PRELIMINARI ALL’EDIZIONE CRITICA DEL

DISCORSO SOPRA LA MUSICA DE’ SUOI TEMPI DI VINCENZO GIUSTINIANI (1628).

estratto a cura di Gennaro Tallini (INSRM - ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI PER IL RINASCIMENTO MERIDIONALE - NAPOLI)

Il saggio presenta alcune argomentazioni fondamentali da cui partire per assemblare l’edizione critica del Discorso sopra la musica de’ suoi tempi del marchese Vincenzo Giustiniani, scritto nel 1638 e facente parte di una serie di epistole ad argomento critico- artistico e pubblicate nel tempo solo in relazione alle discipline cui rimandano. Soprattutto il Discorso in oggetto, sempre citato ma mai realmente letto, ricopre una importanza fondamentale non soltanto per gli studi storico-musicali relativi al periodo Cinqueseicentesco, ma anche per quelli letterari dello stesso periodo poiché evidenzia alcune discendenze teorico-critiche nella esposizione argomentativa che rimandano, in gran parte, alle teorie di derivazione ciceroniana (Orator e De oratore) di Antonio Minturno, e poi, sul versante della Accademia Fiorentina, di Girolamo Mei e Francesco Patrizi.

il suonatore di liuto caravaggio converto di giovaniconverto di giovani
Vincenzo Giustiniani, fu proprietario e committente di quindici dipinti caravaggeschi. Qui raffigurati i tre quadri (Amor vincit omnia, il Suonatore di liuto e il Concerto di giovani) fondamentali per dimostrare l’interesse culturale del committente e la vicinanza ideale e di intenti che lega Vincenzo a Caravaggio. In particolare il quadro Amor vincit omnia («[…] un amore ridente, in atto di dispregiare il mondo, che tiene sotto con diversi stromenti, corone, scettri, et armature, chiamato per fama il Cupido di Caravaggio […]», presenta, come nel Suonatore di liuto e nel Concerto di giovani, diverse partiture riproducenti brani musicali. Vicino agli spartiti, in secondo piano, vari strumenti sono assemblati in stile natura morta. Il tema è collegato alla personalità di Vincenzo, la cui preferenza documentata per questo quadro sarebbe indicativa di un rapporto più sottile, sottolineato dal gioco verbale con il proprio nome, Omnia vincit amor / Omnia vincit Vincentius; gli oggetti simbolici presenti nel quadro, infatti, altro non sono che la rappresentazione degli interessi giustinianei: strumenti e spartiti alludono alle conoscenze musicali, la squadra rappresenta la geometria, la piuma e il libro indicano le facoltà letterarie, l’alloro la fama che viene dalle virtù, la corazza il cavalierato, il globo lo studio della astronomia, lo scettro il passato dominio su Chios e l’eros l’ideale neoplatonico, filo-ficiniano e plutarcheo.

Vincenzo Giustiniani fu educato, per volere del padre, alla musica e fu vicino ad Arcadelt e di Lasso, allora massimi musicisti viventi. La frequentazione dei due compositori, gli permise di conoscere i progressi in atto a Venezia, Ferrara e soprattutto Mantova, dove soprattutto de Wert stava istituzionalizzando i modi del «componere a più voci».
È dunque evidente che Giustiniani ha conseguito, non solo una solida conoscenza delle tecniche della composizione, ma che anche ha vissuto dall’interno la rivoluzione delle scuole musicali regionali che alla fine del Cinquecento investe Roma, Venezia, Napoli.
Grazie alla preparazione conseguita, alle personali ed indubbie capacità musicali ed agli interessi coltivati, Vincenzo sviluppò una viva passione per l'antico, che non si riversò soltanto nel collezionismo, ma anche nella catalogazione e nello studio della maniera; non solo, ma fu proprio la particolare strutturazione degli interessi e degli studi che permise al marchese di considerare l’arte prodotta dalla sua epoca e dal passato, non come opera a sé stante, indipendente da tutto e tutti, ma come finalizzata ad un pubblico, con ciò considerando l’arte stessa come modello propositivo e non come prodotto indiscutibile.
Vincenzo è autore di una serie di scritti sulle arti e sui mestieri, elaborati in forma di lettere indirizzate a Theodor Ameyden. Tra questi sono di fondamentale importanza, non soltanto per la comprensione del suo gusto artistico ma anche per le molte informazioni che se ne possono trarre, i Discorsi sulla pittura, sulla scultura, sulla musica e sull'architettura.
Nel corso degli anni gli studiosi si sono soprattutto occupati degli scritti del marchese Vincenzo sulla pittura, sulla scultura e sull’architettura. Quasi trascurato del tutto il discorso sopra la musica.
Possiamo affermare che il Discorso sulla musica de’ suoi tempi di Vincenzo Giustiniani è quasi sicuramente la prima, effettiva storia della musica di cui si ha notizia;
Lo stimolo alla scrittura, proveniente da una precisa richiesta di Teodoro Amayden («Ma solo con l’intenzione che ho di dar gusto e sodisfazione a V. S. nella richiesta che mi fece»), è organizzato e gestito «quasi come una narrazione in guisa d’istoria» corredata di esempi e organizzata, come nel discorso sulla musica, a partire dalla fanciullezza e dalla epoca dei suoi primi studi musicali, fino a comprendere tutta l’attività musicale del tempo a lui contemporaneo.
Vincenzo Giustiniani vive nel particolare clima culturale che contraddistingue la Roma papale tra il regno di Sisto V (eletto nel 1585) e quello di Clemente VIII (deceduto nel 1605), periodo in cui va sistemizzandosi quel tentativo di instaurare una monarchia assoluta, fattore storico, politico e culturale che era già chiaro ed evidente ai contemporanei dei due fratelli Giustiniani, basti pensare alle relazioni da Roma dell’umanista Paolo Paruta risalenti al 1595.
La cultura, dunque, se passa ancora per le mani di una aristocrazia letteraria che se ne serve come accidente affettivo e cortigiano, pure, comincia però ad assumere tutti quei contenuti di rivoluzionarietà e progressivismo storico che caratterizzerà l’epoca successiva; e più si caratterizzerà in questa maniera, più la chiesa si chiuderà in se stessa cercando protezione al suo interno.
La più recente edizione a stampa del Discorso sopra la musica di Vincenzo Giustiniani risale - insieme ad altri Discorsi che il cardinale scrive sulla pittura, l’architettura, la scultura, la caccia - all’edizione curata da Anna Banti per Sansoni (Firenze, 1981). L’originale, con il titolo Delle fabbriche, è manoscritto e composto sotto forma di lettera indirizzata a Teodoro Almyden, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, mentre un’altra copia è conservata, presso l’Archivio di Stato di Lucca.
Lo scritto sulla musica è da datarsi tra il giugno e l’ottobre 1628, limitazione temporale, pur non imposta dall’autore, e quella che si desume da alcune opere pubblicate al tempo di Vincenzo Giustiniani.
Vincenzo non è l’unico autore che rivolge la propria attenzione verso la catalogazione di nomi e stili compositivi musicali, ma ciò che invece rappresenta un’autentica novità nel Discorso giustinianeo è la classificazione della produzione e degli stili in base alla propria vita, alla propria formazione e livello sociale di riferimento. Per la prima volta forse, si tiene conto di un pubblico, di effetti e risultati di quella data composizione o di quel dato stile su di esso rispetto al livello sociale ed al grado di autoreferenzialità del brano musicale rispetto al clima culturale in cui esso è stato prodotto e recepito. Pur con un grado di empirismo eccessivo e con vistosi errori o omissioni (sarebbe interessante, infatti, indagare il perché della mancata citazione di Emilio de’ Cavalieri e di altri illustri assenti), il discorso volutamente storicizzato di Giustiniani si muove in sei punti ben precisi e delineati che poi, tra di loro, si intersecano creando nuovi interrogativi e nuovi argomenti da affrontare.
Il primo di essi è relativo alla musica «de’ suoi tempi», quella cioè composta ed eseguita (per generi, forme e stili) al tempo della sua prima formazione musicale. Così, le musiche di Arcaldelt, Striggio, Lasso, de Rore e de Monte e le villanelle in uso nella sua infanzia sono il primo approccio, per generi, forme e stili, che la storia della musica in epoca moderna conosca, a prescindere dal catalogo nominativo degli autori.
Il secondo aspetto è rappresentato dalla novità, in termini di progresso compositivo, della musica dall’epoca della infanzia a quella della maturità di Vincenzo; i «dilettosi» Marenzio, Palestrina («Pellestrina») e Giovannelli sono i nuovi campioni di questa seconda generazione di compositori italiani, capaci di traghettare la musica italiana dalle scuole regionali barocche al predominio sulla musica europea.
Il terzo momento riguarda l’evoluzione del canto e la nascita, in Roma prima e poi a Modena e Ferrara, della moda del virtuosismo vocale, argomento questo che permette di introdurre il quarto punto, quello relativo invece alla musica in Napoli (Gesualdo su tutti).
Il terzo momento riguarda l’evoluzione del canto e la nascita, in Roma prima e poi a Modena e Ferrara, della moda del virtuosismo vocale, argomento questo che permette di introdurre il quarto punto, quello relativo invece alla musica in Napoli (Gesualdo su tutti).
Il quinto argomento interessa invece il rapporto che lega mecenati e compositori, in particolare ancora a Roma (il cardinale Montalto) e Firenze (il cardinale Ferdinando de Medici poi Granduca di Toscana)11. A sua volta, questa parte serve da introduzione al mecenatismo di Filippo IV di Spagna ed al favore che la musica sacra policorale incontrava soprattutto nel paese iberico, pendant con l’equivalente parte del dialogo sopra la pittura in cui si parla della moda del collezionismo in Francia ed, appunto, in Spagna. Ciò accade anche perché, il marchese Giustiniani appartiene, come Amayden, al partito filospagnolo e dunque la citazione continua della cultura spagnola, come esempio da seguire, è anche un modello di riferimento politico non indifferente.
La tradizione musicale narrata da Giustiniani obbedisce a canoni e principi costruttivi che non sono a lui coevi, ma che il barocco ed il manierismo del Cinquecento hanno saputo cambiare, tenendo lo stesso d’occhio, sia la tradizione che i cambiamenti artistici e le nuove visioni che, i poeti in particolare, avevano saputo costruire nella propria riflessione.
Tale scelta narrativa è voluta e dichiarata, non a caso Giustiniani prende in considerazione solo la musica sacra e quella strumentale.
Il melodramma non può interessare (ed è questo uno dei motivi per cui non si cita l’attività di Vincenzo Galilei, la Camerata dei Bardi ed Emilio de’ Cavalieri) perché, da un lato, in presenza di una forma sostanzialmente monodica (e raramente polifonica), non è in grado di assorbire il linguaggio contrappuntistico ed i principi imitativi all’interno delle proprie forme, dall’altro, è impotente di fronte allo svilupparsi delle tecniche di esecuzione strumentali che, sempre più, at tirano il pubblico e ne determinano i gusti molto più che gli intermedi e le tragedie in musica.
Un’altra novità letteraria del Discorso risiede nella trattazione e nel modello di scrittura adottato. Questa, infatti, passa da monologo tecnico a trattato vero e proprio. Infatti, quella che, apparentemente, sembra una semplice epistola a carattere trattatistico, diventa un testo che, pur nella brevità e stringatezza dei concetti, mostra una struttura retorica chiara e ben delineata, completamente aderente alle regole retoriche fissate dalla latinità classica ed in particolare Cicerone. Il collegamento, infatti, è ancora il Cicerone dei trattati di retorica, visto che, la struttura espositiva portante dell’autore latino (inventio, actio, memoria) viene rispettata in pieno.
Il Discorso, sotto forma di scrittura adottata, è doppiamente importante, primo perché investe tutti i Discorsi e non solo quello sulla musica, secondo perché dimostra una volontà scritturale completamente immersa negli stili comunicativi adottati dalla sua epoca, la quale peraltro, offre diverse testimonianze sulla trattatistica epistolare, a partire da Torquato Tasso per giungere ancora al già citato Pietro della Valle e tanti altri autori a loro contemporanei. La lettera offre lo spazio necessario a descrivere, confutare (se il caso) ed esporre le proprie idee in maniera succinta ma chiara (in omaggio alla brevitas ciceroniana), non tralasciando argomenti e permettendo di scegliere in maniera adeguata tutti i contenuti principali.
Il modello è, ancora una volta quello tassesco dei Discorsi, qui ridotti dal nostro marchese di Bassano a compendio argomentativo altamente conciso e pure lo stesso esauriente, scritto per un pubblico (una sola persona in questo caso, il che mantiene la forma strutturale breve dell’epistola) che riconosce in quel modello scritturale modi, forme e contenuti autoreferenziali ancora cortigiani e collegati alla funzione stessa dell’aspetto musica in un ambito prima di tutto sociale e culturale di intrattenimento, e poi anche professionale tout court.


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