immani vendette, quando sul finire del 1649 il Vesuvio gettò fuoco e Napoli e le terre
vicine furono scosse da frequenti terremoti. « Lo spavento che si sparse per il popolo, e
le notizie, forse esagerate, che giunsero a Roma, parve buona occasione a CAMILLO TUTINI,
un prete napoletano, ardente di amor patrio, sostenitore dell'opera di Masaniello prima,
poi del Guisa, per tentar di ridestare una voglia di guerra contro la Spagna. Da tempo
antico si credeva che ogni eruzione del Vesuvio fosse presagio di straordinari
avvenimenti, come peste, sollevazioni, calamità, morte di principi. Nello stesso tempo si
ritenne presagio funesto la troppa attesa che il sangue di San Gennaro poneva a liquefarsi
o a non liquefarsi del tutto, e nel 1649 s'erano verificati i due paurosi fenomeni. «Il
Vesuvio tuonava e il Santo Patrono negava il consueto miracolo. Quando più viva era
l'attesa e angosciati gli animi, il Tutini fece diffondere in giro una sua scrittura
intitolata: Prodigiosi portenti del Monte Vesuvio, nella quale scagliava una violenta
invettiva contro il governo di Spagna in Italia, allo scopo di poter sollevare un'altra
volta il popolo contro l'odiata dominazione. Ma ormai le popolazioni non avevano più
l'energia necessaria per una risoluta resistenza, esaurita nelle precedenti rivolte
rimaste così infruttuose, ed accettarono passive e rassegnate tutto quello che un
vendicativo dispotismo seppe immaginare per negare i naturali diritti dell'umanità ».
CONGIURE E RIVOLUZIONI IN SICILIA NINO LA PELOSA; GIUSEPPE D'ALESSI; IL VAIRO; G.
PLATENELLA; P. MILANO; F. FERRO.
Contemporanea alla rivoluzione napoletana di Masaniello scoppiava in Palermo quella dell'
ALESSI. La produzione granaria del 1646 era stata scarsissima e si annunziava un inverno
di miseria. Grande incetta di frumento aveva fatta il comune di Messina, ma essendo stato
ordinato che si ponessero in vendita pani più piccoli del consueto, la popolazione aveva
mostrato un gran malcontento, al quale erano seguiti tumulti con saccheggi e incendi di
case, presto repressi dalle autorità con arresti ed impiccagioni.
Anche dal comune di Palermo era stata fatta grande incetta di grano, ma il pane non era
stato rimpicciolito né aumentato di prezzo, quindi un grandissimo numero di poveri di
tutta l'isola era andato nella capitale, la quale a un tratto, nell' inverno, si era
popolata di migliaia e migliaia di mendicanti, scalzi, laceri, smunti, d'ogni età e
sesso, i quali di giorno erravano per le strade chiedendo l'elemosina, di notte si
sdraiavano dietro gli usci, sotto le volte, nei cantoni delle piazze, gemendo per il
freddo e per la fame.
Si sperava che il futuro raccolto avrebbe lenito tanta miseria; ma per le piogge
abbondanti seguite da una lunga siccità quello del 1647 fu peggiore del precedente;
aumentò la disoccupazione, aumentò la miseria, e alla fame si aggiunse una terribile
epidemia, che falciò numerose vittime nella popolazione e, poiché la fame è una cattiva
consigliera, i più indigenti cominciarono a tumultuare per le vie di Palermo e, guidati
NINO La PELOSA, assalirono il palazzo del Senato.
Non era una rivolta pericolosa, ma un atto disperato di poca gente che non sapeva nemmeno
quel che faceva; occorreva però stroncare sul nascere un movimento che poteva trascinare
altri a ribellioni più gravi; le autorità quindi agirono con prontezza, decisione ed
energia; il viceré, spalleggiato dalla nobiltà e dai militi, spiegò tutta la sua forza,
il tumulto fu sedato, si procedette ad arresti e, perché fosse dato un esempio come
ammonizione, Nino La Pelosa ed altri rivoltosi vennero impiccati sulla pubblica piazza..
Dato lo stato delle cose l'esempio non poteva giovare; la miseria era più forte della
paura; morir di fame era peggio che morir per mano del boia, questa morte anzi era
preferibile all'altra perché troncava le sofferenze. Con le impiccagioni i tumulti
cessarono, ma non cessò il malcontento, questo anzi fu aggravato dall'agiatezza dei
ricchi incuranti della grave crisi; non cessarono i brontolii, rinacquero i propositi di
nuove e più volente agitazioni, cui si univa la voglia di vendicare quelli che erano
stati impiccati solo perché avevano cercato di voler sfamarsi: aumentava il desiderio di
infierire contro i nobili che con lo sfoggio del loro lusso pareva che insultassero la
miseria.
Il fuoco covava sotto la cenere e tutto faceva prevedere che presto l' incendio sarebbe
divampato furioso. Giungevano già dalle altre terre dell' isola notizie gravissime,
annunciatrici minacciose della tempesta che s'avvicinava alla capitale: in qualche città,
erano state aperte le carceri e liberati i prigionieri, in qualche altra erano stati
bruciati gli archivi, in qualche altra ancora il popolo aveva dichiarato abolite le tasse;
all'ordine del giorno le aggressioni dei magistrati, gli incendi, i saccheggi.
Le autorità di Palermo si rendevano conto della gravità della situazione, ma non avevano
mezzi per scongiurare lo scoppio della tempesta; le casse erano vuote, i magazzini
pubblici esausti, insufficienti le nuove tasse imposte sulle classi abbienti; intanto la
miseria cresceva e con essa il malcontento e l'agitazione, che ormai nessuno poteva più
contenere.
Giungevano intanto nell' isola le notizie della rivoluzione napoletana che, passando di
bocca in bocca, venivano esagerate e travisate, notizie che suscitavano negli animi della
plebe palermitana un senso di ammirazione e una voglia intensa di emulazione. Nelle case,
nelle vie, nelle osterie, dovunque ci fossero delle persone radunate si commentavano
quelle notizie, si diceva che se a Palermo il popolo fosse, come a Napoli, insorto in
pieno accordo avrebbe avuto ragione del vicerè e della nobiltà, e ci si lamentava la
mancanza di un Masaniello isolano che desse il segnale della rivolta.
Ma il Masaniello a Palermo non mancava. C'era un battiloro di trentacinque anni, figlio di
un tagliapietre di Polizzi, audacissimo, agile e forte, destro nel maneggio della spada,
insofferente al giogo spagnolo, litigioso e manesco, che per nulla era inferiore al
capopopolo napoletano, lo superava anzi per ardire, per capacità organizzativa e per
fermezza di propositi e pareva nato apposta per capitanare una rivolta e farla trionfare
su tutti gli ostacoli.
Si chiamava GIUSEPPE d'ALESSI. Irrequieto ed indocile, aveva avuto a che fare più d'una
volta con la giustizia e caduto nelle mani del Capitano giustiziere, era riuscito a
scappare e a riparare a Napoli, proprio quando in questa città la rivoluzione trionfava.
Era tornato a Palermo con la fantasia eccitata per quanto aveva visto, con gli occhi pieni
della visione straordinaria e tentatrice di tutto un popolo urlante, tumultuante, che
aveva costretto gli arroganti Spagnoli a chiudersi nei fortini e aveva fiaccato
l'alterigia del vicerè. Aveva la voglia di menar le mani, sollevare la plebe affamata,
condurla al saccheggio, alla vendetta, cacciare dall'isola gli stranieri, inaugurare un
governo di giustizia e di equità, che mettesse fine alle prepotenze e alla miseria e
pensasse a dare il benessere alla cittadinanza. Il momento per agire gli sembrava
opportuno; il popolo non aspettava che un uomo audace e risoluto che lo facesse insorgere.
Giuseppe d'Alessi si diede da fare attorno, rivelò i suoi propositi al fratello
Francesco, ad altri parenti, ad amici e conoscenti, soffiò nel fuoco, e una sera,
riunitosi con altri popolani in un'osteria, prese con essi gli accordi per un'azione che
doveva ridare a Palermo la libertà.
Le autorità, in mezzo a tanto fermento, vigilavano; avuta notizia di ciò che si stava
tramando, indagarono e riuscirono a mettere le mani addosso ad alcuni congiurati, i quali
vennero subito mandati al patibolo. Si sperava che anche questa volta l'esempio sarebbe
bastato a impaurire gli animi e a troncare i propositi di rivolta; ma gli agitatori non
erano oramai rappresentati da uno sparuto branco di straccioni; c'era tutto un popolo che
soffriva e fremeva, un popolo invaso dalla collera non si lasciava intimorire dalle
forche.
Quelle esecuzioni furono la scintilla che provocarono l'incendio. Dei cartelli apparvero
sui muri e agli angoli delle vie con scritte sediziose. Una diceva: Et mora mal governo
Rex Hyspaniarum ; un'altra: Viva il re di Spagna, fora gabelle e colletti, non volemo
pagari più nienti; un'altra ancora minacciava il viceré e indicava che teneva nascosto
il grano ed era lui ad affamare la povera gente.
Erano i segni premonitori della tempesta, poi questa scoppiò furiosa. Alla testa di
numerosi popolani Giuseppe d'Alessi si recò nel quartiere dei pescatori, i quali si
riversarono nelle vie unendosi all'agitatore, poi andò in Piazza della Vittoria, dove la
folla lo proclamò capo dell' insurrezione; quindi percorse le vie della città, mentre al
suo passaggio il corteo dei ribelli si ingrossava e diventava sempre più minaccioso.
Quella dimostrazione non era stata prevista dalle autorità e nessun provvedimento era
perciò stato preso; per giunta, essendo giorno festivo, il palazzo del vicerè era
custodito solo dalla metà della guardia spagnola, né si trovavano altri in servizio. La
folla, giunta davanti il palazzo, iniziò una violenta sassaiola contro soldati che si
preparavano a resistere e li costrinse a fuggire disordinatamente.
Fu la prima vittoria. Si gridò Morte agli Spagnoli ! e parve che volessero rivivere dopo
tanti anni le giornate indimenticabili dei Vespri. L'armeria del Senato e quella della
Dogana furono invase e migliaia e migliaia di archibugi, di spade, di picche, di pistole
passarono nelle mani dei rivoltosi, che si impadronirono anche di una grande quantità di
munizioni. Oramai nessuna forza poteva più trattenere i ribelli; il Senato non osava dare
segno di vita; gli altri magistrati tacevano; i nobili erano fuggiti o stavano
asserragliati nei loro palazzi o si erano rifugiati nelle chiese e nei conventi; la città
tutta era in balìa della folla; mentre il vicerè, al sicuro sulle galee, non sapeva nè
poteva fare qualcosa per ristabilire la sua autorità. Il vero padrone della città era
Giuseppe d'Alessi, il quale, dopo le prime violenze, cercò di disciplinare la
rivoluzione. Nominato capitano generale del popolo, egli fece occupare e saldamente
custodire le porte di Palermo, fece puntare sul castello le artiglierie cadute nelle sue
mani, ordinò squadre di ribelli che perlustrassero le vie, assoldò una numerosa
compagnia di uomini armati, vietò che si commettessero disordini ed emanò un bando col
quale ingiungeva che tutti i popolani di età superiore ai quindici anni andassero armati
e senza cappa. La parola d'ordine era: Viva il re e fuori il mal governo
La savia moderazione di Giuseppe d'Alessi fece nascere nel Senato e nella nobiltà, la
speranza di un accomodamento, ma alle prima proposte di trattative i rivoluzionari
fissarono le loro condizioni: osservanza di tutti i privilegi concessi alla Sicilia dal re
Pietro d'Aragona, abolizione di tutte le prammatiche che menomassero questi privilegi,
della confisca dei beni e di quasi tutte le gabelle che gravavano sul popolo siciliano,
formazione di un governo cittadino composto di tre giurati popolani e tre nobili,
esclusione dei non Palermitani dalla Corte Pretoriana e da tutte le altre cariche
cittadino.
Erano condizioni queste che i nobili non vollero accettare, d'altro canto il vicerè non
voleva abbassarsi a far concessioni strappate con la forza dal popolo; furono troncate
quindi le trattative e si cercò di corrompere l'Alessi e di staccarlo dalla plebe con
ricchi regali, offerte di cariche lucrose, titoli magnifici nella speranza d'inebriarlo
come Masaniello e di procurargli l'odio dei ribelli.
Giuseppe d'Alessi però non si lasciò corrompere e pur facendo uso del cocchio, di ricche
vesti e di cappa, rimase fedele alla linea di condotta che si era tracciata. Purtroppo
però la sporca politica seguita dai nobili, ebbe l'effetto di alienare dal capo le
simpatie dei popolani, alcuni dei quali, insospettiti dalle deferenze grandissime con cui
egli era trattato dalla nobiltà o malcontenti per non essere stati messi a parte del
governo o disgustati dalle severe condanne inflitte ai più violenti, cominciarono a
mormorare contro di lui.
Era quello che volevano i nobili e il viceré, i quali continuarono a lavorare abilmente
per approfondire il dissidio tra l'Alessi e il popolo. Il viceré, credendo di poter
piegare gl' insorti, fece sapere che sarebbe ritornato in città, ma per propria sicurezza
sarebbe andato ad abitare nel castello con la scorta di due compagnie di soldati e con
viveri e munizioni per due mesi e pretendeva che fossero tolte le artiglierie che
minacciavano la fortezza.
Fu questa una mossa sbagliata. Il popolo, sdegnato, respinse le proposte, montò sulle
furie ai consigli di moderazione che dava 1'Alessi e minacciò saccheggi e incendi. Si
tornò alla politica disgregatrice, l'unica -per gli spagnoli- che potesse dare qualche
risultato. I magistrati e i nobili della città si riunirono in assemblea e proposero di
nominare Giuseppe d'Alessi sindaco a vita del comune di Palermo con lo stipendio di
duemila scudi all'anno e una guardia di settanta soldati mantenuti a pubbliche spese;
proposero inoltre di conferire al fratello Francesco la carica di Maestro della Città e
di provveditore dell'annona.
Appena le deliberazioni dell'assemblea furono conosciute dalla plebe, questa fu convinta
che il suo capo volesse tradire la causa della rivoluzione; i più scalmanati ( o meglio
gli infiltrati falsi scalmanati) espressero il proposito di toglierlo di mezzo, cosicchè
gli stessi suoi amici se ne allontanarono; la nobiltà continuò a soffiare con maggior
forza per attizzar l'odio ed estendere i sospetti, l'Inquisizione diede una mano al
governo per sbarazzarlo di quel temibile capopopolo e il Senato non trascurò nulla per
riuscire nello scopo che i nemici della rivoluzione volevano raggiungere.
Ciò che affrettò la fine dell'Alessi fu la notizia, sparsa ad arte, di maneggi segreti
del capitano generale con i Francesi per consegnar nelle loro mani la città. La plebe
insorse furente, catturò e uccise Francesco d'Alessi e ne portò la testa staccata su una
picca in giro per le vie; altri compagni del morto furono trucidati, quindi venne la volta
di Giuseppe che fu scannato e anche lui trascinato quasi nudo per le strade. Parecchi
altri fedeli dell'Alessi subirono la stessa sorte e i nobili furono convinti di avere
debellata la rivoluzione; ma il loro contegno spavaldo, sbolliti i furori che avevano
insanguinato la città, fece trasalire la plebe intuendo il tranello in cui era caduta e
si pentì del grave errore commesso. Il rimorso di avere ucciso l'eroe della rivoluzione
fu tale da provocare perfino allucinazioni. La notte stessa del misfatto (22 agosto)
alcuni popolani dissero di aver vista l'ombra dell'ucciso percorrere armata le vie di
Palermo gridando guerra, all'armi, fratelli. Allora la plebe, convinta che il sospetto
prima e la tragedia poi fossero stati ispirati dal demonio, innalzò altari, fece
penitenze e volle che i preti benedicessero Palermo.
Fra il il figlio dello spaccapietre di Palermo e il pescatore di Napoli - scrive il La
Lumia - una singolare somiglianza di destino si rivelava anche nell'ultima fine, di quel
momentaneo abbandono e in quel postumo ritorno del popolo. Ambedue saliti alla fama dal
nulla, re di otto giorni, travolti ambedue nello stesso precipizio. Masaniello, più
giovane e con un carattere più amabile, più ingenuo e più candido; l'Alessi con una
dura tempra, con quella nativa energia del suo isolano paese, con maggiore saggezza ; ma
né questa lo salvò dalle insidie, né quella lo rese forte agli ostacoli. Risoluto nel
cominciare l'impresa, esitava quando a spingerla innanzi per tuffarsi nel sangue. Ambedue
desiderosi di giustizia, generosi, benevoli, falliti nello scopo impossibile di conciliare
fra loro delle inconciliabili cose; la nobiltà ed il popolo, il governo e la piazza, la
rivolta e la fedeltà alla Corona di Spagna; la suggestione di una improvvisa potenza,
incoraggiata dalle oscure manovre, inebriava entrambi, ma almeno l'Alessi non smarriva il
senno, non dava in frenesie. Tuttavia l'uno e l'altro erano ugualmente delle incarnazioni
del popolo, quale nel XVII secolo, sotto il doppia giogo della sovranità straniera e
dell'ordinamento feudale, si riscontrava e si agitava nel mezzogiorno d'Italia.
Intorno a loro c'era Firenze che già aveva veduto MICHELE di LANDO il Gonfaloniere dei
Ciompi, il fiorentino cardatore di lana. Tutti costoro non sono certo grandi uomini; sono
forse figure minori ma sono anch'essi uomini che parlano vivamente nella storia
d'Italia».
Con la morte dell'Alessi la rivoluzione non finì, ma ebbe un colpo da cui non riuscì
più completamente a rialzarsi. Continuò l'agitazione, ma senza direttive precise, priva
d'un capo che guidasse e disciplinasse l'azione del popolo, il quale se da un canto non
voleva cedere alla nobiltà e al vicerè, dall'altro non sapeva certo da solo come
risolvere la questione del pane per la mancanza della farina. Urgeva una composizione con
gli altri ceti e si cominciò a pensare alla pace. Questa venne conclusa con grande
solennità il 5 di settembre, ma non alleviò le condizioni della plebe, che si trovava
nella miseria più grande. La rivoluzione sorta dalla fame finiva con la fame; vane erano
le agitazioni, vana la breve conquista della libertà, vano il sacrificio di tante nobili
vite; le vie di Palermo che avevano sentito le grida di trionfo degli insorti ora
risuonavano sempre di più dei gemiti degli affamati cui facevano eco quelli degli infermi
che gremivano, ospedali, case, strade, campagne.
Risorse in alcuni il desiderio di riaccendere la rivolta perché solo in un cambiamento di
governo si vedeva l'unica via di salvezza; un oriundo calabrese, di nome VAIRO, che aveva
militato sotto la bandiera dell'ammiraglio don Ottavio d'Aragona, tramò le fila d'una
congiura con il proposito di uccidere i ministri, il cardinale, i principali nobili e fare
insorgere tutta l'isola contro gli Spagnoli; ma il complotto fu scoperto e anche il Vairo
con alcuni suoi compagni finì al supplizio e poi impiccato.
Esito migliore non ebbe la congiura di don GABRIELLO PLATENELLA da BIVONA, che si era
messo in segreto rapporto con i Francesi. Anche lui fu scoperto e consegnato al boia e la
medesima sorte subirono gli autori di altre congiure: di una di esse era capo un amico
dell'Alessi, don PIETRO MILANO, che, chiuso in carcere, fu strozzato con molti complici;
di un'altra era promotore il merciaio FRANCESCO FERRO.
Termineremo la rassegna dei tentativi fatti dai Palermitani per scuotere il giogo spagnolo
accennando alla congiura tramata verso la fine del 1649 da due famosi avvocati, ANTONINO
Lo GIUDICE e GIUSEPPE PESCE. Essendo corsa la voce che si era spento a Madrid senza eredi
legittimi Filippo IV, i due illustri giureconsulti pensarono di staccare la Sicilia dalla
Spagna e di darle un proprio re. Questi doveva essere il duca di MONTALTO, uno dei più
ricchi baroni dell' isola. La scelta del sovrano piacque a molti nobili, che aderirono
alla congiura, la quale per la condizione dei componenti avrebbe ottenuto esito felice se
prima di rafforzarsi non fosse stata scoperta e denunciata a Sant'Ufficio. E così sul
patibolo altro sangue di patrioti spegneva ancora una volta le aspirazioni di quanti a
Palermo odiavano l' avido governo degli Spagnoli.
LA RIVOLUZIONE Di MESSINA
Una rivoluzione ben più grave di quella di Palermo scoppiò a Messina nel 1675.
Diversamente dalle altre città italiane sottomesse alla Spagna, Messina godeva di tali
privilegi da potersi considerare quasi solo di nome suddita spagnola. Questi privilegi
erano stati in massima parte concessi alla città ancora da Ruggero il Normanno con
diploma del 15 marzo 1129 per premiarla dell'opera efficace data da nella lotta contro i
Saraceni. In virtù di questo diploma i Messinesi, salvo i casi di Stato, dovevano essere
giudicati, sia in materia civile che criminale, dai loro giudici, dinnanzi ai quali
dovevano esser portate le controversie col fisco; ogni ordine del re, contrastante con la
costituzione della città, non aveva valore ed esecuzione; i pubblici ufficiali di nomina
regia dovevano essere messinesi e di gradimento della città; nel tribunale le
controversie per gli affari marittimi dovevano essere giudicate da un consolato composto
di messinesi nominati dai commercianti e dagli armatori; nelle pubbliche assemblee
convocate dal re per discutere degli interessi della città nessuna deliberazione poteva
prendersi senza la presenza dei magistrati cittadini; i messinesi dovevano essere ammessi
a qualunque ufficio regio; gli ebrei di Messina dovevano godere gli stessi privilegi e le
stesse immunità dei cristiani; il re doveva essere considerato come cittadino coronato di
Messina; i deputati di Messina avevano il diritto di occupare il primo posto nelle
pubbliche riunioni indette dal sovrano; i Messinesi dovevano essere esenti da gabelle in
tutto il regno, non potevano essere forzati a prestar servizio militare e potevano
tagliare nelle foreste regie gratuitamente tutto il legname occorrente per costruire o
riparare navi; infine la sola Messina poteva batter moneta e la sua galea doveva portare
lo stendardo regio.
Quando la Sicilia cadde sotto il dominio degli Spagnoli, questi confermarono a Messina i
suoi antichi privilegi e Filippo IV ne concesse parecchi altri per premiare la città
della fedeltà mostrata durante le rivoluzioni di Napoli e Palermo del 1647. L'autorità
reale era rappresentata da un governatore spagnolo, mandato dal vicerè di Palermo, che si
chiamava straticò ed era il primo dignitario dell' Italia Spagnola dopo i vicerè di
Napoli e Palermo e il governatore di Milano. Il governo della città era affidato al
Senato, composto di quattro nobili e di due membri scelti tra la borghesia e il popolo,
che nei casi straordinari convocava un gran consiglio e mandava, quand'era necessario,
ambasciatori al sovrano che doveva riceverli con gli onori spettanti agli inviati di uno
Stato.
Fin dal 1665 gli ottimi rapporti tra la città di Messina e la Spagna erano stati turbati
a causa di certi privilegi che gli Spagnoli volevano contestare alla città. Questi
dissapori furono aggravati dallo straticò don LUIGI dell' HOIO, venuto con il proposito
di strappare a Messina gli antichi privilegi e di metterla sotto la completa sudditanza
della Spagna. Seguendo la tradizionale politica spagnola, lo straticò fece nascere
rivalità ed odi tra i plebei e i nobili e fu causa del sorgere di due partiti detti dei
Merli e dei Malvizzi. quelli popolani e partigiani della Spagna, questi nobili e difensori
dei diritti della città. Da quando la cittadinanza fu divisa in due fazioni Messina non
ebbe più pace e fu dilaniata da una terribile lotta intestina, che produsse saccheggi,
devastazioni, incendi e fece scorrere molto sangue fraterno; una lotta che raggiunse il
massimo grado di intensità nel 1672.
Infierendo in quest'anno la carestia, il Senato si era avvalso di un antico privilegio che
permetteva alla città di sequestrare le navi cariche di frumento che transitavano per lo
stretto e di impadronirsi del frumento pagandone però il prezzo. Il 26 febbraio del 1672
il Senato aveva tentato di sequestrare dieci vascelli provenienti dalle Puglie e diretti a
Napoli, ma il tentativo era fallito ed aveva fornito pretesto alla plebe d'insorgere
contro il governo di Messina.
Il 30 marzo i Merli assalirono e incendiarono le case dei Senatori, liberarono dalle
carceri circa ottocento detenuti e al grido di Viva Dio ! Maria nostra Signora e Carlo II
e fora mal governo ! diedero addosso ai Malvizzi. La lotta che ne seguì che ebbe
carattere di estrema violenza, finì con la peggio dei Merli e poiché il governo spagnolo
aveva aiutato quest'ultimi, i vincitori, completamente padroni della città, si
ribellarono agli Spagnoli e chiesero soccorso alla Francia.
La richiesta dell' intervento francese alienò da Messina le simpatie delle altre città
siciliane. Queste, scoppiati i primi moti, si erano schierate in favore della consorella,
ma quando seppero che era stato sollecitato l'aiuto di LUIGI XIV, per l'odio che da
vecchia data nutrivano contro il nome Francia, si mostrarono risolute e avverse ai
Messinesi. I quali, decisi a cacciar gli Spagnoli, assalirono il palazzo dello straticò,
espugnarono le fortezze e inalberarono la bandiera francese.
Il 28 settembre del 1674 giunse nelle acque di Messina il cavaliere di VALLEBELLE con sei
vascelli francesi e tre brulotti carichi di viveri e truppe. L'ultimo forte spagnolo che
ancora resisteva, quello del Salvatore, si arrese. I Messinesi speravano che Luigi XIV
avrebbe mandato altri aiuti, invece i viveri inviati presto furono consumati e le navi
ripartirono mentre la città lasciata al suo destino veniva bloccata dalla parte di terra
dal marchese di Bajona e dal mare da una numerosa flotta spagnola.
Il 12 dicembre giungeva a Palermo il marchese di VILLAFRANCA, nuovo vicerè, il quale
cercò di ricondurre Messina all'obbedienza promettendo una generale amnistia; ma gli
insorti si rifiutarono di sottomettersi ed allora mise a ferro e a fuoco la campagna ed
avrebbe ridotto a malpartito la città che già soffriva la fame se il 7 di gennaio del
1675 un'altra squadra francese, forzato il blocco, non avesse vettovagliata Messina.
Un mese dopo si presentava nello stretto la flotta del duca di VIVONNE, attaccava le navi
spagnole, le sbaragliava ed entrava vittoriosa nel porto. Egli stesso il 28 aprile
riceveva a nome del suo sovrano dai Messinesi nella cattedrale il giuramento di fedeltà e
riconfermava loro tutti i privilegi che avevano fino allora goduto. Il duca di Vivonne
sperava di impadronirsi di tutta l'isola, ma furono molto scarsi i suoi progressi: fallì
un suo tentativo contro Milazzo, e Palermo gli si mostrò ostile e lo costrinse ad
allontanarsi; solo Augusta, dopo sette ore di combattimento si arrese.
A sostenere la Spagna, l'Olanda, sua alleata, mandò in Sicilia il prode ammiraglio
ADRIANO MICHELE RUITER con una flotta di diciotto vascelli e dodici altri legni minori. Il
1 febbraio del 1676 una furiosa ed accanita battaglia ebbe luogo proprio nelle acque
davanti a Messina tra gli Olandesi e i Francesi comandati dal Duquesne, ma la vittoria non
fu di nessuno e la notte divise i combattenti. Un'altra sanguinosa battaglia ebbe luogo il
22 aprile nelle acque di Augusta e in essa perì da prode il Ruiter. Miglior successo non
aveva intanto il vicerè che tentava di espugnar Messina da terra e veniva invece
costretto a ritirarsi.
A sua volta il duca di Vivonne cercava di impadronirsi di Palermo. ""...Il 2
giugno del 1676 - scrive il Palmeri - l'armata francese si avvicinò a Palermo con tre
squadre. La prima di nove vascelli, sette galee e cinque brulotti attaccò la battaglia.
Il Vivonne con le altre due seguiva dietro distanziato. Alle dieci del mattino iniziò
l'attacco. Quel mattino spirava un vento greco-levante, che favoriva i Francesi ma era
molto dannoso agli alleati (Spagnoli e Olandesi). Fin dalle prime bordate e con l'incendio
di una prima nave si levò un denso fumo che andava in faccia agli spagnoli impedendogli
la vista. E fin da allora i navigli incominciarono a sparpargliarsi non riuscendo a
seguire i segnali del comandante sull'ammiraglia. Critica la situazione per gli spagnoli
ma propizia per l'ammiraglio francese, questi si spinse avanti con i suoi suoi vascelli e
riuscì a incendiare altri tre vascelli. Allora, la confusione e il disordine divenne per
gli spagnoli drammatico; ogni naviglio invece di cercarsi l'un l'altro, si allontanavano,
cercando di evitare che le fiamme passassero da una all'altra nave, ma così facendo
diventavano ottimi bersagli per i Francesi. Infatti il Vivonne incalzava l'azione, e
spingendosi ancora in avanti andò a centrare con un cannonata la Reale di Spagna, che con
le munizioni che aveva a bordo saltò in aria con spaventevole fracasso, e fece incendiare
e poi affondare due galee, la Padrona di Napoli e san Giuseppe di Sicilia, che le erano
vicine.
Tutto allora divenne apocalittico; ma non solo in mare, ma anche nella città. Il denso
fumo che si era spinto nella vicina città oscurò persino il sole di mezzogiorno;
l'angoscia della caligine era accresciuta dal rimbombo dei cannoni, e fra sprazzi di
schiarite dal bagliore delle navi incendiate, lo scoppio di quelle che saltavano in aria,
dal fischio della palle, e da un generale grido di popolo, mosso dalla pietà di tanti
prodi, che stavano davanti a loro miseramente soccombendo, inoltre c'era l'angoscia di uno
sbarco dei Francesi.
« Sette ore durò la spaventosa scena. Possono appena esprimersi i danni riportati dalle
armate alleate. Vi perirono fra tanti altri i due ammiragli Ivanes e Staen: nove vascelli
e tre galee furono preda delle fiamme e la gran parte dei vascelli olandesi rrimase così
malconcia che poi quando furono riportate in porto c'era di utile solo più i cannoni che
furono poi acquistati dal Senato di Palermo.
E se il duca di Vivonne non raccolse altri vantaggi dalla vittoria, lo si deve più che
pel danno da lui riportato, che non fu lieve, ma per il coraggio del popolo palermitano.
Nel regno precedente, il cardinal Trivulzio, temendo che andassero in mano ai ribelli dei
movimenti popolari, aveva rimosso i cannoni da tutti i bastioni della città e li aveva
riposti la maggior parte nel cortile del palazzo arcivescovile. In quel momento di
pericolo il popolo vi accorse chiedendo a gran voce i cannoni. L'arcivescovo monsignor
Luzana li negò: ma non potendo reggere alla furia popolare, volendo mettersi in salvo si
travestì e abbandonò il palazzo. Prelevati in gran furia i cannoni, il popolo corse a
piantarli su quei bastioni, che allora erano sulla marina, e cominciò a fare un fuoco
così nutrito contro i Francesi che sorpresi da quell'atto improvviso, passò loro la
voglia di metter piede a terra e si ritirarono ».
Al marchese di VILLAFRANCA successe come vicerè di Sicilia il marchese di CASTEL RODRIGO,
sotto il cui governo i Francesi riuscirono ancora a conquistare Melilli, Taormina,
Scaletta e Calatabiano. Ma furono queste le ultime conquiste dei francesi; Luigi XIV
vedendo le grandi difficoltà di strappare l' isola agli Spagnoli ed anche perché si
stava trattando la PACE di NIMEGA tra la Spagna e la Francia, aveva già deciso (ma con la
pace poi costretto) ad abbandonar la Sicilia.
Lo sgombro dei Francesi da Messina ebbe luogo il 16 di marzo del 1678. Il maresciallo La
Feuillade concedette quattro ore di tempo a quei cittadini che volessero lasciar la città
per salvarsi dalle vendette spagnole e cinquemila riuscirono a imbarcarsi. Condotti a
Marsiglia, dopo pochi mesi ne venivano cacciati. Così Luigi XIV trattava un popolo
valorosissimo, che, per sottrarsi al giogo di un tiranno, aveva avuto il torto di
affidarsi ad un altro tiranno.
L' infelice Messina dovette così sottomettersi. Il nuovo viceré conte di Santo Stefano,
assistito dal feroce consultore RODRIGO QUINTANA, trattò la città ribelle con estremo
rigore: abolì la carica di Straticò e la sostituì con quella del governatore militare,
soppresse il senato e in sua vece istituì un magistrato di Eletti; confiscò il
patrimonio della città e ne affidò l'amministrazione ad una Giunta di Stato (ovviamente
Spagnolo); cancellò dall'archivio i privilegi e i diplomi che erano stati concessi;
asportò e inviò in Spagna le pergamene e i preziosi manoscritti greci che il senato
aveva acquistato da Costantino Lascaris; soppresse l'ordine equestre della stella, le due
accademie, l'università e come se ciò non bastasse fece spianare il magnifico palazzo
del senato e, dopo averne fatto arare e cospargere di sale il suolo, ordinò che vi fosse
eretta la statua di Carlo II, fusa con il bronzo della campana grande del Duomo. Messina
peggio di così non poteva finire.
LA GUERRA PER LA SUCCESSIONE SPAGNOLA e L'ITALIA
( 1700 - 1714 )
I PRETENDENTI ALLA CORONA DI SPAGNA - MANEGGI DELLA DIPLOMAZIA EUROPEA - MORTE DI CARLO II
DI SPAGNA - FILIPPO V - LEGA DI VITTORIO AMEDEO II DI SAVOIA CON LA FRANCIA - BATTAGLIE DI
CARPI E DI CHIARI - CONGIURA DELLA MACCHIA - PROGRESSI DEGLI IMPERIALI IN ITALIA -VITTORIO
AMEDEO ABBANDONA LA FRANCIA E SI ALLEA CON L'IMPERO - BATTAGLIE DI CASSANO D'ADDA E DI
CALCINATO SUL CHIESE - INVASIONE FRANCESE DEL PIEMONTE ED ASSEDIO DI TORINO - PIETRO MICCA
- CALATA DI EUGENIO DI SAVOIA IN ITALIA - BATTAGLIA DI TORINO - I FRANCESI SCACCIATI DAL
PIEMONTE - GLI SPAGNOLI PERDONO LA LOMBARDIA - GLI IMPERIALI CONQUISTANO IL REGNO DI
NAPOLI, LO STATO DEI PRESIDII E LA SARDEGNA - PACE DI UTRECHT - TRATTATO DI RADSTADT
--------------------------------------------------------------
I PRETENDENTI ALLA CORONA DI SPAGNA - MORTE DI CARLO II FILIPPO V RE DI SPAGNA - VITTORIO
AMEDEO II DI SAVOIA FA LEGA PRIMA CON LA FRANCIA POI CON L'IMPERO - ASSEDIO DI TORINO -
PIETRO MICCA - BATTAGLIA DI TORINO
Sullo scorcio del secolo XVII regnava in Spagna CARLO II D'ABSBURGO, che era salito sul
trono nel 1665. Essendo senza prole, con lui il ramo absburghese spagnolo era destinato a
estinguersi. Aspiravano alla successione LUIGI XIV di Francia, l' imperatore LEOPOLDO I
d'Austria, il principe elettorale di Baviera GIUSEPPE FERDINANDO e VITTORIO AMEDEO II di
Savoia. Il primo era marito di Maria Teresa, sorella di Carlo II, la quale, sposando il
sovrano francese, aveva per volontà del padre Filippo IV, rinunciato ad ogni diritto alla
successione spagnola; e vi aspirava non per sè, ma per il Delfino; l' imperatore vantava
diritti al trono di Spagna come nipote di Filippo III; Giuseppe Ferdinando era nato dal
matrimonio di Massimiliano II di Baviera con Maria Antonietta, la quale era figlia di
Leopoldo I e di Margherita Teresa, altra sorella di Carlo II questa era stata dichiarata
dal padre erede del trono spagnolo se il fratello fosse morto senza prole, però la
figlia, sposando Massimiliano aveva rinunziato al diritto materno; il duca di Savoia,
infine, era pronipote dell' infante Caterina figlia di Filippo II e moglie di Carlo
Emanuele I.
I più forti pretendenti erano Luigi XIV e Leopoldo I, i quali, dopo lunghe trattative,
erano riusciti ad accordarsi sulla divisione futura dell'eredità spagnola: la casa di
Borbone avrebbe avuto le Fiandre, la Franca Contea, la Navarra, la città di Rosas, il
regno di Napoli, il ducato di Milano, le isole Filippine e le città spagnole della costa
africana; la casa d'Austria avrebbe ricevuto la penisola iberica, la Sicilia, la Sardegna,
lo Stato dei Presidi e l'America spagnola.
Questa divisione però sarebbe venuta a turbare profondamente l'equilibrio europeo ed
avrebbe danneggiato gli interessi dell' Inghilterra, la quale, dovendo tutelare i suoi
possessi marittimi, non poteva permettere che l'America spagnola passasse sotto il dominio
di una grande potenza. Per questo motivo l' Inghilterra si era intromessa nella questione
e nell'ottobre del 1698 aveva fatto sottoscrivere all'Aia un nuovo trattato di divisione,
col quale l'America, la Spagna e le Fiandre venivano assegnate all'Elettore di Baviera, i
regni di Napoli e Sicilia, lo Stato dei Presidii, il Marchesato del Finale e la Provincia
di Guipuzcoa al Delfino di Francia, il ducato di Milano all'arciduca Carlo.
Quando il re di Spagna conobbe questo trattato stipulato a sua insaputa, mosso da vivo
sdegno istituì con testamento segreto suo erede il principe elettorale di Baviera; ma
questi, poco dopo, cessò di vivere a Bruxelles ed allora ricominciarono le pratiche
diplomatiche per una nuova ripartizione dei domini della corona spagnola. Nel 1699 e nel
1700 intenso fu il lavorìo della diplomazia europea, al quale prese anche parte
attivissima il duca di Savoia.
A lui, in un primo tempo, vennero assegnati i regni di Napoli e Sicilia e lo Stato dei
Presidii in cambio dei possessi che aveva al di qua e al di là delle Alpi e che dovevano
esser ceduti alla Francia; poi fu proposto di dargli la Spagna e l'America, da ultimo si
tornò a proporgli il cambio dei suoi stati con Napoli e la Sicilia; ma Vittorio Amedeo
non volle accettare e dichiarò di essere disposto a cambiare soltanto Nizza, la Savoia e
Barcellonetta col Milanese e il marchesato del Finale.
La corte di Madrid protestava, sebbene inutilmente, contro le trattative che venivano
fatte tra gli stati europei; ma intanto era necessario prendere una decisione per la
successione e Carlo II non sapeva decidersi. Finalmente accettò il consiglio datogli
dalla diplomazia francese di rimettere la questione al giudizio di alcuni teologi e
giureconsulti, i quali gli proposero di nominare erede il duca d'Anjou, nipote di Luigi
XIV. Dello stesso parere fu il pontefice Innocenzo XII. Allora Carlo II con testamento
nominò il duca suo erede universale, e, nel caso che questi non accettasse, chiamò alla
successione l'arciduca Carlo d'Austria.
Pochi giorni dopo (10 novembre del 1700) moriva Carlo II e tosto saliva al trono spagnolo
il duca d'Anjou col nome di Filippo V, il quale venne riconosciuto in tutti i dominii
della corona e trovò naturalmente un validissimo sostenitore in Luigi XIV. La corte di
Vienna, invece, impugnò la validità del testamento di Carlo II e, poichè le proteste
sarebbero state inutili e non c'era da sperare in possibili trattative col monarca
francese, cominciò a far preparativi di guerra e si adoperò attivamente per cercare
alleati contro la Francia e il nuovo re di Spagna.
In breve contro Filippo V e Luigi XIV si costituì una potente lega di cui fecero parte l'
Inghilterra, l'Olanda, 1' imperatore Leopoldo e vari principi della Germania; in favore
della Francia e della Spagna si schierarono la Baviera e il Portogallo. Degli stati
italiani, il ducato di Parma, Venezia e Genova si dichiararono neutrali, il ducato di
Modena, retto da Rinaldo d'Este cognato di Leopoldo, si pronunciò per la parte imperiale,
Carlo IV duca di Mantova, il duca di Guastalla, il principe di Castiglione e il duca della
Mirandola presero le parti di Luigi XIV. Vittorio Amedeo di Savoia, sollecitato
dall'imperatore e da Luigi XIV, credette opportuno di schierarsi con la Francia, col
proposito però di abbandonarla nel momento in cui l'avesse ritenuto necessario. Il 6
aprile del 1701 egli sottoscrisse con Luigi XIV un trattato di alleanza offensiva e
difensiva impegnandosi a mettere in campo ottomila fanti e duemilacinquecento cavalli e
ricevendo il grado di generalissimo di tutte le forze franco-ispane che avrebbero operato
in Italia.
Malgrado l'alleanza del duca Vittorio Amedeo di Savoia, Luigi XIV e Filippo V si trovavano
in istato d'inferiorità rispetto alla lega e decisero perciò di tenersi prudentemente
sulla difensiva su tutti i punti fuorchè dal lato della Baviera; gli alleati invece,
all'inizio delle ostilità, mossero risolutamente all'offensiva sul fronte dei Paesi Bassi
e su quello italiano.
L'esercito anglo-olandese che operava nei Paesi Bassi era comandato da un valentissimo
generale, il Marlborough, capo del partito wigh; spingendosi lungo la Mosa, cacciava
davanti a sè il maresciallo di Boufiiers, al quale era affidata la difesa di quella
frontiera, ed occupava parecchie piazze.
L'esercito che doveva operare in Italia era capitanato dal principe EUGENIO DI SAVOIA, il
quale aveva sotto i suoi ordini il principe di Commercy, Guido di Stahremberg, il principe
di Vaudemont e il generale d'artiglieria Bórner. Alla testa di trentamila uomini, Eugenio
di Savoia discese dal Trentino nel Veronese e senza che il maresciallo CATINAT con i suoi
sessantadue battaglioni di fanteria e ottantatrè squadroni di cavalleria potesse
impedirglielo, passò l'Adige sotto Legnano, tra Castelbaldo e Villesbona, quindi, diviso
in due l'esercito, con una parte prese a viva forza Castagnaro e il 9 luglio del 1701
sconfisse il nemico a Carpi, con l'altra penetrò nel territorio di Ferrara, passò il
Mincio e costrinse i Francesi a ritirarsi oltre l'Oglio.
A rialzar le sorti della guerra Luigi XIV mandò in Italia il maresciallo di VILLEROY con
l'ordine di arrestare i progressi del nemico unendosi alle truppe di Vittorio Amedeo. Ma
il Villeroy non era uomo da stare a confronto con il principe Eugenio e il 7 settembre,
venuto a battaglia con l'esercito imperiale a Chiari di Brescia, fu duramente sconfitto.
Della disfatta, dovuta esclusivamente alla sua inettitudine, egli tentò di scolparsi con
il suo sovrano accusando il duca di Savoia di segrete intese col nemico.
Mentre si iniziava la guerra nell'alta Italia, a Napoli si tramava una congiura per
abbattere l'odiato dominio spagnolo, che la condotta del duca di Medina Coeli, vicerè,
aveva reso intollerabile. Uno dei capi era TIBERIO CARAFA, il quale, insieme con gli
altri, si rivolse per aiuto all' imperatore, chiedendo che concedesse ai Napoletani come
re l' arciduca Carlo d'Austria, suo figlio. Nell'attesa che truppe imperiali scendessero
in. soccorso dei congiurati, questi avevano stabilito di impadronirsi di Castelnuovo, del
porto, delle galee, dei magazzini e dell'armeria.
Leopoldo I acconsenti alle richieste dei congiurati e allo scopo di prendere accordi
sull'azione da svolgere mandò presso di loro don GIULIANO CAPECE, che militava sotto le
sue bandiere con il grado di Colonnello, il SASSINET, segretario dell'ambasciata imperiale
a Roma, e don Jacopo GAMBACORTA, principe della Macchia, dal quale la congiura prese nome.
Si stabilì che l'impresa sarebbe stata tentata il 6 ottobre del 1701, nel qual giorno si
doveva uccidere il vicerè, occupare di sorpresa i castelli della capitale ed acclamare re
l'arciduca Carlo; ma, sebbene gli accordi fossero stati presi con gran segretezza, il
Medina Coeli ebbe sentore della congiura e potè prendere le misure necessario a
sventarla. I congiurati erano convinti di riuscire nell' impresa anticipando la data della
sommossa, ma la congiura fallì lo stesso e i capi dovettero fuggire per non cadere nelle
mani del vicerè, al quale non riuscì difficile, con provvedimenti di estremo rigore, di
sedare il tumulto.
Intanto, nell'Italia settentrionale, la guerra continuava con la peggio per i Francesi.
Borgoforte, Guastalla, Ostiglia, Ponte Molino, Mirandola, Canneto e Marcaria erano cadute
in potere degli imperiali, i quali avevano anche occupato Borgo S. Donnino, Busseto,
Roccabruna, Cortemaggiore, Brescello ed altri luoghi; Mantova, in cui si trovavano alcune
truppe francesi comandate dal Tessè era stata bloccata e il principe Eugenio di Savoia
aveva tentato di entrare a Cremona, dove il Villeroy aveva posto i quartieri d'inverno,
riuscendo a far prigioniero il maresciallo.
Questi successi degli imperiali avevano fortemente scosso in Italia la posizione dei
Francesi, i quali, per di più, cominciavano a preoccuparsi Per il contegno del duca di
Savoia. Questi, infatti, irritato contro il Villeroy che lo aveva calunniato presso Luigi
XIV, dopo la battaglia sfortunata di Chiari se ne era tornato con le sue truppe in
Piemonte non tenendo nascosto il suo risentimento verso i Francesi che avevano mostrato di
non volerlo considerare come generalissimo. Questo risentimento divenne più forte quando,
venuto in Italia Filippo V, Vittorio Amedeo, che s'era recato ad Acqui ad incontrarlo,
venne da lui trattato senza alcun riguardo. Offeso dalle umiliazioni che aveva dovuto
subire e non volendo sottostare agli ordini del re, il quale, violando i patti
dell'accordo franco-piemontese, intendeva assumere il comando supremo degli eserciti
operanti in Italia, il duca di Savoia se ne tornò a Torino, deciso a non più partecipare
personalmente alle operazioni militari e a passare al più presto dalla parte degli
imperiali.
Per fronteggiare la situazione pericolante in Italia, Luigi XIV nella primavera del 1702
mandò numerose truppe, alla testa delle quali mise il duca di VENDÒME, che doveva
prendere il posto del maresciallo Villeroy. A Cremona, il Vendome ebbe un colloquio con
Filippo V e d'accordo con il sovrano stabilì di occupare subito Brescello e Guastalla per
soccorrere Mantova assediata da Eugenio di Savoia. Questi però, prevedendo il disegno del
nemico, aveva rinforzato le guarnigioni di quelle piazze; ordinato al suo generale
Annibale Visconti di sorvegliare attentamente le mosse del Vendòme, evitando di venire a
battaglia con lui; ma il Visconti si lasciò sorprendere a Santa Vittoria dai
Franco-Ispani e, sconfitto, si diede a fuga disordinata lasciando sul campo numerosi morti
e parte dei carriaggi che caddero nelle mani dei vincitori.
La vittoria del Vendóme rendeva pericolosa la situazione degli Imperiali intorno a
Mantova perchè, guadagnato il Po, alle spalle potevano i Francesi tagliar loro la
ritirata verso le Alpi. Per evitare la trappola Eugenio di Savoia tolse l'assedio da
Mantova e si fortificò a Borgoforte, mentre il nemico occupava Reggio, Carpi e Modena e
minacciava Guastalla e Suzzara ch'erano in potere degli Imperiali.
Data la vicinanza dei due eserciti una battaglia era inevitabile: essa fu combattuta a
Suzzara nell'agosto del 1702 e fu sanguinosissima; i Francesi sostennero con molto vigore
l'urto delle ali imperiali, comandate, la destra dal principe di Commercy, la sinistra
dallo Stahremberg, ma stavano per essere travolti al centro dall'impeto della cavalleria
nemica e dal fuoco terribile dell'artiglieria quando Filippo V e il Vendóme con abili
mosse rialzarono le sorti pericolanti del loro esercito. La battaglia ebbe termine senza
la vittoria di alcuno dei combattenti; ma Eugenio di Savoia credette opportuno
allontanarsi e, lasciate in balia dei Francesi Guastalla, Suzzara e Borgoforte, andò a
porre il campo oltre il Mincio.
Dopo la battaglia di Suzzara la guerra in Italia subì un rallentamento; cominciò invece
a svolgersi con grande furore in Germania, dove la fortuna arrise ai Francesi comandati
dal generale Villars, il quale, congiuntosi col duca di Baviera dopo aver cacciati oltre
il Reno gli imperiali e averli sconfitti a Friedlingen, entrava a Innsbruck, mentre il
duca di Vendóme marciava su Trento per unirsi con lui e gettarsi insieme contro Vienna.
Sebbene la guerra non volgesse propizia per l' impero, il duca di Savoia si manteneva nel
proposito di unirsi alla lega contro Luigi XIV. Fin dal febbraio del 1702 egli aveva
iniziato trattative segrete con l'imperatore chiedendo il Monferrato e il Milanese,
eccettuate Mantova e Cremona, che sarebbero rimaste all' impero, e cedendo ai Gonzaga la
Savoia. Le sue richieste non vennero accettate; gli si offrirono invece Alessandria e i
feudi delle Langhe e Valenza, che Vittorio Amedeo avrebbe accettato se gli avessero dato
anche Novara e la Valsesia.
Ma neppure queste proposte vennero accolte; infine al duca di Savoia si propose di dargli
il Monferrato, l'Alessandrino, Valenza, la Lomellina e la Valsesia e di riconfermargli il
dominio sulle Langhe. Su queste basi venne stipulato, l' 8 novembre del 1703, un accordo
col quale Vittorio Amedeo s'impegnava di non rifare le fortificazioni di Casale e l'
imperatore prometteva di aiutare il duca a conquistare le terre possedute dalla Francia al
di qua del Monginevro. Vittorio Amedeo conservava gli eventuali diritti di successione al
trono di Spagna, avrebbe ricevuto alla conclusione della pace il territorio di Vigevano e
le cinque terre nel Novarese e avrebbe tenuto per sè le eventuali conquiste fatte nel
Delfinato e nella Provenza mentre la Casa d'Austria avrebbe tenuto quelle fatte nella
Franca Contea e nella Borgogna. L' Inghilterra e l'Olanda garantivano l'osservanza dei
patti.
Luigi XIV, avuto sentore del trattato concluso dal duca di Savoia, ordinò al Vendóme di
arrestare tutti i piemontesi - oltre diecimila - che militavano sotto le bandiere di
Francia e di marciare con l'esercito verso il Piemonte. Allora Vittorio Amedeo II
dichiarò guerra al potente monarca francese, affermando di non voler più rimanere in
un'alleanza che gli altri avevano sempre violato e dicendosi disposto a morire con le armi
in pugno pur di non essere ancora umiliato ed oppresso.
La dichiarazione di guerra fu accolta con gioia dai sudditi del duca, i quali, per l'odio
che nutrivano contro i Francesi, si sobbarcarono volentieri a sostenere le ingenti spese e
a sopportare i danni di una pericolosa campagna. Dalla Lega vennero a Vittorio Amedeo
aiuti di denaro e di soldati: l' Inghilterra e l'Olanda gli mandarono centomila scudi, l'
impero gl' inviò un contingente di truppe comandato dallo Stahremberg.
Ben presto il Piemonte provò gli orrori della guerra: due eserciti francesi lo invasero,
uno al comando del duca di Vendòme, l'altro al comando del conte di Tessè e nell'estate
del 1704 se ne aggiunse un terzo, capitanato dal duca de la Feuillade, il quale, varcato
il Moncenisio, marciò contro Susa e dopo sei giorni la occupò. Nel medesimo tempo il
Vendóme espugnava Vercelli, ne distruggeva le fortificazioni e faceva prigioniero il
presidio composto di tredici battaglioni e di cinquecento cavalli, impadronendosi anche
dell'artiglieria e delle munizioni.
Alla presa di Vercelli seguì quella d'Ivrea, della Val d'Aosta e della fortezza di Bard,
dopo di che l'esercito del Vendòme potè congiungersi con quello del de la Feuillade.
Anche il castello di Nizza e Monmeliano, ultima fortezza della Savoia che ancora
resisteva, caddero nelle mani dei Francesi; Verrua seguì la sorte delle altre e al
principio del 1705 altro non rimase di tutti i suoi stati a Vittorio Amedeo che Torino,
all'assedio della quale mosse il nemico con tutte le sue forze.
Mentre in Piemonte la guerra procedeva male pel duca di Savoia, negli altri fronti i
collegati riportavano clamorosi successi contro le armi di Luigi XIV e di Filippo V
Ad Hochstàdt l'elettore di Baviera e i marescialli francesi Marsin e Tallard, il 13
agosto del 1704, venivano gravemente sconfitti dalle forze unite di Eugenio di Savoia e
del Marlborough lasciando sul campo dodicimila tra morti e feriti e nelle mani del nemico
l'artiglieria, le bandiere, i bagagli e quattordicimila prigionieri: tra questi il
maresciallo Tallard. Nei Paesi Bassi inolte il Marlborough batteva i Francesi a Ramillies
e nella Spagna Filippo V era sconfitto dall'esercito dell'arciduca Carlo d'Austria e dalla
flotta dell'Inghilterra, la quale impadronendosi di Minorca, Porto Mahon, e Gibilterra,
iniziava la sua politica mediterranea.
Perché la guerra potesse procedere vittoriosamente per la Lega in tutti i fronti
occorreva mandare in Italia grandi rinforzi che liberassero il duca di Savoia dalla grave
situazione in cui si trovava. Dietro consiglio dell'Inghilterra e dell'Olanda, l'
imperatore Francesco I, successo al padre Leopoldo, mandò in Italia un forte esercito al
comando del principe Eugenio, il quale, sceso dalle Alpi, puntò verso l'Adda. A
contendergli il passo il duca di Vendóme, che a Cassano, il 16 agosto del 1705, ingaggiò
battaglia con gli imperiali. Durissimo fu il combattimento, che, cominciato nelle prime
ore pomeridiane, terminò al tramonto; circa ottomila uomini caddero sul campo e numerosi
furono quelli che perirono annegati nell'Adda; fra i morti si contarono il principe
Giuseppe di Lorena e i generali Leiningen e Bibra.
La vittoria non fu di nessuno; ma gl'imperiali non riuscirono a passare l'Adda e andarono
ad accamparsi nel territorio di Treviglio. La battaglia di Cassano fece comprendere al
principe Eugenio che con le forze di cui disponeva non era possibile cacciare fuori il
nemico dal Piemonte; fece quindi ritorno in Austria per procurarsi altre truppe, lasciando
al comando dell'esercito rimasto in Italia il generale Reventlov.
Questi, nell'aprile del 1706, mosse contro i Francesi, ma a Calcinato sul Chiese venne
sconfitto e si ritirò a Gavardo ad aspettarvi il ritorno di Eugenio di Savoia. Dopo la
vittoria di Calcinato il duca di Vendóme si proponeva di gettarsi su Torino, quando venne
da Luigi XIV richiamato in Francia per essere impiegato nei Paesi Bassi contro il
Marlborough.
A succedergli nel comando dell'esercito operante in Italia, in attesa che giungesse il
duca d'Orléans, fu chiamato il maresciallo Marsin, lo sconfitto di Rochstàdt, il quale,
premuto dalle truppe imperiali, non seppe far di meglio che ritirarsi lentamente dalle
posizioni conquistate per andarsi a congiungere col de la Feuillade, che già aveva
incominciato l'assedio di Torino.
Nella primavera del 1706 la capitale del Piemonte era quasi circondata e stretta da ben
sessantotto battaglioni francesi di fanteria e ottanta squadroni di cavalleria;
centoventotto cannoni di grosso calibro e cinquanta mortai lanciavano incessantemente
proiettili contro la cittadella, i bastioni e le ridotte di porta Susina e del Soccorso.
Torino, dotata tutt' intorno di solide fortificazioni, aveva viveri e munizioni per
parecchi mesi, era dotata di trenta cannoni e ventiquattro mortai, che controbattevano
egregiamente il tiro degli assediati, ed era presidiata da millecinquecento soldati di
cavalleria e da ventitrè battaglioni di fanti, dei quali solo sei austriaci.
Vittorio Amedeo II, invece di rimanere inoperoso nella sua capitale, in attesa che gli
eserciti della lega entrassero nel Piemonte per cacciarne i Francesi, uscì con un forte
corpo di milizie col proposito di tenere aperte le vie di comunicazione, rifornire la
città di viveri e munizioni e nello stesso tempo stancare il nemico molestandolo
continuamente. Il de la Feuillade, appena vide il duca allontanarsi da Torino, gli corse
dietro, sperando di farlo prigioniero e terminare così la guerra; ma Vittorio Amedeo non
era uomo da lasciarsi cogliere alla sprovvista: con celerissime mosse fuggiva agli
inseguimenti; abbondantemente informato dai contadini, eludeva e sventava gli agguati del
nemico; piombava improvvisamente sulle retroguardie francesi o su schiere nemiche lontane
dal grosso e le sbaragliava; intercettava i rifornimenti e catturava le colonne che
recavano le vettovaglie.
Mentre il duca percorreva la campagna, il presidio di Torino sosteneva vigorosamente
l'assedio. Il comando supremo delle forze assediate era tenuto dal conte Daun, il governo
della città dal marchese Isnardi di Caraglio, che si era distinto nella difesa di Nizza,
la cittadella era governata dal barone della Rocca d'Allery, che aveva valorosamente
difeso la fortezza di Verrua; sopraintendente alle fortificazioni era il Bertola;
coadiuvavano il marchese Isnardi i due sindaci della città: il conte di Valfenere e
l'avvocato Broccardo.
Durante il memorabile assedio tutta la cittadinanza, senza distinzione di sesso, di ceto e
di età, diede bellissime prove di costanza, di fede, di patriottismo e di valore; molti
cittadini che presero le armi riuscirono a formare otto battaglioni che resero preziosi
servigi alla difesa; il clero, infiammato dall'ardente parola dell'arcivescovo Vibò e
dall'esempio del padre Sebastiano Valfrè, si prodigò ammirevolmente in atti di pietà;
gli orfani e i poveri degli ospedali diedero la loro opera negli scavi e nel trasporto
delle munizioni; numerose donne furono impiegate a trascinar fascine od altro nei luoghi
battuti dalle artiglierie nemiche, mostrando grande coraggio e sprezzo del pericolo.
Si combatteva di giorno e di notte; i Francesi sferravano frequenti e vigorosi assalti ai
bastioni, ma sempre venivano sanguinosamente respinti; piovevano i proiettili nella città
recando strage e rovine, ma il coraggio dei difensori non venne meno un solo istante e
quando il nemico, visti inutili tutti i tentativi di prendere a viva forza la città,
cominciò a scavar mine e gallerie, gli assediati non si sgomentarono e risposero scavando
altre gallerie e alle mine opponendo contromine.
Enumerare tutti gli atti di valore dei Torinesi sarebbe lungo: valga per tutti quello del
biellese Pietro Micca, che, col sacrificio della propria vita, salvò la patria.
Era la notte del 23 agosto del 1706. Per il giorno dopo il duca d'Orléans, che era giunto
con grandi rinforzi di truppe francesi, aveva ordinato un assalto generale. Quella notte,
come sempre, gli assediati facevano buona guardia per impedire che i nemici tentassero
delle sorprese dalle numerose brecce aperte nelle mura e dalle gallerie sotterranee. In
una di queste gallerie scavata presso la porta del Soccorso vigilavano alcuni soldati. Sul
far della mezzanotte essi videro quattro granatieri francesi penetrar silenziosamente nel
sotterraneo. Affrontarli e spacciarli a colpi di daga fu questione di pochi minuti; tre
altri granatieri venuti dopo seguirono la sorte dei primi, ma dietro di loro vennero altri
ed ebbero ragione dei difensori, poi occupata la galleria, si diedero a tempestar di colpi
una porta che metteva in comunicazione con un'altra galleria di contromina.
Dietro la porta stavano Pietro Micca e un soldato. L'oscuro minatore pensò di correre
alla porta del Soccorso per avvisare del pericolo i soldati che vi stavano di presidio,
ma, visto che gli sarebbe mancato il tempo, fatti pochi passi tornò indietro. I Francesi
intanto si affaccendavano dietro la porta per abbatterla. Pochi minuti ancora e questa
sarebbe stata divelta e i nemici avrebbero fatto irruzione entro la città. Una sola cosa
si poteva tentare per impedire il passo ai Francesi: dar fuoco ad una mina preparata
dietro la porta. Pietro Micca sapeva che era impossibile scampare alla morte, pure non
esitò un istante pur di salvare la città. Al soldato che gli stava vicino e che non gli
sembrava troppo svelto disse: levati, sei più lungo di una giornata senza pane; lasciami,
salvati. Altri affermano che aggiungesse: raccomanda al governatore i miei figliuoli e la
mia moglie perchè fra pochi minuti non avranno più nè padre nè marito.
Il soldato si pose in salvo; Pietro Micca allora diede fuoco alla mina e questa,
scoppiando fragorosamente, seppellì lui e parecchie centinaia di granatieri francesi che
già avevano occupato il terreno sovrastante. Al rumore, accorsero numerosi soldati
piemontesi, i quali, postisi a guardia di quel luogo, impedirono che i nemici,
approfittando dello scompiglio e della rovina, tentassero di penetrare dentro Torino.
Il giorno dopo, com'era stato deciso, il duca d'Orléans diede con tutte le sue truppe
l'assalto alla città. Lo sforzo maggiore del nemico venne fatto contro la ridotta di
porta Susina, la quale sarebbe senza dubbio caduta in potere degli assalitori se non si
fosse ripetuto l'eroico atto di Pietro Micca. I minatori, che stavano di guardia di quel
baluardo, visto il pericolo, diedero fuoco ad una mina che fece saltare in aria un gran
numero di Francesi che si trovavano presso la ridotta, costringendo a fuga precipitosa i
superstiti.
Calava intanto con poderosi rinforzi imperiali il principe EUGENIO DI SAVOIA. Per giungere
nel Piemonte egli doveva attraversare una vasta regione occupata dai nemici, che, in campo
aperto o dalle fortificazioni, potevano ostacolarlo potentemente e impedirgli di giungere
in tempo a salvare Torino; ma il grande generale, con un'abilissima marcia che rappresenta
una delle pagine più belle della sua vita militare, seppe evitare tutti gli ostacoli e
congiungersi con il cugino Vittorio Amedeo che si trovava accampato a Carmagnola. Questi,
quando seppe dell'avvicinarsi del principe, gli andò incontro a Villastellone, e tutti e
due, unite le loro forze che sommavano a diecimila cavalli e ventiquattromila fanti,
andarono a mettere il campo tra Chieri e Moncalieri.
Di là i due cugini, seguiti da uno stuolo di ufficiali, salirono sul colle di Superga per
dare l'annunzio del loro arrivo alla città assediata, osservare l'accampamento nemico e
stabilire da qual parte avrebbero attaccato i Francesi. I quali, appena ebbero notizia
dell'arrivo dell'esercito imperiale, riunirono un consiglio di guerra. Diversi furono i
pareri dei capi: il duca d'Orléans e il de la Feuillade proponevano che si assalisse il
principe Eugenio in campo aperto, il maresciallo Marsin ed altri erano del parere di
aspettar nelle trincee l'assalto dei nemici. Prevalse quest'ultimo consiglio.
All'alba del 7 settembre del 1706 tutto l'esercito austro-piemontese mosse all'assalto del
campo trincerato dei Francesi. L'ala sinistra, operante dalla parte della Stura, era
comandata da Vittorio Amedeo, l'ala destra sotto il comando di Eugenio di Savoia operava
dalla parte della Dora Riparia. Anche le milizie assediate in Torino vollero prender parte
alla battaglia e dieci battaglioni, guidati dal conte Daun, uscirono dalla porta Susina e
si gettarono sul nemico mentre i tetti delle più alte case si gremivano di gente
desiderosa di assistere al combattimento che doveva decidere delle sorti della città.
Aspra oltre ogni dire fu la battaglia. I Francesi si difesero con grande bravura
fulminando gli assalitori con un fuoco nutrito di moschetteria e con i cannoni caricati a
mitraglia e più volte respinsero gli austro-piemontesi che con furore ritornavano
ripetutamente all'assalto. Ma l'impeto dei confederati alla fine ebbe ragione
dell'ostinata resistenza, francese. Vittorio Amedeo, caricando coni suoi piemontesi il
nemico, ne travolse rovinosamente le difese e irruppe nel campo. Dalla parte della Dora i
Francesi fecero più lunga resistenza, ma quando seppero che dall'altro lato i
trinceramenti erano stati rotti e superati, si ritrassero disordinatamente indietro e,
dopo aver tentato un supremo sforzo per rialzare le sorti della battaglia, completamente
battuti si diedero alla fuga, incalzati fino ad Avellana e decimati dai montanari nel
ripassare le Alpi.
Grande fu il bottino che fecero i vincitori: caddero nelle loro mani oro, argento, tende,
equipaggi, bagagli, duecento cannoni, centocinquanta mortai, cinquemila bombe,
quindicimila granate, quarantottomila palle, quattromila casse di cartocci, ottomila
barili di polvere, duemila buoi, altrettanti cavalli e cinquemila muli. I morti francesi
furono duemila, senza contare quelli annegati nel Po, i prigionieri seimila, i feriti
milleottocento. Fra i prigionieri si contarono il maresciallo Marsin, che morì il giorno
dopo per le ferite riportate, il generale luogotenente Murcey, il generale di cavalleria
La Bretonnière, i marescialli di campo De Semetere e De Villiers, il brigadiere marchese
de Bonneval, due colonnelli, cinque luogotenenti-colonnelli, tre colonnelli-sergenti di
cavalleria, sessantotto capitani, settantuno luogotenenti, diciotto sottoluogotenenti,
quattordici alfieri e venti ufficiali commissari.
I FRANCESI CACCIATI DAL PIEMONTE GLI SPAGNOLI PERDONO LA LOMBARDIA, NAPOLI, LA SARDEGNA E
LO STATO DEI PRESIDII TRATTATI DI UTRECHT E DI RADSTADT
Il medesimo giorno della vittoria i confederati entrarono a Torino, accolti dalla
popolazione tripudiante. Sul colle di Superga Vittorio Amedeo II, sciogliendo un voto che
aveva fatto alla Vergine, fece poi innalzare una magnifica basilica che ricorda la grande
vittoria sui Francesi e accoglie le tombe di non pochi membri della casa Sabauda.
Dopo la sconfitta di Torino, le sorti delle armi francesi in Italia precipitarono: furono
riconquistate Vercelli, Chivasso, Ivrea, Verrua, il forte di Bard, Crescentino, Pinerolo
ed Asti e dei domini sabaudi non rimasero alla Francia che la Savoia, Nizza, Susa e
qualche altra fortezza.
Anche la Lombardia spagnola fu perduta: i Milanesi si sollevarono e il Vaudemont e il
Medavì, sapendo di non potere resistere ai confederati, che si avvicinavano,
abbandonarono con le truppe la città, lasciando però nel castello una forte guarnigione,
la quale oppose al nemico un'accanita resistenza. Oltre Milano, caddero in potere degli
imperiali Pizzighettone, Tortona e Alessandria, e il Milanese, strappato in breve al
nipote di Luigi XIV, fu dato all'arciduca Carlo, competitore di Filippo V.
Il 13 marzo del 1707, tra il principe Eugenio e il conte Medavì fu concluso un
armistizio, cui tenne dietro un accordo con il quale si dava facoltà alle truppe francesi
di uscire dall' Italia, si stabiliva lo scambio dei prigionieri, si cedeva dai
Franco-Ispani il castello di Milano, venivano sgombrate dai Francesi tutte le piazze della
Lombardia ed era restituita Modena al duca Rinaldo.
I principi italiani che avevano abbracciato la causa di Luigi XIV furono abbandonati alla
loro sorte; così Ferdinando Carlo Gonzaga di Mantova, Ferdinando Gonzaga principe di
Castiglione delle Stiviere e Francesco Pico della Mirandola vennero con decreto imperiale
spogliati dei loro domini. Gli stati e i principi che s'erano mantenuti neutrali dovettero
subire anch'essi le conseguenze della vittoria della Lega: Venezia vide il suo territorio
attraversato dagli eserciti imperiali, il granduca Cosimo III di Toscana fu costretto a
pagare all'impero le spese della guerra e a permettere che Siena fosse considerata come
feudo imperiale, il duca di Parma, sebbene prima delle ostilità avesse inalberato il
vessillo pontificio, dovette pagare ottantacinquemila doppie, nè valsero le proteste e la
scomunica, anzi ebbe l' intimazione dall' imperatore, che lo riguardava come suo vassallo,
di presentarsi a Milano davanti a lui entro quindici giorni per ricevere l'investitura del
ducato.
Neppure il duca di Savoia fu risparmiato quantunque membro della Lega; difatti, con palese
violazione dei patti, gli fu rifiutato il possesso del territorio di Vigevano e negata l'
investitura dei feudi delle Langhe. Anche il Papa ebbe a subire la prepotenza dell'
imperatore, che, considerando Comacchio come suo feudo, lo fece occupare e minacciò di
fare avanzare le sue truppe su Ferrara. Il Pontefice tentò di far valere con la forza i
suoi diritti, poi pensò meglio di scendere ad accordi e nelle trattative avute a Roma col
marchese di Priè, ambasciatore imperiale, segretamente stabilì di riconoscere come re di
Napoli l'arciduca Carlo, che la Lega aveva proclamato re di Spagna col nome di Carlo III,
permise che gli Austriaci presidiassero Comacchio e ridusse a cinquemila gli effettivi
delle proprie milizie.
Continuava intanto la guerra contro Luigi XIV e Filippo V. L' Inghilterra e l'Olanda, che
volevano anche fiaccare sul mare la potenza della Francia, tentarono ma con esito infelice
di impadronirsi del porto e della città di Tolone. Fallito questo tentativo, fu deciso di
muovere alla conquista del regno di Napoli. Il 23 giugno del 1707 il conte Daun alla testa
di cinquemila fanti e tremila cavalli entrò nel reame indifeso e marciò su Napoli che il
7 luglio accolse con gioia l' invasore. Dopo la presa della capitale tutte le altre terre
riconobbero la nuova signoria.
Anche lo Stato dei Presidii e la Sardegna caddero facilmente nelle mani dei Tedeschi,
invece la Sicilia, che era governata dal vicerò Los Balbeses, oppose fiera resistenza.
Dopo l'impresa di Napoli, il Daun fece ritorno in Piemonte e due volte cercò, ma invano,
di cacciare i Francesi dalla Tarantasia e dal territorio di Genova.
Gli alleati intanto rivolgevano tutte le loro forze al nord della Francia. Nell'estate del
1708 il principe Eugenio di Savoia raggiungeva nelle Fiandre il Marlborough e, data
battaglia al duca di Vendóme presso Oudenarde, lo sconfiggeva duramente, costringendo i
Francesi ad una ritirata disastrosa e a sgombrar Lilla che fu occupata dagli alleati.
Con la vittoria di Oudenarde e la presa di Lilla la Francia si trovava esposta all'
invasione nemica. Nelle tristi condizioni in cui versava, Luigi XIV depose il suo orgoglio
e chiese la pace, promettendo che avrebbe indotto Filippo V a rinunziare al dominio di
Napoli, Sicilia e Sardegna e impegnandosi, in caso che il nipote rifiutasse, di ritirare
dalla Spagna tutte le sue truppe. Ma la Lega pretese che il re di Francia cedesse
parecchie piazze sui confini dei Paesi Bassi, restituisse l'Alsazia e scacciasse dalla
Spagna Filippo. Erano condizioni pesanti e inaccettabili per l'arrogante monarca francese
e, troncate le trattative, si diede nuovamente la parola alle armi.
Nel settembre del 1709 un esercito francese comandato dal maresciallo Villars fu sconfitto
a Malplaquet dai confederati, e Luigi XIV chiese nuovamente la pace e trovò l'Olanda e l'
Inghilterra disposte ad accogliere la domanda. Queste due potenze oramai erano stanche
della lunga guerra; avevano inoltre interesse di non continuare nell'alleanza con
l'Austria perchè, essendo morto l' imperatore Giuseppe I senza prole maschile, il
fratello Carlo, suo erede e competitore di Filippo V, sarebbe stato troppo potente unendo
alla corona d'Austria quella di Spagna. A dare una spinta maggiore alla pace concorsero
più tardi le vittorie riportate il 9 e il 20 dicembre del 1710 dal duca di Vendóme sugli
austriaci a Brihuega e a Villaviciosa in Ispagna.
L'Inghilterra mandò in Francia l'abate Gualtier, il quale, insieme col conte di Oxford e
con lord Bolinghroke, iniziò trattative segrete con Luigi XIV, le quali portarono ad un
accordo tra le due potenze concluso con il consenso di Filippo V. Due convenzioni
preliminari vennero sottoscritte: nella prima si stabiliva che Luigi XIV riconoscerebbe
Anna come regina d' Inghilterra e l'ordine di successione nella linea protestante
d'Annover, che si stipulerebbe un nuovo trattato di commercio tra i due Stati, che si
demolirebbe Dunkerque, che gl' Inglesi conserverebbero Gibilterra, Porto Mahon e l' isola
di S. Cristoforo e inoltre si renderebbero loro l' isola di Terranova e la baia di Hudson;
nella seconda si conveniva fra l'altro che Luigi XIV s'impegnerebbe per la separazione
delle due corone di Francia e di Spagna, che cederebbe all'Olanda una linea di piazzeforti
e che non si opporrebbe alla costituzione di una barriera sicura a favore dell' imperatore
e di Vittorio Amedeo II.
Ai confederati venne data comunicazione dei soli articoli che riguardavano la pace
generale e fu stabilito di convocare un congresso in Utrecht per il gennaio del 1712. Il
congresso venne aperto il 23 gennaio. La Francia era rappresentata dal maresciallo
d'Hugelles, dall'abate di Polignac e da Nicolò Mesnager; l' Inghilterra dal vescovo
Robinson di Bristol e dal conte di Stofford; l'Olanda da Vander Dussen e Buys ed altri
diplomatici; l'imperatore Carlo VI dal conte Sinzendoff, dal conte Diego Hurtado di
Mendoza e dal consigliere Consbruke; il Portogallo da Luigi d'Accenha dal conte di
Taronca; il re di Prussia dal conte Doenhoff, dal conte Metternich e dal barone
Biberstein; il duca di Savoia dal marchese Solaro del Borgo, dal conte Annibale Maffei e
dal consigliere Pietro Mellarede.
Il duca di Savoia chiese di esser chiamato, dopo la casa d'Austria, alla successione di
Spagna, che gli fossero restituite tutte le terre occupategli durante la guerra, che Luigi
XIV gli cedesse Fenestrelle, Exilles, Castel Delfino, Monte Delfino, il distretto di
Brianeon, la valle di Queiras, il forte di Barreaux, alcune terre oltre il Rodano e
Monaco, che fossero rispettate tutte le cessioni fattegli da Leopoldo I col trattato del
1703, e che gli fosse infine permesso di fortificare i luoghi cedutigli.
Anche gli altri stati italiani presentarono le loro richieste al congresso: Venezia
domandò di esser indennizzata dei danni sofferti, i duchi di Guastalla e di Mirandola di
essere rimessi nei loro stati, il duca di Parma chiese di succedere alla corona granducale
di Toscana all'estinzione della casa medicea; Gian Gastone de' Medici domandò come
indennizzo i porti del Senese.
L' imperatore pretendeva per sé non solo il possesso della Spagna, ma anche l'Alsazia e
gli acquisti che la Francia aveva fatti con i trattati di Miinster, di Nimega e di
Ryswick; ma queste richieste erano inaccettabili da parte di Luigi XIV, il quale,
prometteva di riconoscere Carlo VI, il re di Prussia e l'elettore di Annover, si impegnava
di dare ogni garanzia perché Filippo V non fosse mai re della Francia e della Spagna e
delle colonie americane.
Non potendosi venire ad un accordo il congresso fu sospeso, ma continuarono le trattative
tra Londra e Parigi e il 22 giugno del 1712 la Francia e l'Inghilterra stipularono un
armistizio di sei mesi, impegnandosi di fare tutto quello ch'era possibile allo scopo di
procurare la conclusione della pace generale. L'Inghilterra riuscì di convincere Filippo
V ad accontentarsi della Spagna e dell'America e a cedere la Sicilia a Vittorio Amedeo di
Savoia, ma Carlo VI rifiutò di accettare le disposizioni relative alla Sicilia e mandò
un esercito contro i Francesi. Questi però, guidati dal Villars, rimasero vittoriosi alla
battaglia di Denain combattutasi nel luglio del 1712.
Carlo VI temendo che i suoi antichi alleati gli si voltassero contro, nel marzo del 1713
sottoscrisse ad Utrecht una convenzione per lo sgombero della Catalogna e per l'armistizio
d' Italia, ma non volle un mese dopo, aderire alle proposte di pace fatte dalla Francia.
Le trattative fra i contendenti furono continuate senza che lui potesse confutare la
stipulazione di vari trattati.
Vittorio Amedeo II ne sottoscrisse due: uno con la Francia e l'altro con la Spagna. Quello
con la Francia costava di venti articoli. Luigi XIV restituiva la Savoia, Nizza e tutti
gli altri luoghi occupati durante la guerra; cedeva la valle di Pragelas suoi forti di
Exilles e di Fenestrelle, le valli di Oulx, Cesana, Bardoneche, Castel Delfino e tutto il
versante piemontese delle Alpi; riconosceva Vittorio Amedeo re di Sicilia, gli assicurava
la successione di Spagna qualora si estinguesse la dinastia di Filippo V ed approvava le
cessioni fattegli dall' imperatore Leopoldo con il trattato del 1703; in cambio il duca di
Savoia cedeva alla Francia la valle di Barcellonetta con le sue dipendenze.
Con il secondo trattato Filippo V cedeva al duca di Savoia la Sicilia e le isole
dipendenti le quali però dovevano tornare alla Spagna nel caso che si estinguesse la
prole maschile Sabauda. Oltre questo si riconosceva a Vittorio Amedeo il diritto di
succedere al trono spagnolo qualora fosse mancata una discendenza maschile di Filippo V.
Con la pace di Utrecht terminava la guerra tra la Francia da una parte e l' Inghilterra,
l'Olanda e il Piemonte dall'altra e da queste ultime potenze Filippo era riconosciuto re
della Spagna. Rimanevano ancora in lotta la Francia e l'impero; ma questa guerra, data la
stanchezza dei due stati, non doveva durare a lungo. Manifestatosi desiderio di concludere
la pace, si scelse come luogo delle trattative il castello di Radstadt e qui convennero il
principe Eugenio di Savoia come plenipotenziario imperiale e il maresciallo di Villars
come plenipotenziario francese. Le conferenze cominciarono nel novembre del 1713 e il 7
marzo del 1714 venne firmato un trattato, che, confermato più tardi a Basilea, pose fine
alla guerra di successione di Spagna, ch'era durata undici anni.
un approfondito link sulla storia di Genova:
Genova nei secoli
doro
Altri argomenti collegati:
STORIA DELLISOLA DI SCIO PRIMA DEI
GIUSTINIANI
LA VITA AMMINISTRATIVA DEI
GIUSTINIANI A SCIO
LOCHIO DRITO DE LA CITÀ
NOSTRA DE ZENOA IL PROBLEMA DELLA DIFESA DI CHIO NEGLI ULTIMI ANNI DEL DOMINIO
GENOVESE. di Enrico Basso tratto da: Associazione di
studi storici militari
LE MONETE A CHIOS AL TEMPO DEI
GIUSTINIANI (Si ringrazia in particolar modo il Prof. Andreas Mazarakis per il suo
contributo alla stesura di questo paragrafo)
NOTIZIE ARALDICHE E VICISSITUDINI
STORICHE DELLE FAMIGLIE DI ORIGINE GENOVESE A CHIOS DOPO IL 1566
I Genovesi d'Oltremare i primi coloni
moderni (Michel Balard IL SECOLO XIX 29/4/2001)
STORIA DELLA CITTA DI GENOVA DALLE
SUE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA MARINARA
Una pagina di storia importante ha visto come protagonista Pietro Giustiniani, Ammiraglio
della flotta dei Cavalieri di Malta e Gran Priore dellOrdine.
LA BATTAGLIA DI LEPANTO 7 OTTOBRE 1571
STORIA DI GENOVA E DEL REGNO DI
SPAGNA IN ITALIA DAL 1600 AL 1750
IL REGNO VENEZIANO DI MOREA E
LULTIMA GUERRA CRISTIANA CONTRO I TURCHI A SCIO DEL 1695
Pirati e pirateria nel Mediterraneo
medievale: il caso di Giuliano Gattilusio di Enrico Basso. Stampa in Praktika
Synedriou Oi Gatelouzoi tìs Lesbou, 9-11 septembríou 1994, Mytilini, a cura
di A. Mazarakis, Atene 1996 (Mesaionikà Tetradia, 1), pp. 343-371 ©
dellautore - Distribuito in formato digitale da Reti Medievali
Nuclei famigliari da Genova a Chio nel
quattrocento di Laura Balletto
Gli orizzonti aperti. Profili
del mercante medievale , a cura di G. Airaldi, Torino 1997 © degli autori e
dell'editore. (Indice. - Gabriella Airaldi, Introduzione. Per la storia dellidea di
Europa: economia di mercato e capitalismo. - Jacques Le Goff, Nel Medioevo: tempo della
Chiesa e tempo del mercante. - Roberto S. Lopez, Le influenze orientali e il risveglio
economico dellOccidente. - Eliyahu Ashtor, Gli ebrei nel commercio mediterraneo
nellalto medioevo (secc. X-XI). - Abraham L. Udovitch, Banchieri senza banche:
commercio, attività bancarie e società nel mondo islamico del Medioevo. - Nicolas
Oikonomides, Luomo daffari. - Armando Sapori, La cultura del mercante
medievale italiano. - David Abulafia, Gli italiani fuori dItalia. - Gabriella
Airaldi, Modelli coloniali e modelli culturali dal Mediterraneo allAtlantico. -
Jacques Heers, Il ruolo dei capitali internazionali nei viaggi di scoperta nei secoli XV e
XVI. - Gabriella Airaldi, Leco della scoperta dellAmerica: uomini
daffari italiani, qualità e rapidità dellinformazione)
Molto documentazione su questo periodo storico su: